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il cinema e le altre arti 







Gorizia Le Mani 




















Indice 


CINERGIE 

il cinema e le altre arti 

n. 15. marzo 2008 

Direzione 

Laboratorio Cinemantica , Dipartimento di 
Storia e Tutela dei Beni Culturali; 
Laboratorio Crea , 

Corso di Laurea DAMS, Gorizia 
Università degli Studi di Udine 

Direttore 

Roy Menarini 

Comitato di redazione 

Alice Autelitano, Enrico Biasin, Ilaria 
Borghese, Giulio Bursi, Davide Gherardi, 
Veronica Innocenti, Valentina Re 

Redazione 

Alice Autelitano, Stefano Baschiera, Enri¬ 
co Biasin, Ilaria Borghese, Roberto Braga, 
Piera Braione, Maurizio Buquicchio, Giu¬ 
lio Bursi, Margherita Chiti, Francesco Di 
Chiara, Livio Gervasio, Davide Gherardi, 
Marco Grosoli, Veronica Innocenti, Aldo 
Lazzarato, Roy Menarini, Cristiano Poian, 
Leonardo Quaresima, Valentina Re, Anna 
Soravia, Roberto Vezzani 

Hanno collaborato a questo numero 

Serena Aldi, Piera Braione, Stefano 
Baschiera, Paolo Bertolin, Maurizio 
Buquicchio, Roberto Castrogiovanni, 
Francesco Chillemi, Francesco Di Chiara, 
Claudio Di Minno, Dunja Dogo, France¬ 
sca Esposito, Angelita Fiore, Marzia 
Gandolfi, Davide Gherardi, Federico 
Giordano, Marco Grosoli, Sara Martin, 
Roy Menarini, Federico Pagello, Laura 
Sangalli, Matteo Stefanelli, Roberto 
Vezzani, Federico Zecca 

Reperimento immagini 

Marco Cornar 

Redazione 

c/o Laboratorio CREA 
Piazza Vittoria 41, Gorizia 
tei. 0481 82082 
cinergie@libero.it 
www.damsweb.it 

Progetto e realizzazione copertina 

Marco Vimercati 

© Le Mani Edizioni 

Via dei Fieschi, 1 

16036 - Recco (Ge) 

www.lemanieditore.com 

e-mail: lemani.editore@micromani.it 

stampa: Microart’s S.p.A. - Recco (GE) 

La pubblicazione è stata realizzata con il 
contributo di 

Università degli Studi di Udine 



TAVOLA ROTONDA 


3 Allegro ma non troppo 

Tavola rotonda sul cinema comico Usa 


ULTIMO SPETTACOLO 


10 Venere in Dodge Challenger 

Grindhouse - A prova di ?norte ( Grind- 
house - Death Proof Quentin Tarantino, 
2007) 

12 II cinema di exploitation nell’epoca 
della riproducibilità tecnica 

Grindhouse (Robert Rodriguez e Quen¬ 
tin Tarantino, 2007) 

12 Terrore tra gli stati membri 

14 Da André and Wally B. a Ratatouille. 
Pixar, una macchina creatrice 


FAHRENHEIT 451 


16 Quel genere d’attore 

L’esplosione degli studi sull’attore e l’in¬ 
tima immortalità del concetto di genere 

18 Recensioni 


CINEMA E LETTERATURA 


20 Un sogno lungo un’eternità 

Un'altra giovinezza {Youth Without 
Youth , Francis Ford Coppola, 2007) 

22 Ne touchez pas à la hache. Sul demone 
in Balzac e Rivette 

La Duchessa di Langeais {Ne touchez pas 
à la hache, Jacques Rivette, 2007) 


Fondazione Cassa di Risparmio di Udine 
e Pordenone 

FONDAZIONE CUP 



CINEMA E ARTI VISIVE 


24 Escursioni nell’inconscio con il regi¬ 
sta Jochen Kuhn 

26 André Kertész tra fotografìa e cinema: 
una prima ricognizione 


TV FILES 


28 Prisoji Break fra ripetizione e trasfor¬ 
mazione 

30 L’inanità del linguaggio e la visione 
impossibile 

Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare a 
Laforgue) (Carmelo Bene, 1974) 


SOTTO ANALISI 


32 II Museo postmoderno 

37 Chi si vuole conservare si perde. Tem¬ 
po e spazio barocco nel cinema di Max 
Ophuls 


LE CITTÀ DEL CINEMA 


39 LXIV Mostra Internazionale d’Arte 
Cinematografica - Venezia 

Archeologie western a Venezia 

40 Trompe-l’oeil 

41 I-Tube: un fake-reality show dalla 
guerra d’Iraq 

Poi comincia la polvere 

Orizzonti Doc 

42 Stile di famiglia 

43 XLIII Mostra Internazionale del Nuo¬ 
vo Cinema di Pesaro 

Le piccole Italie nascoste nel nuovo 
mondo. Il cinema italoamericano con¬ 
temporaneo 


43 XXI II Cinema Ritrovato 2007 - Bolo¬ 
gna 

“Dio ti vede, Stalin no”. Intervista a 
Tatti Sanguineti 

44 La musica per film. Intervista a Mar¬ 
co Dalpane 

45 XII Pusan International Film Festival 
(PIFF) 

Asia: le nuove correnti vengono da 
Sud Est 

46 XXVI Le Giornate del Cinema Muto 
Pordenone 

Inedita Starevic 

L’interazione tra narrazione e spazio 
in un film di fine Ottocento 

48 II Cinema - Festa Intemazionale di 
Roma 

Riflessi in uno specchio oscuro 

49 VII Science + Fiction - Festival Inter¬ 
nazionale della Fantascienza - Trieste 

Effetti speciali, mozzarelle e “cattive¬ 
ria” spagnola 

50 XXV Torino Film Festival 

Il cielo sopra Torino 


SPECIALE 


51 Nuvole (parlanti) all’orizzonte 

Speciale Cinema e fumetto nel panora¬ 
ma contemporaneo 

52 II boom del cinefumetto e i suoi confi¬ 
ni 

Il successo del cinefumetto e i discorsi 
del boom 

54 Città di immagini e parole 

La metropoli nel cinema e nella televi¬ 
sione influenzati dal fumetto 

56 Deus ex Machina 

Brian K. Vaughan: una proposta di mo¬ 
nografìa 

58 Lo splendore della vita di ogni giorno 

American Splendor. La vita e le stagioni 
di Harvey Pekar tra cinema e fumetto 

61 7Brothers e il debutto di Woo nel mon¬ 
do dei comics 








Allegro ma non troppo 

Tavola rotonda sul cinema comico Usa 

Hanno partecipato: Roy Menarini 
(RM), Marco Grosoli (MG), France¬ 
sco Di Chiara (FDC), Maurizio Bu- 
quicchio (MB), Davide Gherardi 
(DG) 

RM: Partiamo da qualche annotazio¬ 
ne preliminare. A partire dal saggio di 
Luca Bandirali ed Enrico Terrone, 
“Apologia del filmetto”, apparso su Se- 
gnocinema del luglio-agosto 2005, si è 
sviluppato, sia pure in maniera fram¬ 
mentaria, un nuovo interesse estetico 
nei confronti del cinema di comme¬ 
dia, comico e farsesco. L’idea dei due 
critici è quella che esiste un cinema 
americano di commedia aH’interno 
del quale una sorta di “idea cellula” 
viene sviluppata in tutte le direzioni: 
essa investe tutte le dimensioni della 
realizzazione cinematografica, dalla 
scenografia, fesa eloquente e significa¬ 
tiva, alla recitazione, in cui gli attori 
esplicitano gli aspetti simbolici nasco¬ 
sti, fino alla regia, che diviene traspa¬ 
rente e limpida. 

Ho pensato che fosse un punto di par¬ 
tenza interessante per osservare quello 
che sta accadendo in questi anni ai 
film comici e farseschi. Innanzitutto 
proporrei due riflessioni. La prima è 
che, nella filmografia demenziale più 
esplicita, ma anche nelle commedie 
che possiedono qualche elemento 
scurrile, sono emerse delle differenze 
proprio negli ultimissimi anni. La mia 
impressione è che assai meno del soli¬ 
to venga enfatizzato l’aspetto biologi¬ 
co, escrementizio, quello più devastan¬ 
te delle funzioni del corpo, e ci si pro¬ 
spetti invece un ritorno importante al¬ 
le funzioni della commedia classica. 
L’ipotesi, che rilancio a voi, è innanzi¬ 
tutto questa: posto che demenziale e 
horror non di rado si trovano in una 
relazione di strana parentela, mi chie¬ 
do se questo aspetto non venga dele¬ 
gato proprio all’horror, che di recente 
si è estremizzato. La seconda riflessio¬ 
ne riguarda, invece, la senescenza di al¬ 
cune figure degli anni Novanta: pren¬ 
diamo, ad esempio, un protagonista 
come Ben Stiller. Stiller sta legger¬ 
mente modificando i propri ruoli, fa 
sempre gli stessi film, però su un ver¬ 
sante familista: la saga dei Ti presento i 
miei, Una notte ai museo e così via sono 
meno ferocemente puntati sul fisico e 
sul biologico rispetto alla prima parte 
della sua carriera o a film come Tutti 
pazzi per Mary. E quando non fa film 
mirati alle famiglie va incontro ad una 
flessione degli incassi, la stessa che sta 
affrontando Adam Sandler, per non 
parlare di quella - macroscopica - che 
sta fronteggiando Jim Carrey, il quale 
da qualche anno cerca di riciclarsi per¬ 


sino con l’horror, come ha fatto in 
Number 23. 

Si dice che il ricambio odierno è stato 
attuato dal cosiddetto “genere Judd 
Apatow”, ovvero 40 anni vergine, Mol¬ 
to incinta o Suxbad, che Apatow non 
ha diretto ma prodotto e super-visiona¬ 
to: film che vengono altresì interpreta¬ 
ti come “cinema demenziale repubbli¬ 
cano”, come si è letto da qualche par¬ 
te, perché - a fronte di dialoghi e si¬ 
tuazioni pecorecci - propongono solu¬ 
zioni tradizionaliste e familiari. 
Dunque, ci sono delle modificazioni in 
atto e ce una larghissima produzione 
che ha svegliato critici da molto tem¬ 
po impigriti rispetto a tale produzione: 
mi chiedo, allora, se questo cinema 
possieda un senso, se produca qualche 
significazione di cui è il caso di tenere 
conto, oppure no: volendo, possiamo 
anche decretare che questo cinema 
non ci interessa e non è significativo 
culturalmente. 

MG: Mi ricollego a quanto Roy dice¬ 
va sulla scatologia, che ultimamente 
verrebbe un po’ meno, per avanzare al¬ 
cuni dubbi sull’apologià del filmetto 
pubblicata su Segnocinema. Il fatto che 
venga meno Io scatologico, che prima 
era tra le cose che più marcatamente 
segnalavano “il mondo” (nozione che 
in Bandirali e Terrone, almeno nelle 
intenzioni, è qualcosa di più consisten¬ 
te del semplice “set”), proietta, credo, 
alcune ombre sulla teoria degli apolo¬ 
ghi. A quanto ho capito il loro discor¬ 
so è finalizzato a vedere il filmetto co¬ 
me una specie di pedagogia del com¬ 
promesso tra il principio di piacere e il 
principio di realtà, laddove il principio 
di realtà sarebbe incarnato appunto 
non più, come nella commedia tradi¬ 
zionale, da un set come teatro degli 
scambi tra il principio di piacere (del 
personaggio e delle sue pulsioni) e 
un’istanza in qualche modo esterna, 
bensì da questa istanza che è il mondo, 
cioè qualcosa di autonomo rispetto al 
soggetto, al linguaggio e quindi al 
principio di piacere, e che verrebbe a 
fondarne più o meno una controparte 
indipendente. Il fatto che adesso ven¬ 
ga meno quello che più marcatamente 
rappresentava la consistenza del mon¬ 
do (la materialità ultraconcreta dello 
scatologico), secondo me è una spia 
abbastanza utile del fatto che molto 
probabilmente quello che è visto come 
un distacco da una concezione ìm- 
prontata sul set non è in realtà qualco¬ 
sa di così diverso. Non comprendo be¬ 
ne sinceramente dove si differenzi la 
nuova commedia, demenziale o meno, 
da quello che bene o male è sempre 
stata la commedia, cioè questo terreno 
di compromesso tra principio di piacer 
re e principio di realtà e tutto ciò che 
ne consegue e che ne è collegato. Però, 













TAVOLA ROTONDA 


appunto, l’obiezione più naturale po¬ 
trebbe essere, semplicemente: “in ef¬ 
fetti l’importanza del filmetto è pro¬ 
prio evidenziare queste caratteristiche 
che nella commedia ci sono sempre 
state, magari limitandosi a confermar¬ 
le con mezzi aggiornati”, il che è asso¬ 
lutamente legittimo. In tal caso, a que¬ 
sto punto, mi verrebbe da fare altre 
obiezioni: se è ancora sostenibile di 
fatto, anche analiticamente, un’ipotesi 
come quella del principio di piacere e 
del principio di realtà come due aspet¬ 
ti effettivamente scollegati e che vanno 
l’uno contro l’altro, è anche vero che 
questa nozione in mille modi è stata 
contrastata psicanaliticamente, per 
esempio da Marcuse o da Lacan; ma 
anche questo potrebbe essere parato 
dicendo “è vero, però già il fatto che 
questo sia un sintomo di un ritorno ad 
una visione del mondo veterofreudia- 
na è importante di per sé, significativo 
in quanto sintomatico di un’epoca e 
della sua visione del mondo”. A questo 


punto, una ulteriore obiezione che mi 
viene da fare è: davvero siamo davanti 
a una riconferma complessa e stratifi¬ 
cata di una qualche essenza della com¬ 
media quando in realtà un gran nume¬ 
ro, assolutamente significativo, di film 
e universi comici hollywoodiani sono 
andati proprio contro questa visione 
generale del principio di piacere e 
principio di realtà come due entità 
scollegate che vanno una contro l’al¬ 
tra? Pensiamo a Billy Wilder, uno che 
ha sbeffeggiato mille volte chi si face¬ 
va fregio della vulgata freudiana (pen¬ 
so ad esempio allo psicanalista di Pri¬ 
ma pagina che diventa famoso con un 
libro intitolato “Le gioie dell’impoten¬ 
za”). Wilder ha sempre operato un co¬ 
spicuo scarto tra una scenografìa quasi 
iperrealistica con un principio di pia¬ 
cere incarnato dal dialogo, che stavano 
come due entità sì separate ma tal¬ 
mente coincidenti in sé, nella loro se¬ 
parazione, che anche un mediatore ap¬ 
parentemente onnipotente come il de¬ 


naro (l’altra figura cardine del cinema 
di Wilder) si rivelava, ben di più, irri¬ 
mediabilmente evanescente 1 . Tutto 
questo smonta dall’interno la visione 
di Bandirali e Terrone del filmetto co¬ 
me conferma della commedia a sua 
volta fondata sul compromesso piace¬ 
re/realtà. Già Lubitsch di fatto nullifi¬ 
cava lo spazio rendendolo una pura so¬ 
glia (ovviamente il discorso delle porte 
ecc. ecc.), lasciando il campo libero al 
principio di piacere incarnato dal dia¬ 
logo, che raggiunge vette di virtuosi¬ 
smo insuperato - lo spazio insomma 
non c’era più, era solo una pura forma 
senza una consistenza propria. Per non 
parlare di Blake Edwards che era pro¬ 
prio il regista del dissolvimento del 
set, cui fa fronte un principio assoluta- 
mente speculare di piacere fondato 
sulla propria impasse costitutiva. E qui 
secondo me la difficoltà: si vuole vede¬ 
re il filmetto come riconferma di una 
visione essenziale radicata nella com¬ 
media che in realtà è stata già smenti¬ 
ta da coloro che di fatto la commedia 
l’hanno creata. Da un lato il fatto che 
registi come Robert Luketic, piuttosto 
che riconfermare il compromesso in 
cui consisterebbe la commedia, si ri¬ 
fanno direttamente a quella classicità 
inevitabilmente (ad esso) refrattaria, 
tentando di farne un calco in vitro: La 
rivincita delle bionde o Quel mostro dì 
suocera si rifanno stilisticamente a 
Cukor e a Hawks in maniera piuttosto 
chiara. C’è un senso della solidità, del¬ 
la sintesi nella messa in scena che evi¬ 
dentemente non si trova ad esempio in 
Tu io e Dupree. Dall’altro, e cosa ben 
più significativa, Bandirali e Terrone 
mancano l’evidenza come, per così di¬ 
re: non vedono la coda dell’amico di 
Jack Black in Amore a prima svista, nel 
senso cioè che tentativi espressamente 
wilderiani di messa in scena come 
quello dei Farrelly attentano proprio 
alla forma del compromesso tra prin¬ 
cipio di piacere e principio di realtà, 
tutt’altro che vedendola come qualco¬ 
sa di solido da riconfermare. Ciò poi si 
vede chiaramente in Lo spaccacuori do¬ 
ve non c’è più il mondo, bensì due am¬ 
bienti inconciliabili che anzi spingono 
il protagonista a vanificarne il confine. 
Questi due ambienti diversi non si 
coagulano in un mondo (tant’è vero 
che il protagonista è costretto a sce¬ 
gliere), così come viene portato avanti 
un ritratto del principio di piacere an¬ 
cora come qualcosa che è intrinseca¬ 
mente ostacolato, dall’interno, dalla 
sua stessa realizzazione. 

FDC: Io terrei l’articolo di Bandirali e 
Terrone soltanto come un punto di 
partenza, nel senso che ha il grande 
merito di spostare l’attenzione sul ci¬ 
nema comico-commedia di oggi. 
Chiaramente risulta provocatoria l’i¬ 


dea di creare un nuovo minigenere, 
con un corpus che può anche essere 
discutibile, in un momento in cui sa¬ 
rebbe forse più profìcuo discutere dei 
rapporti tra comico e commedia, che 
sono due categorie trans-storiche e 
trans-nazionali che esistono da prima 
del cinema, e vedere magari quale è 
stato il loro rapporto in quegli anni 
Novanta, che credo siano, in accordo a 
quanto detto prima, il momento di na¬ 
scita di quel nuovo legame tra la com¬ 
media e il demenziale di cui abbiamo 
iniziato a parlare oggi. Nello scorso 
decennio hanno iniziato ad avere mag¬ 
giore risonanza film che puntano mar¬ 
catamente sulla dimensione corporale 
(Jim Carrey è uno dei protagonisti di 
questa fase), all’interno di un sistema 
nel quale al box office dominano anco¬ 
ra commedie sullo stile di quelle inter¬ 
pretate da Julia Roberts e Richard Ge- 
re, o film comici incentrati su di un at¬ 
tore che ultimamente è in fortissima 
flessione come Robin Williams, i cui 
film escono ormai solo destate. L’idea 
era (e questo è il caso anche dei film di 
Tom Shadyac, che negli ultimi film, 
come Una settimana da Dio o Un’im¬ 
presa da Dio, si sta piuttosto avvicinan¬ 
do a Judd Apatow) quella di fare un ci¬ 
nema comico, indirizzato anche all’in¬ 
fanzia (come il capostipite Ace Ventura ) 
nel quale la dimensione corporale-fi¬ 
siologica acquisiva una dimensione 
preponderante. D’altra parte la dimen¬ 
sione corporale, scatologica o meno, è 
connaturata al comico stesso, storica¬ 
mente, se andiamo a vedere anche nel¬ 
lo slapstick, la corporeità intesa come 
ipercineticità dell’autore automa era 
fondamentale. E anche uno dei motivi 
per cui forse il comico non ha mai avu¬ 
to tantissima attenzione critica: un ar¬ 
ticolo di dieci anni fa di Linda Wil¬ 
liams 2 parlava proprio della scarsa at¬ 
tenzione critica nei confronti di melo¬ 
dramma, horror e porno, e formulava 
l’ipotesi che ciò fosse dovuto ad un 
tabù culturale nei confronti di film che 
rappresentano sullo schermo e induco¬ 
no nello spettatore delle reazione fisio¬ 
logiche, come possono essere la lacri¬ 
ma, l’urlo o l’eccitazione, e in questo 
senso è ironico che lei stessa nel suo 
saggio tralasci proprio il comico che 
provoca il riso e lo rappresenta sullo 
schermo. Possiamo quindi anche pen¬ 
sare che il rapporto tra il comico e la 
commedia sia quello tra due tipi di ci¬ 
nema inclini all’ilarità che affrontano 
in maniera diversa dinamiche simili, 
per cui il comico è più dirompente e ha 
una dimensione della corporeità meno 
mediata, sia per quanto riguarda quel¬ 
lo che si vede sullo schermo sia per il 
contegno sociale dello spettatore al 
momento della proiezione, e la com¬ 
media, fondata piuttosto sulla media¬ 
zione nelle relazioni sociali delle dina- 



40 anni vergine 



Molto incinta 



































TAVOLA ROTONDA 


miche immediatamente istintuali e 
corporali. Sono due mondi che co¬ 
munque hanno sempre avuto una for¬ 
te interrelazione all’interno del cinema 
americano: tentare di dividerli com¬ 
pletamente, quando si parla della 
screwball, ad esempio, sarebbe inutile. 
Tornando al discorso che faceva Roy 
in apertura, credo che negli anni No¬ 
vanta il comico imperniato sulla fisi¬ 
cità come quello dei Farrelly e di 
Shadyac abbia funzionato come cata¬ 
lizzatore e traghettatore verso nuove 
forme, e nel momento in cui questi 
stessi registi e gli attori che lavoravano 
nei loro film hanno voluto cercare di 
aumentare pubblico e risonanza si so¬ 
no spostati sempre più verso la com¬ 
media: in questo senso ce davvero un 
legame con l’horror perché se non mi 
sbaglio poco più di un anno separa 
Amore a prima svista, che è il film dei 
Farrelly che tende a ridurre la dimen¬ 
sione corporale, da La casa dei 1000 
corpi di Rob Zombie, che è invece un 
film che se ne fa carico in un altro con¬ 
testo. Quindi dicevamo che per i regi¬ 
sti del comico si è trattato di abbando¬ 
nare la corporeità per avere una mag¬ 
giore audience e anche una maggiore 
rispettabilità, la dimensione scatologi¬ 
ca rimane ma diluita, come nel caso di 
Apatow, all’interno di un sistema che 
fa maggiore riferimento alla dimensio¬ 
ne della commedia. 

MB: Io condivido parzialmente quello 
che diceva Marco sul conflitto, la ten¬ 
sione, sottolineata da Bandirali e Ter¬ 
rone, fra principio di piacere e princi¬ 
pio di realtà. Il caso di Lo spaccacuori è 
molto rappresentativo, vi si possono 
vedere diverse dinamiche: da un lato 
all’interno del film stesso è come se ve¬ 
nisse descritta la parabola degli ultimi 
film degli stessi Farrelly, ovvero c’è, da 
una parte, una commedia basata sulle 
relazioni o, come si vede nel film, su 
una specie di campo e controcampo 
fra il matrimonio fallito e la relazione 
ideale; o ancora si può vedere nel per¬ 
sonaggio di Ben Stiller un tentativo di 
sfuggire al processo di regressione in¬ 
fantile di tutti i film dei Farrelly, ap¬ 
punto assumendosi la responsabilità 
della crescita, del matrimonio, supera¬ 
mento della condizione di eterno sin¬ 
gle. Dall’altra parte, per quanto questa 
resistenza del reale venga riaffermata 
addirittura con dei riferimenti politici 
inediti nei film dei Farrelly, ad esem¬ 
pio nel momento in cui Stiller tenta di 
superare la frontiera tra Messico e Sta¬ 
ti Uniti per ritornare come un emi¬ 
grante messicano, e viene perseguitato 
dalla polizia di frontiera e picchiato, 
nonostante ciò la scena madre del film 
è invece una fortissima riaffermazione 
del principio di piacere, della persi¬ 
stenza di una comicità corporale basa¬ 



li» spaccacuori 


ta su escrementi, deiezioni: mi riferisco 
alla sequenza in cui la moglie di Stiller 
è costretta ad urinare sulla schiena del 
protagonista in un tripudio di musica 
messicana e di bambini urlanti. L’ulti¬ 
mo film dei Farrelly è quasi un’ammis¬ 
sione di colpa: dopo il tentativo fallito 
di evolversi verso la commedia, come 
in L’amore in gioco, remake politica- 
mente corretto dì Febbre a 90, in que¬ 
st’ultimo film, che sembra fino a quel 
momento “pulito” e addirittura più vi¬ 
cino ad una commedia newyorkese co¬ 
me certi altri film interpretati da Ben 
Stiller, c’è invece un’esplosione di cor¬ 
poreità che, anche ricollegandomi a 
Francesco che citava Jim Carrey, trovo 
sia un elemento che in un certo senso 
contraddice la tesi dì Bandirali e Ter¬ 
rone sulla sobrietà, la medietà del fil¬ 
metto, soprattutto in merito alle 
performance degli attori. Bandirali e 
Terrone parlano di una performance 
perfettamente integrata nelle dinami¬ 
che narrative, mai sopra le righe, mai al 
di fuori di un’estetica media e quasi 
naturalista, e addirittura parlano di 
un’estetica da documentario, quando 
invece, dai più eccessivi attori mario¬ 
netta come Jim Carrey o Jack Black ai 
più moderati Ben Stiller o Will Fer- 
rell, l’aspetto fisico o Yoveracting sono 
una qualità fondante. 

MG: Secondo me l’esplosione scatolo¬ 
gica di una parte di Lo spaccacuori, più 
che un ritorno del principio di realtà, 
diviene proprio affermazione dell’i¬ 
dentità speculativa tra la scatologia e 
l’ideahzzazione, la rarefazione estrema 
della messa in scena che è la cifra del 
cinema dei Farrelly degli ultimi sette 
anni. Secondo me più che un ritorno 
alla scatologia in Lo spaccacuori c’è il 
culmine di questa identità di fatto tra 
la scatologia e l’asetticità della sceno¬ 
grafia, o comunque della messa in sce¬ 
na, che hanno portato avanti i Farrelly 
negli ultimi tre o quattro film, escluso 
L’amore in gioco. A partire da questa 
identità tra opposti il film prova a se¬ 
gnare uno scarto. Più in generale credo 
che nel genere che stiamo vedendo si 
stia facendo via via sempre più chiaro 
il legame intrinsecamente inscindibile 
tra la scatologia, la concretezza dei 
materiali più bruta, e invece una mes¬ 
sa in scena trasparente fino ad essere 
quasi aerea, come più esplicitamente 
che mai avviene nei film dei Farrelly. 
Da Io, me e Irene in poi, il loro cinema 
chiarisce che in questo tipo di demen¬ 
zialità la scatologia non può che ricol¬ 
legarsi con una rarefazione estrema, e 
quindi con la trasparenza della messa 
in scena. A questo punto, è chiaro che 
la rarefazione della messa in scena, es¬ 
sendo un principio per forza di cose 
più versatile e universale dell’altro e 
opposto termine (la scatologia), è, per 


così dire, naturalmente destinata a pre¬ 
valere, e dunque la scatologia ad eclis¬ 
sarsi. Così la commedia è quasi desti¬ 
nata a soppiantare il comico, almeno se 
il comico è determinato soprattutto 
dalla materialità scatologica delle deie¬ 
zioni, o degli escrementi ecc. ecc. Si 
tratta di un’evoluzione abbastanza na¬ 
turale che il comico — come ha accen¬ 
nato Francesco - passi un po’ il testi¬ 
mone alla commedia in quanto ele¬ 
mento più versatile perché può fare af¬ 
fidamento su un principio come quel¬ 
lo dell’astrazione della messa in scena. 

DG: Una delle questioni che mi sem¬ 
bra possa sollevare questa tavola ro¬ 
tonda è che la diatriba filmetto-film 
d’autore potesse essere anche una que¬ 
stione dì rapida evoluzione e storia dei 
generi. Mi sembra di assistere a un 
particolare successo del comico più o 
meno volgare o di questa nuova cate¬ 
goria del grottesco che forse ha a che 
fare con egemonie corporative molto 
forti che si sono fatte l’idea che il pub¬ 


blico dei multiplex, che è la serie di¬ 
stributiva all’interno della quale ven¬ 
gono somministrati questi film, sia 
particolarmente propenso a consuma¬ 
re questo tipo di pellicole, e che si trat¬ 
ti quindi di un cinema di rapido con¬ 
sumo, prodotto alla stessa velocità del 
pop corn, che viene servito à pendant 
degli stessi prodotti audiovisivi di que¬ 
sti cinema. Però, guardando alla storia 
del cinema, è interessante osservare 
che questo tipo di comicità spinta, co¬ 
me sa bene chi ha studiato la storia del 
cinema muto, è stato un genere che si 
è rivelato perdente proprio nel mo¬ 
mento in cui si affermava il lungome¬ 
traggio, nel momento in cui il cinema 
passava dall’essere un insieme di pro¬ 
grammi a diventare film di un’ora, 
un’ora e mezza; il comico quasi scom¬ 
pare o deve mutare forma e trasfor¬ 
marsi in commedia sofisticata, brillan¬ 
te, per difendersi dalla accusa di essere 
vaudeville, e via dicendo. 

Invece oggi vediamo che esso torna in 
grandissima voga, e mi chiedo se ciò 







































TAVOLA ROTONDA 



Lo spaccacuori 


possa avere a che fare anche con una 
teoria dietrologica dello spettatore di 
oggi e della sua capacità di attenzione, 
di poter sopportare un film particolar¬ 
mente elaborato e complesso che duri 
un’ora e mezza. Viene il sospetto che il 
film oggi sostanzialmente annoi, che la 
gente sia abituata alla televisione, alle 
puntate di un’ora magari inframmez¬ 
zate dalla pubblicità, quindi pillole di 
dieci minuti; viene il sospetto che la 
forma imperante ormai sia quella di 
You Tube, del testo audiovisivo che du¬ 
ra dal minuto ai dieci minuti, e che 
quindi si ritorni in un qualche modo 
ad una situazione antecedente a quello 
che gli storici chiamano “l’avvento del 
lungometraggio”, e anche ad un gene¬ 
re che è stato rimosso dalla storiogra¬ 
fìa, anche se chiaramente non da quel¬ 
la storiografìa che ha aperto la gabbia 
detta tigre con l’apologià del trash e 
che ha permesso in un qualche modo 
di creare questa situazione di aperta e 
violenta contrapposizione tra autoria- 
listi e antiautorialisti. 

FDC: Avrei una perplessità sull’ultima 
cosa che ha detto Davide e cioè sul 
problema della forma breve: i film di 
Judd Apatow cui abbiamo accennato 
prima sono delle commedie che supe¬ 
rano i 120 minuti, e questa è una cosa 
che colpisce; anche dei cinepanettoni 
come L’amore non va in vacanza, una 
commedia che cerca di introdurre un 
personaggio interpretato da Jack Black 
all’interno di un calderone che sembra 
piuttosto rifarsi alle commedie pseu¬ 
do-sofisticate interpretate da Richard 
Gere, superano abbondantemente le 
due ore: direi che ci troviamo piuttosto 
di fronte ad un allungamento della 
forma. 

Per quanto riguarda il rapporto comi- 
co-commedia, è vero che il comico più 
volgare da un solo rutto ha ceduto il 
passo in certi casi alla commedia più 
sofisticata, ma quello tra i due ambiti è 
sempre stato un rapporto problemati¬ 
co, nel senso che al di là del fatto che 
l’elemento scatologico è un dato più 
recente, legato all’ampliamento delle 
soglie della visibilità, la screwball co¬ 
medy rispetto al resto della commedia 
degli anni Trenta era qualcosa di estre¬ 
mamente controverso, dal punto di vi¬ 
sta della fisicità della performance e 
anche da quello morale-censorio. Allo 
stesso modo i film di Frank Tashlin 
sono molto diversi da altri tipi di com¬ 
medie ugualmente diffuse negli anni 
Cinquanta: sono due mondi, quello 
del comico basso e detta commedia, 
che itt genere dividiamo in maniera 
piuttosto netta facendo un’operazione 
critica,ma che dal punto di vista pro¬ 
duttivo hanno sempre avuto dei confi¬ 
ni più labili. Non tutto il comico ri 
questi ultimi anni fa ancora leva sullo-; 


scatologico anche quando vuole rima¬ 
nere tale. 

Lo vediamo anche a proposito di per¬ 
sonaggi come Ben Stiller che ultima¬ 
mente lavorano soprattutto in comme¬ 
die per ragazzi come Una notte al mu¬ 
seo, ma che affiancano alla recitazione 
un’attività di produttore attraverso la 
quale collaborano con gli altri membri 
di questo clan che si sta progressiva¬ 
mente formando, e che comprende ol¬ 
tre a Stiller anche Jack Black, Vince 
Vaughn, Owen Wilson. Ad esempio 
Stiller produce, facendovi anche una 
comparsata, Tenacious D e il destino del 
rock, un film sulla falsariga di The Blues 
Brothers costruito attorno al duo cano¬ 
ro Jack Black-Kyle Gass, o anche Bla- 
des of Glory con Will Ferrei! e Jon He- 
der. Anche attori che si stanno buttan¬ 
do più sul versante detta commedia 
continuano a lavorare nel comico, 
compaiono gli uni nei film degli altri, 
e non sempre il comico rimane legato 
alle forme più corporali degli anni No¬ 
vanta o viceversa tenta di trasformarsi 
in commedia. Un esempio può essere 
un film che amo molto, Ricky Bobby, la 
storia di un uomo che sapeva contare fino 
a uno, interpretato da Will Ferrell e 
Sacha Baron Cohen, che fa leva sui 
meccanismi della parodia ma non in¬ 
tesa come parodia cinematografica in 
senso stretto, piuttosto come forma 
metaforica che ironizza su forme ste¬ 
reotipate dell’attuale comune sentire. 
Abbiamo di fronte una serie di film e 
serie tv che affrontano in maniera se¬ 
ria e metaforica il clima post 11 set¬ 
tembre, e in questo contesto esce Ricky 
Bobby, la storia di un corridore auto¬ 
mobilistico (Ferrell) di successo e arro¬ 
gante che concorre nel circuito Nascar 
(molto chiuso e seguito nei soli Stati 
Uniti) che per la rivalità con un corri¬ 
dore francese che viene dalla Formula 
1 (Cohen), ed è omosessuale e conno¬ 
tato come un coacervo degli stereotipi 
sugli europei, perde la bussola, ha un 
incidente e rimane bloccato dalla pau¬ 
ra non riuscendo più a correre. Soltan¬ 
to una riconsiderazione delle sue radi¬ 
ci e del rapporto con l’esterno permet¬ 
terà al corridore di uscire da questa 
impasse, fino alla riconciliazione con il 
corridore francese, che avviene tramite 
un pubblico bacio sulla bocca. Il film 
tra l’altro si conclude con una scena in¬ 
comprensibile, posta dopo i titoli di 
coda, nella quale i due bambini di otto 
anni figli del protagonista, di nome ri¬ 
spettivamente Walker e Texas Ranger, 
commentano un racconto di John 
Stcinbcck operandone una improba!» - 
’e lettura metaforica, c mi sembra sia 
un modo per dare una chiave di lettu¬ 
ra a quanto appena visto. 

r,, .avieri ibbinc i i < iw ' -i . 
una commedia che- si butta -u vai. .ri 
più tradizionali -;..zvtemoli.i 


(traggo la definizione dalla rivista 
Ciak) di Judd Apatow, e viceversa de¬ 
gli attori che cercano di trovare nuove 
frontiere per il comico recente, tenen¬ 
do però un piede nell’altra staffa del 
cinema indie, come Ben Stiller o 
Owen Wilson che hanno lavorato con 
Wes Anderson, o Will Ferrell che di 
recente ha interpretato anche Vero co¬ 
me la finzione di Marc Foster e Melin¬ 
da e Melinda di Woody Alien. 

MB: Volevo ricollegarmi a quello che 
diceva Davide e in un certo senso lan¬ 
ciare una provocazione anche a Roy: se 
è vero che i film di Judd Apatow dura¬ 
no 120 minuti e sono polpettoni infini¬ 
ti, tuttavia molti lamentano le lacune 
narrative clamorose che vi si verificano 
continuamente. Ecco, trovo che il ri¬ 
chiamo che fa Davide atte gag, agli one 
reel movies e all’incapacità del pubblico 
di sopportare una struttura narrativa 
complessa contrapposta al desiderio di 
guardare qualcosa che sia invece un 
succedersi di gag, sia indice piuttosto 
della nostra inadeguatezza critica, ov¬ 
vero detta nostra incapacità di analizza¬ 
re certe forme narrative che sono pen¬ 
sate per avere successo presso un pub¬ 
blico la cui percezione è ormai comple¬ 
tamente diversa e della quale forse non 
teniamo conto abbastanza. A proposito 
di questo citavate anche You Tube : si 
tratta di forme brevissime che servono 
soltanto a riempire degli spazi di tem¬ 
po e non sono più un “investimento” da 
parte dello spettatore in una progres¬ 
sione drammatica. Ecco, mi piacerebbe 
allargare il discorso a partire dal film 
demenziale, penso a Scary, a L’invidia 
: del mio migliore amico o a School of Rock. 
Assistiamo ancora, in questi film, a gal¬ 
lerie di personaggi macchietta, a gag e 

strut " 

tura assolutamente debole, e assistiamo 
^ P^§^ P | | É hìr ì r ir i “--r rril]T , * t ~ di questa 
narrazione neoclassica hollywoodiana. 


La mia considerazione più spontanea è 
che in serie tv come 24 o Lost assistia¬ 
mo ad un’esaltazione cronica della con- 
tinuity, di una struttura narrativa com¬ 
plessa, addirittura infinita, perdendo i 
pezzi della quale è impossibile rimane¬ 
re al passo, mentre in film come Pirati 
dei Caraibi-La maledizione delforziere 
fantasma o Transformers assistiamo sol¬ 
tanto a un susseguirsi di situazioni 
completamente scollegate, scritte in 
modo lacunoso, ad una struttura narra¬ 
tiva che va verso una dissoluzione com¬ 
pleta. Dunque, per quanto noi possia¬ 
mo disprezzare questo tipo di cinema, 
dobbiamo renderci conto che esso, in 
un certo senso, ottiene quello che vuo¬ 
le, e che forse ancora una volta i pro¬ 
duttori di Hollywood - pur essendo 
probabilmente più vecchi di noi - capi¬ 
scono meglio di altri che cosa vogliono 
i teenager, i quali seguono con facilità 
questi film che a noi risultano spesso 
incomprensibili. Forse hanno speso 
molte più ore detta nostra generazione 
con i videogame: questo può essere uno 
dei motivi per cui non siamo in grado 
(neanche a livello percettivo) di seguire 
un film come Transformers. 

RM: Sono perfettamente d’accordo, 
c’è davvero un problema percettivo da 
parte nostra: è chiaro che affrontare 
questi film con estetiche cinematogra¬ 
fiche più o meno classiche è pressoché 
impossibile. Nei blockbuster c’è un 
racconto che non solo è frammentario 
e modulare ma anche appositamente 
frantumato e lacunoso; chi ha visto Pi¬ 
rati dei Caraìbi, specialmente il secon¬ 
do episodio, sa che a un certo punto 
Jack Sparrow viene rapito da una 
tribù, cosa di cui non si sapeva niente 
fino a pochi minuti prima, ma questo 
non dà certamente problema a molti 
spettatori; mi chiedo davvero se sia il 
caso di analizzare e giudicare tali film 
da questo punto di vista. Rimangono 















poco interessanti ed efficaci da moltis¬ 
simi punti di vista, ma è chiaro che so¬ 
no concepiti per un pubblico che si di¬ 
strae, esce dalla sala, rientra nella sala, 
e soprattutto comunica con l’esterno 
della sala: questa è la vera novità degli 
ultimi anni. Con i cellulari, infatti, il 
pubblico non solo comunica con fin- 
terno della sala, e interagisce con il 
film, ma parla anche con l’esterno del¬ 
la sala e questo sarebbe una cosa su cui 
riflettere al di là dell’ideologia prò o 
contro cellulari in sala che evidente¬ 
mente appartiene ad un altro aspetto 
della storia della cinefilia recente. 
Volevo puntuafizzare alcune cose che 
avete detto e rilanciare quelle che ci ri¬ 
mangono. Innanzitutto sono d’accordo 
con Francesco per la questione della 
struttura narrativa. Di Apatow si dice 
(cito una recensione di un sito, molto 
ingenua) “per una volta il comico bas¬ 
so utilizza persone e non personaggi”, 
che è un modo molto romantico e in¬ 
genuo per dire che c’è una narratività 
che lavora sul personaggio ed è questo, 
credo, a cui si riferiscono Banditali e 
Terrone con un’immagine molto più 
teorica, quella dell’idea che viene fatta 
germinare. Pensiamo invece al demen- 
ziale-parodia, che è un genere dedito 
al sampling, e che somiglia tantissimo 
alle comiche mute, perché è impac¬ 
chettato nei 75-80 minuti (per esem¬ 
pio Hot Movie ed Epic Movie), con il 
compito esclusivo di produrre l’antolo¬ 
gia delle scene più interessanti o, se vo¬ 
lete, giudicate “di culto”, della stagione 
o delle due stagioni precedenti, e di 
farne la parodia. E un cinema che è già 
passato in dvd, i cui consumatori, le cui 
comunità di spettatori hanno già 
estratto delle scene madri, e diventa 
poi parodia dell’antologia delle scene 
madri in cui tutto è ribaltato in manie¬ 
ra elementare: Epic Movie è un film in 
cui Narnia si chiama Gnarnia, in cui si 
va nella fabbrica del cioccolato di Tim 
Burton e si scopre che il cioccolato na¬ 
turalmente è composto di escrementi, 
e così via: siamo al livello primitivo dei 
ribaltamenti. 

Tornando ai contenuti, comico e com¬ 
media di fatto mostrano forme diverse 
di negoziazione del visibile e del dici¬ 
bile. I principi di mondo e di piacere 
vanno di volta in volta riconsiderati; 
Wilder o Edwards riuscivano a nego¬ 
ziare alzando l’asticella del moralmen¬ 
te accettabile, e a volte mandando in 
fallimento questa stessa negoziazione, 
il che è una delle vere e grandi capacità 
del comico, ovvero di rifiutare a un 
certo punto la negoziazione e, come 
dire, “andare al massacro”. Il comico 
ogni tanto porta quasi a incandescen¬ 
za questa negoziazione, ed è quel “qua¬ 
si” che rendeva Wilder comunque 
amato dall’industria hollywoodiana. 
D’altra parte, gli anni Novanta sono 




quelli in cui il dibattito internazionale, 
e in particolare quello nazionale ame¬ 
ricano, ruota intorno a una macchia di 
sperma presente sul vestito di una sta- 
gista della Casa Bianca. Meglio dun¬ 
que non stupirsi del fatto che, per la 
prima volta in un film ufficiale ameri¬ 
cano, compaia lo sperma, che finisce 
nei capelli di Cameron Diaz. Semmai 
c’è da stupirsi se i giornali per interi 
mesi ne parlano, e dì come un’accusa di 
impeachment al Capo dello Stato si sia 
basata su una prova spermatica. 

Allora mi domando se uno dei comici 
che più hanno frantumato tutto negli 
anni 2000 non sia Sacha Baron 
Cohen, con il suo Borat, che Paolo 
Cherchi Usai nella sua recensione su 
Segnocinema legge alla luce di una cul¬ 
tura vernacolare, ovvero come una sor¬ 
ta di sboccato e violento emergere di 
elementi folk e idiolettici.. Primo, per¬ 
ché c’è un lavoro di partenza dal Borat 
televisivo e dagli altri personaggi di 
Sacha Baron Cohen che oggi vengono 
consumati (anche dal sottoscritto) su 
YouTube e su altri cataloghi del gene¬ 
re, dove le singole apparizioni di Borat 
dentro i programmi contenitore del 
comico ebreo sono già tranquillamen¬ 
te antologizzate; e poi perché il film 
Borat si basa su un elemento linguisti¬ 
co che molti hanno ignorato: esso non 
riguarda semplicemente la dialettica 
vero/falso, cioè il chiedersi se Borat 
stava veramente prendendo in giro o 
no gli altri personaggi in scena, ma il 
fatto che Borat e il suo amico vanno 
insieme in America seguiti da un ca¬ 
meraman che non compare mai. E 
un’istanza narrativa che viene comple¬ 
tamente elusa pur essendo affermata 
fin dall’inizio, finendo col proporre 
una specie di mockumentary comico¬ 
demenziale dove la messa in scena del 
cameraman viene inghiottita nel nulla 
enunciativo. Il pubblico non se ne 
preoccupa, il film non se ne preoccupa, 
è tutto troppo evidente per non risul¬ 
tare chiaramente predisposto. Qui ab¬ 
biamo un superamento totale di tutte 
le istanze narrative precedenti di cui 
comunque si preoccupavano anche i 
film comico-demenziali. Questa cross- 
medialità o intermedialità è giunta a 
un tale punto che non c’è più necessità 
di evidenziare le forme del linguaggio 
che per solito il finto documentario te¬ 
matizza. 

Vorrei quindi parlare di Sacha Baron 
Cohen e di Borat, e comprendere in¬ 
sieme a voi se davvero si tratta di un 
fenomeno di un certo peso e se può es¬ 
sere una sorta di ponte nei confronti 
del cinema indipendente che finora 
abbiamo solo sfiorato. 

FDC: Credo che Borat rispetto agli 
film di cui abbiamo parlato sia eccen¬ 
trico, innanzitutto a livello di messa in 


scena: mi sembra che piuttosto che le¬ 
garsi al resto del cinema comico o al 
lavoro televisivo di Cohen, si ponga a 
metà tra una parodia del giornalismo 
d’inchiesta, che tende al candid eye, e la 
parodia del cinema di Michael Moore. 
Ciò dimostra quanto, allo stesso livel¬ 
lo, lo stesso cinema di Michael Moore 
sia poco credibile. E stato presentato al 
Festival di Torino un film che si chia¬ 
ma Manufacturing Dissident, che si oc¬ 
cupa di queste stesse cose da un punto 
di vista “serio”, ma già Cohen mostra 
benissimo come si tratti di un cinema 
da non prendere per certo. Al tempo 
stesso credo che il legame vada indivi¬ 
duato con il cinema indie : abbiamo 
parlato di forma breve e meccanismo a 
clip, e credo che Borat la condivida con 
un regista indipendente (o pseudo ta¬ 
le, perché prodotto dalla Fox Searchli- 
ght) che non amo molto, Jared Hess 
(quello di Napoleon Dynamite), nei cui 
film c’è un meccanismo a scene auto¬ 
conclusive che ricorda un certo tipo di 


fiction in stile MTV, come Beavis e 
Butthead o Scrubs. Credo perciò che in 
Borat ci siano elementi parodistici che 
lavorano a diversi livelli: buttano sul 
versante Michael Moore, ma al tempo 
stesso integrano la televisione di questi 
ultimi anni in maniera diversa dalla 
media. 

MB: Io sono d’accordo sulla singola¬ 
rità del film Borat rispetto al cinema di 
cui abbiamo parlato finora, ma credo 
vada sottolineato come parta da pre¬ 
supposti diversi: da una parte Sacha 
Baron Cohen è un comico inglese di 
modello imperialista che prende in gi¬ 
ro le etnie come faceva Peter Sellers, e 
quindi persegue una sua “poetica” di 
imitatore-comico; dall’altro, se è pure 
vero che Borat è un caso interessante 
di trans-medialità, non vedo come l’i¬ 
dea di trasporre cinematograficamente 
un prodotto interamente televisivo ar¬ 
ricchendolo con una semi-mascherata 
struttura narrativa (la ricerca del sogno 


Borat 


Tenacious D e il destino del rock 







TAVOLA ROTONDA 


americano, l’inseguimento di Pamela 
Anderson, ecc.), si possa considerare 
davvero innovativo. Ad esempio trovo 
che questo dubbio sul vero/falso, sep¬ 
pure marginale, sia la dimostrazione 
che, rispetto alle interviste di Borat, il 
film ne risulti una versione annacqua¬ 
ta, tanto da spingere lo spettatore ad 
essere dubbioso o insoddisfatto sulla 
veridicità delle interviste. 

MG: E ora qualcosa di completamente 
diverso dei Monty Python era già un 
collage spudorato di elementi di pro¬ 
venienza televisiva. Perciò la figura del 
cameraman che non si vede mai po¬ 
trebbe essere significativo in questo 
senso: se prima, in occasione di tenta¬ 
tivi come quello embrionale dei 
Monty Python, si tendeva a marcare 
già dal titolo la derivazione televisiva 
riconoscendola come tale per poterla 
giustificare cinematograficamente, il 
fatto che non si veda il cameraman in 
Borat è segnale del fatto che le due co¬ 
se sono talmente coincidenti e che non 
ci si meraviglia più di un elemento che 
appartiene all’altra sponda; in pratica, 
non ce più bisogno di rimarcare una 
compresenza di fatto. 

MB: Sicuramente il fatto che nessuno 
si accorga o sottolinei la presenza del 
cameraman è ancora dovuto ad una 
questione percettiva: non si può non 
pensare ai reality show nei quali dopo 
un po’ lo spettatore non si chiede più 
se attorno ai personaggi che agiscono 
in una dinamica completamente nar¬ 
rativa e quotidiana ci sia o meno un 
elemento enunciativo. 

DG: Devo dire che Borat a me è pia¬ 
ciuto, nonostante l’iniziale ritrosia da 
vecchio cinefilo nei confronti di un 
film che si presentava veicolato da una 
pubblicità agghiacciante, e devo dire 
che l’ho trovato un film estremamente 
sofisticato, che può fungere da ferma¬ 
glio nei confronti dei discorsi che ab¬ 
biamo finora affrontato. Sicuramente 
l’espediente narrativo del film è vec¬ 
chio: lo straniamento, l’intrusione di 
un elemento distante in un ambiente 
d’osservazione, che proviene da Mark 
Twain e dal suo Un americano alla cor¬ 
te di reArtù (1889), o anche dal teatro 
brechtiano, se vogliamo alzare i para¬ 
metri; si tratta, in ogni caso, dell’espe¬ 
diente di introdurre in un ambiente un 
personaggio che non c’entra niente e 
liberarlo da tutte le pastoie della nor¬ 
matività sociale. Espediente che invece 
costituisce un grave inghippo per Mi¬ 
chael Moore, che addirittura si è tro¬ 
vato nel suo ultimo film a dover finge¬ 
re di essere un americano medio tra¬ 
mite la voce off, il che funziona quasi 
come un freno alla scorrevolezza e alla 
capacità del film di convincere lo spet¬ 


tatore. Sacha Baron Cohen tocca due 
o tre aspetti che possono tenere insie¬ 
me gli elementi di eventuale analisi 
contenutistica del filmetto, del genere 
parodia: il bersaglio di questi film è ge¬ 
neralmente una specie di sofisticatezza 
barocca e non funzionale di costumi e 
riti sociali, che vengono veicolati dalla 
presenza di comportamenti normativi 
schiaccianti e oppressivi, in particolar 
modo il patriottismo in America, che è 
diventato evidentemente un elemento 
grave che soltanto un certo tipo di 
commedia demenziale si permette di 
toccare con una certa libertà; altro ele¬ 
mento è la cultura della finta trasgres¬ 
sione, che è il must dell’aggressività 
pubblicitaria di oggi. Il mito della tra¬ 
sgressione può essere in verità molto 
pericoloso. 

FDC: Volevo tornare anch’io sul giu¬ 
dizio estetico di Borat. L’elemento del¬ 
la provenienza televisiva non mi sem¬ 
bra un limite ma un punto di forza per 
il fatto che riesce ad operare una sinte¬ 
si, e al contempo a presentarsi come 
qualcosa di inedito nel panorama cine¬ 
matografico. Vorrei quasi dire che, an¬ 
che a proposito del legame horror-co¬ 
mico di cui abbiamo parlato prima, è 
un po’ il The Blair Witch Project comi¬ 
co e non può non sortire effetti anche 
nel breve periodo. L’opera offre una ri¬ 
flessione metacinematografica a vari 
livelli, lavorando sugli stessi meccani¬ 
smi della comicità: in primo luogo, va 
enfatizzato il fatto che il personaggio 
dell’antisemita sia interpretato da un 
attore ebreo ortodosso, e che l’imma¬ 
ginaria lingua del Kazakistan sia in 
realtà Yiddish; in secondo luogo, biso¬ 
gna sottolineare certe sequenze, come 
quella della scuola di spettacolo, nella 
quale un comico americano propone 
un modello di comicità molto inoffen¬ 
sivo, un po’ da stand up comedian della 
Las Vegas anni Cinquanta, destinato a 
non offendere nessuno, mentre Borat 
in due minuti riesce a tirar fuori una 
barzelletta feroce su prostituzione, in¬ 
cesto e handicap: la trasgressività pre¬ 
sa semplicemente come utopia di una 
comicità liberatoria e offensiva per 
chiunque. Faccio notare che ho visto il 
film un anno fa, quando c erano anco¬ 
ra gli strascichi delle vignette danesi 
sull’Islam; cera Fassino che si faceva 
intervistare e si dimostrava ipocrita- 
mente indignato di fronte a qualsiasi 
forma di provocazione religiosa e au¬ 
spicava una satira che smorzasse i toni 
in modo da essere pacificata: credo che 
Borat insieme a Cartoon Wars, che è un 
ciclo di puntate del serial South Park 
incentrato sull’apparizione di Mao¬ 
metto, riesca a rappresentare una posi¬ 
zione per nulla acritica alTinterno di 
questa riflessione sui limiti del comico. 


RM: Abbiamo più volte sfiorato l’ar¬ 
gomento: il rapporto con il cinema in¬ 
die. Non abbiamo tempo di tornare sul 
concetto di cinema indipendente ma 
sappiamo tutti di quali film parliamo, 
quelli degli Anderson, di Payne, di 
Smith, e così via. La prima sorpresa è 
che si affermano alcune figure macro¬ 
narrative e iconiche comuni: la high 
school, la famiglia disfunzionale, il mi¬ 
crocosmo urbano, i paradossi ideologi¬ 
ci e psichici che alcuni personaggi si 
portano dietro. Tutto ciò è patrimonio 
comune di queste due cinematografie. 
Per esempio, Election di Alexander 
Payne è il prototipo di commedia high 
school con elementi indie, critici, sar¬ 
castici. Il gruppo, o clan, a cui faceva 
riferimento Francesco, quello di Stil- 
ler, Vaughn, Wilson (il cosiddetto fiat 
pack cui anche la rivista Notturno ha 
dedicato un dossier, il n. 65, dicembre 
2007), ha chiaramente abitato per tan¬ 
ti anni entrambi gli universi. Non a ca¬ 
so, il ripescaggio colto di Bill Murray 
lo trasforma in figura capace di incar¬ 
nare l’umorismo indie traendolo da 
tutto un altro flusso comico più conso¬ 
no. Questi contatti ci sono e si vedono 
dentro commedie che non aspirano ad 
essere percepite come un film di An¬ 
derson, quale per esempio Suxbad in 
cui la messa in scena, la ruvidezza del 
contesto, la provincia, la mutevolezza 
dei caratteri potrebbero stare tranquil¬ 
lamente dentro un film più aperta¬ 
mente stile-Sundance. Ecco, mi sem¬ 
bra che da metà degli anni Novanta in 
poi questo elemento sia sempre più 
evidente. 

FDC: Parlando di Anderson tornerei 
sull’elemento della dialettica tra forma 
lunga e sketch: mi sembra che un vizio 
che abbiamo quando parliamo di que¬ 
ste cose, anche nel confronto tra serie 
tv come Lost, 24, e film come Transfor- 



mers, sia il paradosso di pensare che 
esistono contemporaneamente un 
pubblico ampio che consuma serie tv 
estremamente sofisticate, e un bacino 
d’utenza da blockbuster altrettanto 
ampio ma non in grado di seguire nar¬ 
razioni complesse. Se apriamo un con¬ 
fronto con la letteratura (e mi viene in 
mente appunto Anderson, secondo me 
avido lettore di David Foster Wallace), 
questi mondi non sono così incompa¬ 
tibili: possiamo anche ipotizzare che 
uno stesso spettatore una sera si impe¬ 
gna a ricostruire i labirinti narrativi di 
Lost e il giorno dopo si va a vedere 
Transformers perché comunque ha vo¬ 
glia di vedere un tipo di spettacolarità 
che sul piccolo schermo non è propo¬ 
nibile. Troviamo questi elementi appa¬ 
rentemente opposti (una narrazione 
intricatissima ma lacunosa dei passag¬ 
gi narrativi fondamentali, frammista a 
descrizioni infinite di situazioni singo¬ 
le a sé stanti, momenti slapstick, vir¬ 
tuosismo narrativo) tanto in Wallace 
(penso ai romanzi soprattutto) quanto 
nei film di Wes Anderson. The Darjee- 
ling Limited, per esempio, è un film di 
grande interesse, passato a Venezia 
sotto silenzio, nel disinteresse della 
critica. In questo film, all’inizio, viene 
annunciato lo svolgersi di un percorso 
che alla fine non si compie; inoltre ci 
imbattiamo in una serie di sequenze 
slegate che puntano ad un percorso 
completamente diverso, e scopriamo 
microsituazioni in cui l’attore comico 
(qui Owen Wilson, oltre ad una bre¬ 
vissima apparizione di Bill Murray) 
mette in atto una recitazione alla Bu- 
ster Keaton, tramite il ricorso al dead- 
pan, la mancata reazione emotiva agli 
eventi; invece, dal punto di vista tema¬ 
tico, si ricorre al serbatoio della fami¬ 
glia disfunzionale, che troviamo in tut¬ 
ti i romanzi americani degli ultimi an¬ 
ni, e che anche in letteratura vengono 



Borat 


TAVOLA ROTONDA 


affrontati spesso con un misto di si¬ 
tuazioni ironiche ed elementi slap- 
stick. 

MB: Condivido quello che dice Fran¬ 
cesco e infatti possiamo parlare di 
un’evoluzione molto ampia della nar¬ 
razione che prende appunto le mosse 
dalla letteratura sofisticata americana 
contemporanea e si sposta al film pa¬ 
rodia. Penso che potremmo rintraccia¬ 
re i motivi di questo cambiamento 
strutturale in questioni di stampo so¬ 
ciale e percettivo, come per esempio la 
diffusione degli psicofarmaci di massa, 
la nuova narrazione televisiva, i reality 
show. 

Ma quello che dicevo era viceversa 
provocatorio nei confronti di Roy 
quando afferma che vale più una pun¬ 
tata di 24 che cento Superman Returns. 
Forse è la critica ad essere inadeguata, 
siamo noi quelli incapaci di analizzare 
in modo pertinente certi fenomeni 
blockbuster differenti da quelli che 
eravamo abituati a trattare in prece¬ 
denza. 

MG: Secondo me il ricorso al comico 
e alla commedia nelle strutture narra¬ 
tive di David Foster Wallace mira più 
che altro a riferirsi a un certo immagi¬ 
nario. Se il comico entra dentro i mec¬ 
canismi di Wallace lo fa in quanto ma¬ 
nifestazione di un mondo spettacolare 
precedente che viene convocato post¬ 
modernamente, più che come ingre¬ 
diente dellefficienza narrativa dei suoi 
romanzi. Secondo me il comico e la 
commedia sono presenti soprattutto 
perché fi avevano usati i suoi padri nar¬ 
rativi dentro un tipo di narrazione che 
apparentemente non li avrebbe mai 
contemplati: in L’arcobaleno della gra¬ 
vità di Pynchon ci sono sprazzi musi¬ 
cal che lasciano spazio a veri e propri 
intermezzi comici, anche scatologici. 
Se David Foster Wallace riprende ele¬ 
menti comici lo fa non tanto per in¬ 
nervare la propria narrativa quanto, da 
un lato, per rimandare a quella specifi¬ 
ca patrilinearità narrativa, e dall’altro a 
un tipo più eterogeneo di richiami 
spettacolari e metaspettacolari. 

DG: Come sempre gli elementi su cui 
discutere sono tantissimi, anche sul ci¬ 
nema indie. La mia impressione è che 
il ragionamento sia molto legato al 
concetto di cultura e controcultura 
americana, al divario sociale tra chi 
può andare al college e chi no, a spere¬ 
quazioni di stampo culturale. Sono 
emersi elementi che andrebbero ap¬ 
profonditi e concordo pienamente con 
quanto detto da Maurizio, e cioè che 
dovremmo affinare i nostri strumenti 
di analisi e cercare di individuare dei 
filoni anche storiografici per l’analisi 
di questi film, come ad esempio l’in¬ 




fluenza dello show televisivo america¬ 
no sulla commedia e sulla comicità. In 
ogni caso l’indagine dovrà concentrar¬ 
si anche sulle fonti extrafilmiche. 


Film citati 

Ace Ventura: l’acchiappanimali (Ace Ven¬ 
tura, Pet Detective , Tom Shadyac, 
1994). 

Amore a prima svista (Shallow Hai , 
Bobby Farrelly, Peter Farrelly, 2001). 
L’amore in gioco (Fever Pitch , Bobby 
Farrelly, Peter Farrelly, 2005). 

L’amore non va in vacanza (The Holi- 
day, Nancy Meyers, 2006). 

Blades of Glory (Josh Gordon, Will 
Speck, 2007). 

The Blair Witch Project (Daniel Myrick 
e Eduardo Sànchez, 1999). 

The Blues Brothers (John Landis, 
1980). 

Borat (Borat: Cultural Learnings of 
America for Make Benefit Glorious Na- 
tion of Kazakhstan, Larry Charles, 
2006). 

La casa dei 1000 corpi (House of 1000 
Corpses, Rob Zombie, 2003). 

Che cosa è successo tra mio padre e tua 
madre? (Avanti!, Billy Wilder, 1974). 
Election (Alexander Payne, 1999). 

E ora qualcosa di completamente diverso 
(And Now for Something Completely 
Different, Ian MacNaughton, 1971). 
Epic Movie (Jason Friedberg, Aaron 
Seltzer, 2007). 

Febbre a 90° (Fever Pitch, David Evans, 
1997). 

Hot Movie (Aaron Seltzer, 2006). 
Un'impresa da Dio (Evan Almighty, 
Tom Shadyac, 2007). 

L’invidia del mio migliore amico (Envy, 
Barry Levinson, 2004). 

Io, me e Irene (Me, Myself & Irene, 
Bobby Farrelly, Peter Farrelly, 2000). 
Manufacturing Dìssident (Rick Caine, 
Debbie Melnyk, 2007). 

Melinda e Melinda (Woody Alien, 
2004). 

Mi presenti i tuoi? (Meet thè Fockers,]sy 
Roach, 2004). 

Molto incinta (Knocked Up, Judd Apa- 
tow, 2007). 

Napoleon Dynamite (Jared Hess, 
2004). 

Una notte al museo (Night at thè Mu- 
seum, Shawn Levy, 2006). 

Number 23 (The Number 23, Joel 
Schumacher, 2007). 

Pirati dei Caraibi - La maledizione del 
forziere fantasma (Pirates of thè Carib- 
bean: Dead Man’s Chest, Gore Verbin- 
ski, 2006). 

Prima pagina (The Front Page, Billy 
Wilder, 1974). 

40 anni vergine (The 40 Year Old Vir¬ 
gin, Judd Apatow, 2005). 

Quel mostro di suocera (Monster-in- 
Law, Robert Luketic, 2005). 


Ricky Bobby, la storia di un uomo che sa¬ 
peva contare fino a uno (Talladega Ni- 
ghts: The Ballai of Ricky Bobby, Adam 
McKay, 2006). 

La rivincita delle bionde (Legally Blon¬ 
de, Robert Luketic, 2001). 

Scary Movie (Keenen Ivory Wayans, 

2000 ). 

School of Rock (Richard Linklater, 
2004). 

Una settimana da Dio (Brace Almighty, 
Tom Shadyac, 2003). 

Sicko (Michael Moore, 2007). 

Lo spaccacuori (The Heartbreak Kid, 
Bobby Farrelly, Peter Farrelly, 2007). 
Superman Returns (Bryan Singer, 
2006). 

Suxbad (Superbad, Greg Mottola, 
2007). 

Tenacious D e il destino del rock (Tena- 
ciuos D in thè Pick of Destiny, Liam 
Lynch, 2006). 

Ti presento i miei (Meet thè Parentsfsy 
Roach, 2000). 

Transformers (Michael Bay, 2007). 


Tu io e Dupree (You, Me and Dupree, 
Anthony Russo, Joe Russo, 2006). 
Tutti pazzi per Mary (There's So¬ 
mething About Mary, Bobby Farrelly, 
Peter Farrelly, 1998). 

Vero come la finzione (Stranger Than 
Fiction, Marc Foster, 2006). 


Note 

1. Cfr. soprattutto Maurizio Grande, Roberto de 
Gaetano (a cura di), Billy Wilder , Roma, Bulzoni, 
2006. 

2. Linda Williams, “Film Bodies. Gender, Gerire 
and Excess”, Film Quarterly 44 , n. 4 (Summer 
1991), pp. 2-13, ora in Barry Keith Grant (a cura 
di), Film Geme Reader III , Austin, University of 
Texas Press, 2003. 


Tu, io e Dupree 


Due single a nozze 












Venere in Dodge Challenger 

Grindhouse - A prova di morte 
[Grindhouse - Death Proof Quentin 
Tarantino, 2007) 

Anche le cheerleaders sanno che i film 
automobilistici grondano di sottintesi 
sessuali. A prova di morte più che mai, 
e non solo perché Lee (la cheerleader) 
vede nelle sgasate di Mike un ipodota¬ 
to. Né sorprende, dopo Kilt Bill, la te- 
matizzazione del masochismo. Se la 
Sposa (cfr. Il freddo e il crudele di De¬ 
leuze) 1 era l’ideale masochista (posto 
autodistruttivamente dal maschile: 
Bill) di una figura femminile incar¬ 
nante l’impersonalità macchinale della 
natura, la freddezza dell’alternarsi in¬ 
differente di morte e rinascita, ora Ta¬ 
rantino va ancora più a fondo preci¬ 
sando il masochismo quale torsione 
interna del feticismo. Dimezza il film, 
la prima parte “feticista”, la seconda, 
simmetrica, “masochista”: il punto, co¬ 
me in Deleuze, sta nella sottile diffe¬ 
renza tra le due. “Il masochismo di ba¬ 
se non è né materiale né morale, è for¬ 
male, unicamente formale” 2 . Se nella 
prima metà ricorre spesso una presen¬ 
za a sostituire un’assenza (quella del 
fallo materno: è la definizione stessa di 
feticcio), la seconda replica lo schema 
della prima operando uno slittamento 
intrinseco verso un’idealizzazione ef¬ 
fettiva del femminile (à la Kill Bill). Il 
masochismo per Deleuze è questo: de¬ 
sessualizzazione del fantasma (della 
scena assente presentificata dal fetic¬ 
cio) e risessualizzazione nell’ideale. 
Dalla minzione trattenuta e poi assen¬ 
te, negata dai frame mancanti, alla 
contemplazione (idealizzazione) del 
ragazzo di Lee, che la guarda orinare. 
“Il masochismo è l’arte del fantasma. Il 
fantasma gioca tra due serie, due limi¬ 
ti, due ‘bordi’, entro i quali si instaura 
una risonanza che costituisce la vita 
vera del fantasma” 3 . Se il feticismo si 
fonda sul narcisismo maschile ferito 
(nessuno conosce i film in cui ha lavo¬ 
rato Mike), il masochismo inscena la 
punizione del narcisismo del maschio 
che gioca senza riguardo per la contro¬ 
parte (Mike è punito per l’insegui¬ 
mento). La dialettica feticista presen¬ 
za-assenza è nella prima parte onni¬ 
presente, dall’affiancare a un regista 
assente (se non via sms) uno troppo 
presente (Tarantino che interpreta 
Warren), alla frequenza di piedi fem¬ 
minili (e la gamba tagliata sull’asfalto) 
assenti nel secondo blocco. Julia sul di¬ 
vano in pòsa identica a quella del po¬ 
ster sopra di lei la sostituisce feticisti¬ 
camente, Lee invece ammira la propria 
idealizzazione su una rivista femmini¬ 
le. Per Sacher-Masoch idealizzare si¬ 
gnifica soprattutto sospendere, conge¬ 
lare l’oggetto idealizzato in un’immo¬ 


bilità fotografica (viceversa Julia copia 
una donna che non è lei, assente). Nel¬ 
la stilistica masochiana, come nell’eco¬ 
nomia masochista, la sospensione, l’at¬ 
tesa, la dilazione, è cruciale 4 . L’orgasmo 
prolungato (e non puntuale-fallico co¬ 
me il crash della prima metà) che è lo 
Ship's must è la strategia narrativa stes¬ 
sa del secondo segmento (castissimo 
cóme lo è la narrativa masochista, a 
fronte del primo “bollente”), in cui la 
tarantiniana arte delle pause (la scena 
delle cinture in mezzo alla strada), del¬ 
la dilatazione ritmica e dell’indugio sui 
diàloghi è tirata al massimo per co¬ 
struire un’attesa, una sospensione. Poi¬ 
ché invece il feticismo è per definizio¬ 
ne fortemente sessualizzato, la prima 
metà sarà un’alternanza calcolata di 
tensione-rilascio, un sistema di picchi 
e cadute, un ritmo altalenante retto 
dalle “attrazioni” delle lap dance, bal¬ 
letti e provocazioni varie. La ripetizio¬ 
ne delle attrazioni, scandita dagli LP 
nel juke-box a intervalli regolari, cul¬ 
mina nell’incidente “moltiplicato”. I 
feticci si organizzano in una serialità, 
in una catalogazione: vedi Truffaut, 
Monteiro... e la rubrica di Mike. 

Se feticismo è disconoscimento del 
fallo materno, la ripetizione fissa il di¬ 
sconoscimento come tale, conferma 
ogni volta l’impossibilità in cui di fat¬ 
to consiste. È l’istinto di morte freu¬ 
diano, l’eterno scansare la morte (come 
Mike nell’auto “a prova di morte”) at¬ 
traverso la ripetizione - è quest'ultima 
che fonda il legame inestricabile tra 
Eros e Thanatos. Feticismo e maso¬ 
chismo come due modi lievemente di¬ 
versi di riconoscere tale legame, di 
identificare la ripetizione. In un caso si 
ripete per disconoscere sempre di nuo¬ 
vo (l’assenza del fallo materno) - nel¬ 
l’altro è la ripetizione che viene ad as¬ 
sumere valore di per se stessa: il piace¬ 
re non sta più nel mancare reiterata- 
mente il piacere “totale”, ma va a coin¬ 
cidere con la ripetizione stessa. La ri¬ 
petizione, nel masochismo, diventa per 
così dire un fine in sé piuttosto che un 
mezzo per disconoscere compulsiva¬ 
mente un’assenza. “Nel processo di de¬ 
sessualizzazione che salda la ripetizio¬ 
ne e la contrappone al piacere, poi nel 
processo di risessualizzazione che agi¬ 
sce come se il piacere della ripetizione 
procedesse dal dolore” 5 . Desessualiz¬ 
zazione, tramite il “freddo” che Deleu¬ 
ze riconosce cardine del masochismo, 
e risessualizzazione: Icy Hot, come la 
giacca di Mike. La castità del secondo 
segmento si accompagna alla risessua¬ 
lizzazione della ripetizione in quanto 
tale (non più solo pulsione di morte: 
tra primo e secondo atto il teschio spa¬ 
risce dal cofano): a risessualizzarsi è 
dunque la macchina. Il fallo materno 
assente della prima parte, scimmiotta¬ 
to con modi acidamente mascolini 
































































ULTIMO SPETTACOLO 


(Marcy poi finge di essere uomo), di¬ 
venta nel secondo (in cui Kim ha una 
pistola) la bramata automobile 6 , ripeti¬ 
zione automatizzata e non solo fetic¬ 
cio. Lo sbocco della desessualizzazione 
è l’idealizzazione della meccanicità, 
che si riallaccia all’ideale masochista 
dell’alternarsi indifferente dei cicli na- 
turah (femminili) di morte-rinascita 
(Zoe cade e risorge nelle maniere più 
imprevedibili). Similmente, la voce 
(elemento materno per eccellenza) la¬ 
tita nel primo pezzo, in cui il juke box 
sciorina molte canzoni ma nessuna le 
canta, mentre nel secondo c’è una sola 
canzone, ed è Lee a cantarla. 

Al feticismo si associa come noto il 
voyeurismo: là sua parabola sarà analo¬ 
ga. Mike spia le ragazze e l’occhio è il 
suo elemento: cannocchiale, collirio, 
fotografie. Nel segmento “feticista” an¬ 
che lo spettatore è palesato voyeur: al¬ 
l’inizio della lap dance, e nella veranda, 
viene rimarcato che lui vede ciò che 
Mike non vede. Quando il suo punto 
di vista e quello di Mike coincideran¬ 
no sarà la fine, ovvero non ci sono più 
fotografie ma la soggettiva in fieri dal 
mirino della macchina fotografica. “La 
sospensione ha la stessa funzione ri¬ 
spetto all’ideale, e lo proietta nel fanta¬ 
sma. La stessa attesa è l’unità ideale¬ 
reale, la forma o la temporalità del fan¬ 
tasma” 7 . Con l’attesa dello scatto in 
tempo reale, la separatezza costitutiva 
del feticcio-foto viene meno, gli viene 
restituita la temporalità, la sospensio¬ 
ne. E infatti siamo già nel segmento 
“masochista”. Nel quale il punto di vi¬ 
sta è delle ragazze: Mike viene solo in¬ 
travisto durante le chiacchiere al tavo¬ 
lo e non ha più nessun punto di vista 
privilegiato o alternanza binaria col lo¬ 
ro come nella prima parte, tant’è che 
allo slittare del punto di vista da Mike 
alle ragazze (al rientro del colore), è 
Abbie a vedere l’auto da cui Mike le 
spia. La seconda parte disattiva dall’in¬ 
terno il voyeurismo della prima. 

A proposito della fascia mediana del 
film: è ovvio che l’intermezzo in b/n 
richiama la desessualizzazione, perno 
del masochismo rispetto al feticismo. 
Ma conta anche il dialogo tra lo sce¬ 
riffo e il figlio: dentro lo squilibrio per¬ 
manente tra i sessi (alluso dal sipariet¬ 
to tra i due e la dottoressa), segnala il 
venir meno della legge maschile-pa¬ 
triarcale per far spazio alla forma fem¬ 
minile-idealizzata di sostituzione alla 
legge: il contratto. “Il masochista vive 
l’ordine simbolico come inter-mater- 
no, e pone le condizioni sotto le quali 
la madre, in un tale ordine, si confon¬ 
de con la legge. [...] La triplicazione 
delle madri ha letteralmente espulso il 
padre dall’universo masochista” 8 . Il se¬ 
condo segmento porta le tre donne in 
prima Enea e ricaccia Mike nelle retro¬ 
vie. È il contratto, forma giuridica per 


eccellenza del masochismo (ancora ne 
Il freddo e il crudele ), a suggellare ripe¬ 
tutamente gli accordi tra Lee, Kim, 
Abbie e Zoe. 

Quegli accordi che Julia e le altre non 
trovano mai, perse nell’oscillazione ir¬ 
risolta tra acidità e sensualità, tra cor¬ 
tesie di maniera e malcelate rivalità 
isteriche, così differenti dal camerati¬ 
smo aggressivo delle seconde. Simme¬ 
triche, in questo senso, le reazioni ai 
racconti ose'e, o ai malintesi Shan- 
na/Shauna e Nuova Zelanda/Austra¬ 
lia. O i botta-risposta con montaggio 
tesissimo delle une, e le chiacchiere al 
tavolo in (quasi) pianosequenza delle 
altre. “Tutto il movimento del maso¬ 
chismo consiste nell’idealizzare le fun¬ 
zioni delle cattive madri, trasferendole 
sulla buona madre” 9 . Cambiare di se¬ 
gno dall’interno alle negatività della 
prima serie femminile, trovando il mo¬ 
do di idealizzarle. 

Il fantasma masochista ha come 
bordi simbolici la madre uterina e 
la madre edipica: entro le due, e 
dall’una all’altra, la madre orale, il 
cuore del fantasma. Il masochista 
gioca tra questi estremi, e li fa ri¬ 
suonare nella madre orale. In tal 
modo egli conferisce a costei, alla 
buona madre, un’ampiezza che le 
fa costantemente sfiorare l’imma¬ 
gine delle sue rivali. È necessario 
che la madre orale rapisca alla ma¬ 
dre uterina le sue funzioni eteriche 
(prostituzione) e alla madre edipi¬ 
ca le sue funzioni sadiche (puni¬ 
zione) 10 . 

Se la prima serie di ragazze oscilla tra 
sensualità e sadismo, la seconda “lette¬ 
ralmente” compie il suo viaggio in au¬ 
to tra sensualità (la ricognizione sulla 
sessualità di ognuna) e sadismo (verso 
Mike), ma “stabilizza” i due poli attra¬ 
verso la meccanicità, attraverso la di¬ 
namica rigorosa quanto acefala e fero¬ 
cemente pragmatica che si instaura tra 
loro - si pensi ancora alle loro inesau¬ 
ste contrattazioni. Nella seconda serie 
di ragazze, c’è ancora la sensualità 
(Abbie e Lee, quantomeno) e la cru¬ 
deltà (Lee lasciata in balia del redneck) 
delle altre, ma risignificate dall’idealiz¬ 
zazione materna (Abbie, unica madre 
nel film) e macchinale che è del maso¬ 
chismo. Dai frame mancanti della pri¬ 
ma metà, in cui la pellicola salta, a 
quelli subliminali dei titoli di coda, le 
code di pellicola raffiguranti tradizio¬ 
nalmente volti femminili: il femminile 
non è più la mancanza (tra i frame), ma 
direttamente quel nero che tra un fo¬ 
togramma e l’altro ne garantisce la 
successione - insomma, il femminile 
come il motore stesso della e nella ri¬ 
petizione, come vuole l’idealizzazione 
masochista. 


Tutto questo chiarisce la vera natura 
della cinefilia di Tarantino, lontanissi¬ 
ma dalla vulgata che la vuole vuota, 
sterile e ammiccante. In quanto com¬ 
plice di Mike (lo è Warren, dice lo sce¬ 
riffo), la collocazione di Tarantino 
cambia nettamente dalla prima alla se¬ 
conda metà dell’opera, segnando un 
distacco radicale e decisivo. Mike con¬ 
suma i suoi incidenti per fìnta, come 
esorcismi della morte solo in absentia 
di essa (è l’erotismo secondo Bataille, 
un feticcio della morte), al riparo del¬ 
l’abitacolo; è uno stuntman,z non un 
cowboy , il suo mestiere è fingere, ed è 
pure un fìnto stuntman (è un attore ve¬ 
ro, Kurt Russell), e rimpiange un cine¬ 
ma tanto “vero” quanto ora assente, 
con “veri” incidenti-orgasmi. Lo Ship’s 
mast è girato davvero da una stuntwo- 
man vera (Zoe Bell). È l’azione, le di¬ 
namiche e i meccanismi di essa, indi- 
pendenti dall’ideologica “autenticità” 
che i fanzinari (e Mike) vorrebbero 
perduta, che hanno la meglio e con¬ 
quistano le redini del progetto taranti- 
niano. La differenza tra il feticismo 
della pellicola e del reperto cinefilo (è 
nel segmento feticista che la pellicola è 
fintamente danneggiata, graffiata, 
sgranata ecc. - lì la T-shirt L'ultimo 
buscadero e il poster di Soldato Blu) e la 
riproduzione con pellicola “neutra” de¬ 
gli automatismi forti dell’azione cine¬ 
matografica (dialogo compreso) senza 
alcun ammiccamento (la seconda par¬ 
te; Punto zero non è ammiccamento, è 
parte del plot), è netta. La parabola di¬ 
segnata dal film va chiaramente nella 
seconda direzione contro la prima: Ta¬ 
rantino riproduce la linfa dell’azione 
cinematografica, la sua meccanica, la 
sua trasparente sapienza retorico-di¬ 
scorsiva, la sua solidità tecnica al servi¬ 
zio della flagranza dell’esperienza 
spettatoriale, e non (tanto) la comoda 
e classificatoria riconoscibilità delle 
sue superfici. E dà una splendida pro¬ 
va di saper trovare e usare questa linfa. 

Marco Grosoli 


Note 

1 Gilles Deleuze, Il freddo e il crudele , Milano, 
SE, 1996. 

2 Ibidem, p. 83. 

3 Ibidem, pp. 73-74. 

4 Ibidem, p. 37. 

5 Ibidem , pp. 132-133. 

6 Mike stesso aveva detto poco prima che la 
macchina era quella di sua mamma. 

7 G. Deleuze, op. cit ., p. 81. 

8 Ibidem , p. 71. 

9 Ibidem, p. 69. 

10 Ibidem , p. 74. 



Grindhouse - Aprova di morte 


11 










ULTIMO SPETTACOLO 


12 


Il cinema di exploitation nell’epo¬ 
ca della riproducibilità tecnica 

Grindhouse (Robert Rodriguez e 
Quentin Tarantino, 2007) 

Capita sempre meno spesso che un’u¬ 
scita cinematografica possa diventare 
una specie di happening, un evento lo¬ 
calizzato, irripetibile al di fuori di un 
determinato contesto, ora che lofferta 
di intrattenimento domestico e di tele¬ 
visione satellitare ha fatto piazza puli¬ 
ta delle proiezioni di mezzanotte. Ma 
la cosa più impensabile è che ciò possa 
accadere al di fuori del confine dei fe¬ 
stival, per di più all’interno del cinema 
mainstream e ad opera di uno studio di 
media grandezza che esporta i propri 
prodotti oltremare nel pieno rispetto 
dell’usuale ciclo sala-home video. 
Eppure, è proprio quanto è accaduto 
tra la primavera e l’autunno del 2007 
con Grindhouse: l’idea iniziale di Ro¬ 
bert Rodriguez e Quentin Tarantino 
era quella di far uscire nelle sale un 
normale film horror ad episodi della 
durata complessiva di due ore, ma chi 
aveva seguito i comunicati stampa nel 
corso del 2006 aveva avuto modo di 
assistere al progressivo sviluppo di un 
ibrido tra un pastiche e un’opera con¬ 
cettuale, coerentemente con quanto 
Tarantino aveva già fatto con Kilt Bill 
(2003 e 2004). Da film a episodi 
Grindhouse si stava lentamente trasfor¬ 
mando nell’inedito tentativo di simu¬ 
lare un’esperienza di visione ben preci¬ 
sa, inaccessibile alla maggior parte de¬ 
gli odierni spettatori: i cinema 
grindhouse statunitensi sono infatti sa¬ 
le del centro città in cattivo stato, de¬ 
classate rispetto ai multisala integrati 
negli shopping mali delle zone subur¬ 
bane, che negli ultimi trent’anni sono 
sopravvissute differenziando i propri 
spettacoli tanto dal punto di vista del 
rapporto qualità/prezzo - riportando 
in auge il doublé feature, il doppio spet¬ 
tacolo al prezzo di un unico biglietto - 
quanto da queEo dell’offerta, impron¬ 


tata al sensazionalismo più immediato 
che solo le produzioni di genere euro¬ 
pee o asiatiche sembravano poter of¬ 
frire in dosi massicce. Un sottobosco 
sconosciuto al pubblico non anglosas¬ 
sone, in quanto le poche sale rimaste 
nel centro delle città europee predili¬ 
gono il cinema d’essai, e eh e non è in¬ 
frequente veder celebrato in qualche 
prodotto recente: forse chi legge si ri¬ 
corderà di A morte Hollywood (Cedi B. 
Demented, John Waters, 2001), in cui i 
protagonisti sfuggivano alla polizia di 
Baltimora rifugiandosi in sale che 
proiettavano di volta in volta vecchi 
film di FuEer o pellicole di kung fu. 
Così, il nuovo film di Tarantino e Ro¬ 
driguez per i fratelli Weinstein (questa 
volta sotto l’etichetta Dimension), co¬ 
minciava a fregiarsi deEo slogan “2 
film con un unico biglietto!”, il cui uti¬ 
lizzo è tanto più ironico in un decen¬ 
nio in cui E trend prevalente consiste 
neEo spezzare in più uscite cinemato¬ 
grafiche film girati su un unico set, co¬ 
me quelli dei Wachowski, di Jackson e 
più di recente deEo stesso Tarantino. 
Inoltre erano state avviate le coEabora- 
zioni più disparate per reperire nuovo 
materiale utile ad ampHare e variegare 
il prodotto finale, sotto forma di falsi 
trailer che avrebbero intervaEato i due 
lungometraggi. L’accento veniva quin¬ 
di posto suE’esperienza visiva comples¬ 
siva, piuttosto che sui singoE fram¬ 
menti, e l’operazione, neEe intenzioni 
dei due registi, doveva essere imme¬ 
diatamente seriaEzzabile: alcuni dei 
falsi traEer sarebbero dovuti diventare 
lungometraggi da inserire negli ipote¬ 
tici capitoE successivi. Uriidea che a 
chi scrive ha ricordato gE sfortunati 
progetti di John Carpenter produttore, 
quando nel 1982, Eberatosi deE’in- 
gombrante Micheal Myers nel secon¬ 
do capitolo di HaEoween (Il signore 
della morte, Rick Rosenthal, 1981), 
meditava di trasformare la serie in un 
contenitore vuoto che a partire da 
Halloween III di Tommy Lee WaEace 
avrebbe presentato ogni anno un nuo¬ 



Grindhouse - Planet Terror 


vo film horror dì un regista esordiente. 
Pertanto la versione di Grindhouse 
uscita neEe 2600 sale americane e ca¬ 
nadesi che l’hanno proiettata a partire 
da aprile 2007 presentava questo pa- 
Ensesto: E trailer Machete (parodia de- 
gE action movie anni Settanta firmata 
Rodriguez), il lungometraggio Planet 
Terror (Rodriguez), E trailer Werewolf 
Women of thè S.S. (pastiche horror- 
concentrazionario reaEzzato da Rob 
Zombie), la fìnta pubbEcità di un ri¬ 
storante Tex Mex, E traEer Doni (pa¬ 
rodia dei film di Mario Bava reaEzza- 
ta da Edgar Wright, regista di Shaun of 
thè Dead 1 , 2004, e Hot Fuzz, 2007), E 
traEer Thanksgiving (parodia di Hal¬ 
loween, 1978, di Carpenter girata da 
EE Roth) e infine E lungo Death Proof 
di Tarantino, per un metraggio com¬ 
plessivo di 191 minuti segnati da graf¬ 
fi, asincronismi momentanei e rulE 
mancanti. A fronte di un budget di 67 
miEoni di doEari 2 il film in undici set¬ 
timane ne ha raggraneEati 25, spin¬ 
gendo i Weinstein a correre al riparo 
dividendo i due lungometraggi, eEmi- 
nando i traEer, e presentando E film di 
Tarantino a Cannes in un montaggio 
più lungo di mezz’ora (il film di Ro¬ 
driguez è invece identico aEa versione 
contenuta in Grindhouse ed è accom¬ 
pagnato dal trailer di Machete, cosicché 
da un punto di vista testuale riproduce 
esattamente i primi 100 minuti del 
film originale). In tutto questo, la no¬ 
tizia più sorprendente viene dal fronte 
home video, in quanto anche in questo 
caso i due film escono divisi e privi dei 
fìnti traEer: una cattiva strategia di 
marketing e probabEmente un pubbli¬ 
co poco propenso a stare al gioco han¬ 
no perciò trasformato l’operazione va¬ 
gheggiata dai due registi, trasportare 
per tre ore le scalcagnate sale del cen¬ 
tro aE’interno dei multisala, neEa ver¬ 
sione mainstream di un happening, di 
un evento effìmero consegnato aEa 
memoria dei pochi spettatori e aEe vi¬ 
deoregistrazioni ElegaE effettuate in 
sala che circolano via Internet. Che si 
possa nobiEtarle, per una volta, chia¬ 
mandole bootleg -? 

Francesco Di Chiara 


Note 

1. In Italia editato per il solo mercato home video 
con il titolo L'alba dei morti dementi. 

2. Fonte: 

http://www.boxofficemojo.com. Per farsi un’idea 
si confronti con il budget di 40 milioni di dollari 
di Sin City (Robert Rodriguez, 2005) o con i due 
Kilt Bill, costati 30 milioni ciascuno. 


Terrore tra gli stati membri 

Le recenti stagioni del cinema horror 
europeo 

Il cinema horror in Europa raramente 
ha beneficiato di grandi incassi sul 
mercato interno, e perciò non ha dato 
luogo ad una tradizione duratura. Tut¬ 
tavia, ancora oggi i cataloghi home vi¬ 
deo statunitensi recano decine di titoE 
ìtahani, francesi o spagnoE prodotti 
decine di anni fa, raccolti sotto etichet¬ 
te come “eurohorror” o “euroshock”, 
quasi a significarne l’irriducibile alte¬ 
rità (riconosciuta principalmente in 
più ampie frontiere del visibEe) rispet¬ 
to aE’equivalente americano. 

Oggi, in un decennio che ha visto E 
riaffermarsi deE’horror statunitense e 
l’effimero boom di queEo asiatico, ci 
sembra il momento di provare a tirare 
le somme di quanto sta accadendo in 
Europa, dedicandovi queE’attenzione 
in precedenza riservata al nuovo hor¬ 
ror americano 1 . Lo spazio a disposi¬ 
zione ci obbEga però a Emitarci aEe 
ultime stagioni, alla distribuzione ita- 
Eana e a privEegiare al trattamento dei 
singoE film la loro coEocazione aE’in- 
temo deEe poEtiche produttrici nazio- 
naE e industriaE. Speriamo comunque 
che il panorama fornito possa servire 
ad individuare una specificità deEa re¬ 
cente produzione europea e ad aprire 
ulteriori discussioni. 

Catalogna di sangue 

Nel contesto europeo, la Spagna pre¬ 
senta urianomaEa: è l’unica nazione ad 
avere una casa di produzione di media 
grandezza dedicata quasi esclusiva- 
mente aEa produzione horror. Si tratta 
deEa Rimax di BarceEona, i cui pro¬ 
duttori JuEo Fernàndez e Brian Yuzna 
(regista e produttore deE’horror ameri¬ 
cano anni Novanta) hanno iniziato re¬ 
clutando registi statunitensi in crisi 
(Stuart Gordon), giovani promesse co¬ 
me l’inglese Brad Anderson ( L'uomo 
senza sonno, El Maquinìsta, 2004), ma 
soprattutto giovani talenti nazionaE 
come Paco Plaza ( Second Name, El se¬ 
gando nombre, 2002) e Jaume Bala- 
guerò ( Darkness, 2002). Quest’ultimo, 
cui sono state subito affidate produzio¬ 
ni di riEevo, è in breve diventato E sim¬ 
bolo stesso deE’estetica FEmax: valori 
di produzione medio-alti, buon profes¬ 
sionismo del cast locale e internazio¬ 
nale, comparti tecnici molto curati, E 
tutto al servizio di un cinema accade¬ 
mico, daEa drammaturgia fragile e dal¬ 
l’impianto fortemente derivativo tanto 
sul piano iconografico che su queEo 
narrativo, che la FEmax riesce a piazza¬ 
re ugualmente neEe sale europee e sta¬ 
tunitensi. L’ultimo Ree, girato in cop¬ 
pia da Balaguerò e Plaza e presentato 











ULTIMO SPETTACOLO 


in apertura della LXIV Mostra del Ci¬ 
nema di Venezia, non fa eccezione: 
storia di reporter televisivi bloccati in 
un palazzo i cui condomini sono stati 
trasformati in zombi cannibali, è gira¬ 
to interamente in soggettiva dal came¬ 
raman intradiegetico, cosicché si risol¬ 
ve in un’applicazione del meccanismo 
di The Blair Witch Project (Sànchez, 
Myrick, 1999) allo zombie movie, bat¬ 
tendo sul tempo il nuovo Romero. 
Possiede però una sua rozza efficacia e 
può essere preso ad esempio dell’ap¬ 
proccio spagnolo al genere in questo 
decennio: film realizzati professional¬ 
mente che offrono uno spettacolo me¬ 
dio senza pretese di originalità. 

Francia e Inghilterra: nuove leve e fram¬ 
mentazione produttiva 

In occasione della presentazione al fe¬ 
stival SciencePlusFìction 2 dell’ottimo 
Them (. Ils , 2006) di David Moreau e 
Xavier Palud, straordinario film di 
tensione nel quale una coppia rimane 
prigioniera di invisibili assalitori, ave¬ 
vamo fatto cenno alla situazione fran¬ 
cese, nella quale a fronte di un sostra¬ 
to di piccole case attente alla produ¬ 
zione di genere come la Eskwad 
{Them-, Saint Ange, Pascal Laugier, 
2004), o la Europa Corp. di Lue Bes- 
son (Alta tensione. Haute tension, 
Alexandre Aja, 2003) si registra 
un’immediata diaspora di talenti: Aja e 
il duo di Them sono subito stati pre¬ 
cettati da Hollywood per i remake di 
Le colline hanno gli occhi (Hills Have 
Eyes, 2006) e The Eye, a riprova della 
difficoltà dell’horror francese a trovare 
una stabilità industriale. 

Più solida la situazione inglese in cui 
case più piccole come la Celador Films 
(Descent, Neil Marshall, 2005), la Dan 
Films ( Severance , Cristopher Smith, 
2006), la Dna Films {28giorni dopo, 28 
Days Later, Danny Boyle, 2002) o più 
grandi come la Working Tide Films 
{L'alba dei morti dementi, Shaun of thè 
Dead, Edgar Wright, 2004), supporta¬ 
te dallo UK Film Council, realizzano 
horror nel contesto di una più ampia 
strategia che mira alla confezione di 
prodotti dì buona tenuta spettacolare e 
facilmente esportabili. Come le produ¬ 
zioni francesi, anche questi film riela¬ 
borano in maniera originale tematiche 
e iconografia dell’horror americano: 28 
giorni dopo riprende il filone zombie e 
ne condiziona la ripresa commerciale; 
Descent rilegge i creature movies inve¬ 
stendo sulla reinterpretazione dei per- 
sonaggi femminili, come aveva già fat¬ 
to il francese Haute tension con lo sla- 
sher, infine Severance, come Them in 
Francia, entra nel merito della ridefi¬ 
nizione dell’est europeo come luogo 
del perturbante. Avevamo già rilevato 
come, grazie al successo della serie Ho- 


stel, l’ex blocco sovietico fosse tornato 
ad essere un luogo fantastico e miste¬ 
rioso dove tutto è possibile: se all’epo¬ 
ca del cinema classico ciò era dovuto 
allo shock della prima guerra mondia¬ 
le, ora è il vuoto istituzionale lasciato 
dal crollo della cortina di ferro, abbi¬ 
nato a politiche capitaliste particolar¬ 
mente aggressive, a fare della Slovac¬ 
chia di Hostel (o dell’Ungheria di Seve¬ 
rance, della Romania di Them ) un im¬ 
maginario scenario ideale per vicende 
che trasudano violenza e sopraffazio¬ 
ne. Tuttavia nei due film europei sem¬ 
bra di rilevare un atteggiamento diver¬ 
so e più interessante rispetto alla con¬ 
troparte americana: in Severance un 
gruppo di dipendenti di una multina¬ 
zionale che produce armamenti, in 
Ungheria per una ridicola gita motiva¬ 
zionale, a causa di un errore di percor¬ 
so diviene preda di un manipolo di fol¬ 
li reduci del conflitto nella ex-Jugosla- 
via; parimenti, Them trae spunto dalla 
reale presenza di gruppi di bambini 
che vivono nelle fogne di Bucarest. Il 
meccanismo di base è perciò quello, 
come direbbe Robin Wood, di un ri¬ 
torno del rimosso che viene a sconvol¬ 
gere quelle nazioni più sviluppate del¬ 
l’Unione Europea che nel passato de¬ 
cennio hanno vissuto da spettatori i 
drammi in atto negli stati vicini: un 
approccio che restituisce l’immagine 
di un horror europeo forse più incline 
alla metafora politica di quello ameri¬ 
cano contemporaneo. 

Inoltre Severance partecipa alla ten¬ 
denza, tutta britannica, a riportare in 
voga il legame tra horror e comicità 
demenziale, e che lega il film non solo 
a Lalba dei morti dementi ma soprat¬ 
tutto all’umorismo di alcune recenti 
serie televisive come The League of 
Gentlemen (1999-2002), nella quale gli 
ordinari abitanti di una cittadina della 
provincia britannica convivono con 
una famiglia di serial killer simili per 
aspetto a Lon Chaney ne IIfantasma 
dell'opera, con un macellaio che con¬ 
trabbanda carne di origine ignota e 
con un folle impresario da circo che 
rapisce le mogli altrui. 

Severance può essere preso ad esempio 
degli spunti più interessanti dell’horror 
britannico recente: un dialogo interes¬ 
sante con i modelli iconografici statu¬ 
nitensi contemporanei e non, un’atten¬ 
zione ai prodotti di successo prove¬ 
nienti da altri media che non si esplica 
in forma meramente derivativa, un uso 
dell’ironia che differenzia il prodotto 
dai concorrenti d’oltreoceano. 

Putrii terrori 

Potremmo sommariamente dividere la 
produzione horror italiana in tre fasce. 

Al livello più basso abbiamo un pullu¬ 
lare di film prodotti a bassissimo bud- 



Severance 



La terza madre 


get, inevitabilmente condannati ai 
margini della produzione e confinati al 
mercato video nostrano o estero: è 0 
caso dell’ultima fase della carriera di 
Bruno Mattei, o di progetti più inte¬ 
ressanti come II mistero di Lovecraft — 
Road to L. (Federico Greco e Roberto 
Leggio, 2005), che è stato presentato 
alla Mostra del Cinema di Venezia, 
trasmesso da Studio Universal, e infine 
approdato su DVD Rarovideo. 

Nello strato intermedio troviamo i 
film di due giovani autori che stanno 
lentamente tentando di affermarsi al¬ 
l’interno di produzioni di genere rea¬ 
lizzate in coproduzione con Spagna e 
Inghilterra da case come la Rodeo 
Drive o la Cattleya. Alex Infascelli ed 
Eros Puglielli fluttuano a livello pro¬ 
duttivo ed estetico tra la generazione 
dei padri dell’horror italiano, cui cerca¬ 
no di avvicinarsi, e il semi-professioni¬ 
smo dell’home video, in cui rischiano 
di venire risucchiati. Fin dagli esordi 
hanno beneficiato di budget medio al¬ 
ti e di un’attenzione mediatica non in¬ 


differente, ma i loro due ultimi film 
usciti nelle sale, Il siero della vanità 
(Infascelli, 2004) e Occhi di cristallo 
(Puglielli, 2005) benché realizzati in 
compartecipazione con la tv di stato e 
presentati in vetrine importanti {Occhi 
di cristallo a Venezia, 2004) non hanno 
convinto il pubblico con il loro atteg¬ 
giamento mimetico nei confronti del 
giallo anni Settanta. Di qui il tentativo 
di rilanciarsi con prodotti distribuiti 
direttamente in video come “alternati¬ 
va” alla circolazione nelle sale, rivendi¬ 
cando questa scelta con pompose di¬ 
chiarazioni sulle sue inedite possibilità 
autoriali e sperimentali. Ma ADproject 
(Puglielli, 2006) e H20dio (Infascelli, 
2006), al di là dell’attenzione ricevuta 
in virtù dei canali distributivi impiega¬ 
ti, denunciano nell’estetica, nei modi di 
produzione e nei risultati una perico¬ 
losa parentela con il sottobosco del- 
l’horror straight to vìdeo italiano, oltre 
ad essere aggravati da pretenziosità 
narrativo-linguistiche degne dei peg¬ 
giori dilettanti. 


13 










ULTIMO SPETTACOLO 


14 


Sembra che anche in questo settore 
della cinematografia nazionale ci sia 
una generazione dei padri troppo in¬ 
gombrante nei confronti della quale i 
figli, soggiogati nell’immaginario e ab¬ 
bandonati dagli investitori, nulla pos¬ 
sono. Le uniche produzioni di rilievo 
in questa stagione sono infatti quelle 
guidate da Argento e Avati. La terza 
madre (2007) viene presentato come 
chiusura della trilogia iniziata con Su- 
spiria (1977) e Inferno (1980), ma il 
confronto con il passato del regista è 
tanto più crudele quanto più segna lo 
zenit della sua inarrestabile discesa ar¬ 
tistica. Argento evidentemente non ha 
nemmeno più voglia di investire sul 
piano dell’immagine, e questo sia per 
quanto riguarda lo stile di ripresa, ri¬ 
dotto a una frontalità da fiction tv, che 
a livello dell’imbarazzante iconografia 
stregonesca; per quanto riguarda la 
narrazione, poi, il fatto che tra gli sce¬ 
neggiatori sia accreditato anche il 
montatore del film è un segnale in¬ 
quietante. Argento ormai funziona 
soltanto quando è vincolato da esigen¬ 
ze produttive altrui e non si può sce¬ 
gliere i collaboratori: ecco perché i ri¬ 
sultati più accettabili professionalmen¬ 
te sono quelli ottenuti con sceneggia¬ 
ture già scritte e maestranze canadesi 
per la serie Masters of Horror. Tuttavia 
il suo nome è un brand che vende be¬ 
ne all’estero, il suo ultimo film è stato 
presentato prima a Toronto che a Ro¬ 
ma ed ha trovato comunque compra¬ 
tori a scatola chiusa: qualsiasi cosa fac¬ 
cia, il regista romano sta ancora viven¬ 
do sul credito conseguito trent’anni fa. 
Diversa la situazione di Avati, le cui 
parsimoniose incursioni nell’horror 
hanno costellato la sua carriera al rit¬ 
mo di circa un film per decennio. Il 
nascondìglio (2007), tratto da un pro¬ 
prio romanzo uscito poco prima del 
film, è una coproduzione in cui rien¬ 


trano oltre all’onnipresente DueA del 
fratello Antonio anche la Rai e l’oscu¬ 
ra Motion Pictures Midwest (Usa), 
per un film che fin dalle ambientazio¬ 
ni (l’Iowa in luogo dell’Emilia Roma¬ 
gna) e dal composito cast sembra pun¬ 
tare alla vendibilità internazionale. Ma 
al di sotto della confezione scopriamo, 
riproposto con solidità narrativa e stile 
di regia assai più incisive delle sue ul¬ 
time prove autoriali, lo stesso impian¬ 
to dei più celebri contributi al genere 
di Avati: il lungo prologo come in Ze- 
der (1983) la provincia ostile che na¬ 
sconde segreti terrificanti, un senso di 
persecuzione che attanaglia il protago¬ 
nista (La casa dalle finestre che ridono, 
1976). Il tutto però aggiornato nell’i¬ 
conografia, che almeno per quanto ri¬ 
guarda la figura dell’assassino sembra 
riecheggiare recenti suggestioni orien¬ 
tali. 

E uno sviluppo bloccato quello del- 
l’horror italiano, indipendentemente 
dalla qualità degli esiti: complice pro¬ 
babilmente la riscoperta cinefila, spes¬ 
so acritica, dei nostri decenni di mag¬ 
giore vivacità produttiva, sembra che 
né i finanziatori né le nuove leve rie¬ 
scano a guardare oltre il passato persi¬ 
no in momenti in cui il genere vive una 
nuova giovinezza nel contesto interna¬ 
zionale. 

Francesco Di Chiara 


Note 

1. Enrico Biasin (a cura di) “Speciale New New 
Horror”, Cinergie, n. 12, settembre 2006. 

2. Cfr. Cinergie., n. 14, settembre 2007, p. 49. 


Da André and Wally B. a Rata- 
touiUe. Pixar, una macchina crea¬ 
trice 

L'umanità geme, semischiacciata dal peso 
del progresso compiuto. 
Non sa abbastanza che il suo avvenire 
dipende da lei. 
A lei di vedere prima dì tutto se vuole 
continuare a vivere; 
a lei di domandarsi poi se vuole soltanto 
vivere, o fornire anche lo sforzo 
perché si compia, anche sul nostro 
pianeta refrattario, la funzione 
essenziale dell’universo, 
che è una macchina destinata a creare 
delle divinità. 
Henri Bergson 1 


È fin troppo banale affermare che la 
storia dell’animazione poggia sulla 
tecnologia per potersi rendere espres¬ 
sivamente autonoma. Il cinema di ani¬ 
mazione digitale non ha fatto altro che 
enfatizzare questa tendenza innata. 

E soprattutto negli Stati Uniti che la 
tecnologia si è affermata come stru¬ 
mento ricco di possibilità ed in conti¬ 
nua crescita. A riprova dell’abbondan¬ 
za di proposte cinematografiche, basti 
pensare che soltanto negli ultimi mesi 
del 2007, sono stati presentati, dalle 
diverse case di animazione concorren¬ 
ti, titoli come Ratatouille (Brad Bird, 
Jan Pinkàva, 2007), Shrek Terzo (Shrek 
thè Third, Chris Miller, Raman Hui, 
2007), Bee Movie (Steve Hickner, Si¬ 
mon J. Smith, 2007) e, in 2D, I Sim- 
pson - Il Film (The Simpsons Movie, 
David Silverman, 2007). 

E la Pixar ad aver marchiato il cinema 
d’animazione di questo ultimi venti 
anni. I risultati della ricerca tecnologi¬ 
ca, congiunta con la sperimentazione 
nei contenuti e nelle forme dell’anima¬ 
zione, iniziano a trovare espressione 
tangibile già a metà anni Ottanta, con 
la Divisione Computer della Luca- 
sFìlm. L’anno decisivo è il 1984: il cor¬ 
to The Adventures of André and Wally 
B., di Alvy Ray Smith, viene presenta¬ 
to come progetto dimostrativo per la 
SIGGRAPH, festival dedicato alle 
nuove tecnologie. Il film è breve e i 
personaggi sono costruiti con forme 
geometriche elementari, ma lo scena¬ 
rio bucolico, realizzato con un sistema 
particellare che moltiplica elettronica- 
mente le foglie degli alberi e la vegeta¬ 
zione, insieme alla scia del movimento 
prodotta dai due protagonisti, offrono 
una dinamicità e un ritmo senza pre¬ 
cedenti. I corti della Pixar 2 rappresen¬ 
tano la genesi e l’evoluzione dell’ani¬ 
mazione tridimensionale; una vera e 
propria storia del linguaggio generato 
attraverso la progettazione di software 
capaci rendere vivi oggetti comuni, di 



REC 


creare spazi tanto dettagliati da diven¬ 
tare iperreali. 

Dopo il successo ottenuto con André 
and Wally B., il gruppo di precursori 
dell’elaborazione digitale, con il creati¬ 
vo Lasseter e il fondatore della Apple, 
Steve Jobs, danno vita ad una nuova 
compagnia, la Pixar, che oggi può esse¬ 
re definita come la più importante ca¬ 
sa cinematografica specializzata in 
“computer generated imagery”. La 
Pixar, realizzatrice di film dal successo 
planetario come Toy Story (John Las¬ 
seter, 1995), Gli Incredibili (The Incre- 
dibles, Brad Bird, 2004) e l’ultimo Ra¬ 
tatouille (2007), non si distingue sola¬ 
mente per la produzione di lungome¬ 
traggi animati incomparabili sia sul 
piano tecnologico che narrativo, ma 
prosegue la sperimentazione attraverso 
i corti, che sono a volte degli spin off 
dei film, a volte i loro precursori, altre 
volte dei lavori autonomi, affidati a 
nuovi talenti della computer graphic. 
Non è audace pensare che gli autori 
guardino anche a quella corrente sfo¬ 
ciata a partire dalla Pop Art all’inizio 
degli anni Settanta chiamata iperreali¬ 
smo (o fotorealismo), termine che de¬ 
riva da una tendenza maniacale nel 
rappresentare la realtà in modo ancora 
più realistico che attraverso il mezzo 
fotografico. Se il movimento iperreali¬ 
sta si è esaurito abbastanza veloce¬ 
mente, le tecniche usate hanno prima 
trovato spazio nell’illustrazione pub¬ 
blicitaria, per raggiungere poi massima 
espressione proprio nell’animazione 
grafica tridimensionale. 

E il primo corto firmato Pixar, Luxo 
Junior (John Lasseter, 1986) si può 
considerare, a tutti gli effetti, il simbo¬ 
lo di tale ricerca estetica, narrativa, 
tecnologica 3 . Luxo Jr., realizzato e ani¬ 
mato da John Lassater, ha per prota- 
goniste due lampade da scrivania. Due 
oggetti comuni, asettici, banali e ap¬ 
parentemente privi di ogni possibilità 
di espressione, diventano un genitore 
premuroso e un figlio esuberante. Ol¬ 
tre alla riuscita presunzione di dare 
carattere ed emotività ad una macchi¬ 
na, sono l’auto-ombreggiatura della 
lampada, resa possibile attraverso lo 
studio di un algoritmo matematico, e 
la realistica resa dei materiali (il legno, 
il metallo) ad aprire la pista ad una 
lunga serie di opere che fanno dello 
studio sulla luce, sul movimento e sul¬ 
la superfìcie rappresentata, oltre all’o¬ 
riginalità dei personaggi (oggetti, es¬ 
seri umani o animali), il loro punto di 
forza. 

Il Sogno di Red (Red’s Dream, Ralph 
Eggleston, 1987) è il primo corto che 
si serve di effetti speciali come la piog¬ 
gia e presenta il primo modello orga¬ 
nico: il clown co-protagonista insieme 
al monociclo. Ma è con Tin Toy (John 
Lasseter, 1988), dove viene usato il 



ULTIMO SPETTACOLO 


software sperimentale “Renderman”, 
che la Pixar comincia a vedere la pos¬ 
sibilità di realizzare un vero e proprio 
film. La storia, che racconta il maltrat¬ 
tamento di alcuni giocattoli da parte di 
un bambino, può considerarsi la prova 
generale del primo lungometraggio 
firmato Pixar, Toy Story. Il mondo dei 
giocattoli in collaborazione con la Walt 
Disney Pictures. 

Si può notare come Lasseter sia parti¬ 
colarmente legato al tema dell’oggetto 
animato, in particolare del giocattolo, 
portatore da sempre di valenze simbo¬ 
liche ambigue e sinistre come le bam¬ 
bole raccontate da Rilke 4 o di signifi¬ 
cati temporali, come scrive Giorgio 
Agamben in Infanzia e Storia s . A Toy 
Story (1995) segue infatti, a distanza di 
qualche anno, Toy Story 2 - Woody e 
Buzz alla riscossa (Toy Story 2, John 
Lasseter, 1999), poi Cars - Motori rug¬ 
genti (Cars , John Lasseter, Joe Ranft, 
2006), dove le automobili protagoniste 
assumono colori e forme che ricorda¬ 
no da vicino le miniature create per i 
bambini, e il terzo capitolo di Toy Story 
che è in lavorazione e sarà terminato 
entro il 2010. 

La nuova fase produttiva di lungome¬ 
traggi trova nei corti non soltanto un 
luogo per cimentarsi con nuove tecni¬ 
che di animazione, ma anche un pro¬ 
dotto atto ad arricchire i DVD pensa¬ 
ti per l’home video. Mike’s New Car 
(Pete Docter e Roger Gould, 2002) in¬ 
fatti vede in campo scene e personaggi 
già realizzati per il film Monster’s & 
Co. (Monsters Ine., Pete Docter, 2001), 
e per la prima volta in un corto Pixar si 
fa uso dei dialoghi. Anche Jack-Jack 
Attack (Brad Bird, 2005) è uno spin off 
del film Gli Incredibili, entrambi diret¬ 
ti da Brad Bird, nuovo talento nel 
campo dell’animazione sia come sce¬ 
neggiatore che come regista. Bird ha 
una lunga esperienza che precede la 
sua collaborazione con la Pixar, lavora 
insieme a Tim Burton alla Disney, di¬ 
rige alcuni episodi della serie televisiva 
I Simpson e collabora alle versioni oc¬ 
cidentali dei film d’animazione dello 
studio Ghibli di Hayao Miyazaki. 

Dopo il geniale lavoro sulla famiglia di 
supereroi dagli atteggiamenti non pro¬ 
prio ortodossi, Brad Bird pensa, scrive 
e dirige il suo secondo lungometraggio 
realizzato in casa Lasseter, con Jan 
Pinkava, Ratatouille (preceduto dal 
corto Lifted- in Italia con il titolo Stu. 
Anche un alieno può sbagliare, diretto 
dall’esordiente Gary Rydstorm). Il film 
racconta la storia di Remy, un topo, 
anzi un vero e proprio ratto dal muso 
affilato, denti aguzzi e pelo arruffato 
che, a differenza dei suoi consangui¬ 
nei, ha sviluppato un gusto ed un ol¬ 
fatto straordinari e non si accontenta 
di nutrirsi di rifiuti. Una serie di disav¬ 




venture conduce Remy nelle fogne di 
Parigi, proprio sotto al ristorante del 
famoso chef Auguste Gusteau, suo 
idolo. E la brillante carriera di cuoco di 
Remy ha inizio con l’aiuto di un gio¬ 
vane sguattero, Linguini, non senza 
difficoltà logistiche dovute soprattutto 
alla sua specie d’appartenenza. Con 
più di settantamila disegni, il film ha 
dettagli straordinariamente verosimili 
e movimenti di macchina virtuosi e 
spettacolari, soprattutto nelle sequenze 
in cui il punto di vista è quello del ro¬ 
ditore. Bird e Pinkava posizionano in¬ 
fatti le camere quasi sempre all’altezza 
del protagonista e dai suoi occhi ne 
scaturisce una visione del mondo in¬ 
consueta, a volte divertita, altre venata 
di amarezza. 

A livello estetico Ratatouille costitui¬ 
sce un nuovo traguardo per gli anima¬ 
tori della Pixar. Punto di forza è la fi¬ 
sicità degli attori virtuali. La colonia di 
roditori è realizzata in modo molto 
realistico, mentre i protagonisti sono 
caratterizzati da movenze più umane 
(Retny si sforza di essere bipede), pur 
nei limiti delle loro sembianze. Oltre 
ai topi, modelli mai affrontati prima 
dagli animatori Pixar, studiati dal vivo 
grazie a dei mammiferi portati all’in¬ 
terno degli studi d’animazione, estre¬ 
mamente efficace è risultato anche lo 
studio sulla cucina francese, avvenuto 
effettivamente all’interno di un rino¬ 
mato ristorante. Infine texture, pellicce 
capelli e abiti, sono il riflesso del mon¬ 
do reale nei modelli tridimensionali, 
così come tutti gli effetti che vedono 
in campo fluidi, fuochi ed effetti at¬ 
mosferici. Non ultimo risultato eccel¬ 
lente è lo studio sulla scenografia: una 
Parigi romantica e caratterizzata da 
luci sfavillanti e dettagli che si concen¬ 
trano non solo sulla verosimiglianza, 
ma anche sulla ricerca dell’atmosfera 
adatta alla struttura narrativa. 

Se ad oggi è ancora difficile attribuire 
all’uso di un linguaggio matematico 
un valore artistico (ingabbiato all’in¬ 
terno del concetto di creatività e ma¬ 
nualità), la visione complessiva dei 
corti Pixar (solo alcuni sono stati presi 
in considerazione in questo testo) è in¬ 
vece da considerarsi come una “perso¬ 
nale” di un grande artista, senza esclu¬ 
dere i risultati, spesso eccellenti, otte¬ 
nuti con gli otto lungometraggi creati 
dal team di Lasseter. È necessario, in 
questo senso, rivolgere un pensiero cri¬ 
tico a quelle che sono le produzioni 
concorrenti (prima su tutte la 
Dreamworks, con gli episodi di Shrek 
come punta di diamante della casa di 
animazione) nel panorama statuniten¬ 
se, non meno gradite dal pubblico, né 
meno sofisticate dal punto di vista tec¬ 
nico, ma assai più statiche e tradizio¬ 
nali nello sforzo di coniugare il pro¬ 


gresso in campo grafico con la ricerca 
creativa in ambito narrativo. 

Sara Martin 


Note 

1. Henri Bergson, Le fonti della morale e della reli¬ 
gione, in Id., Le opere, Milano, Mondadori, 1972, 
p. 590. 

2. Oggi raccolti, con numerosi extra ed interviste 
ai protagonisti della casa di animazione, nel DVD 
1 Corti Pixar Collection, Walt Disney Pictures. 

3. Non a caso, la lampada da tavolo, protagonista 
del corto, è diventata il logo ufficiale della Pixar. 


4. Mi riferisco all’analisi di Furio Jesi sul testo 
Puppen di Reiner Maria Rilke, in Furio Jesi, Let¬ 
teratura e mito. Torino, Einaudi, 1968. 

5. “Tutto ciò che è vecchio, indipendentemente 
dalla sua origine sacrale, è suscettibile di diventa¬ 
re giocattolo. Di più: la stessa appropriazione e 
trasformazione in gioco si può compiere, per 
esempio, attraverso la miniaturizzazione - anche 
nei confronti di oggetti che ancora appartengono 
alla sfera dell’uso: un’automobile, una pistola, una 
cucina elettrica si trasformano di colpo, grazie al¬ 
la miniaturizzazione, in giocattolo. Ma qual è al¬ 
lora l’essenza del giocattolo? Il carattere del gio¬ 
cattolo, l'unico, se ben si riflette, che possa distin¬ 
guerlo dagli altri oggetti, è qualcosa di singolare, 
che può essere colto solo nella dimensione tem¬ 
porale di un ‘una volta’ e di un ‘ora non più’”. 
Giorgio Agamben, Infamia e storia. Distruzione 
dell'esperienza e origine della storia, Torino, Einau¬ 
di, 2001, p. 73. 


Ratatouille 


Ratatouille 


15 


















Quel genere d’attore 

L’esplosione degli studi sull’attore e l’in¬ 
tima immortalità del concetto di genere 

Parlare di attori è difficile. Lo si è sem¬ 
pre detto. Non esiste un genere critico 
dedicato alla recitazione cinematografica 
e, anche quando le riviste specializzate 
cercano di affrontare la sfida, ci si accor¬ 
ge presto di non avere strumenti efficaci 
per una retorica della critica attoriale. Sui 
rapporti complessi che intercorrono tra 
attorialità e divismo (argomento che in¬ 
vece ha ottenuto importanti trattati, che 
sarebbe stucchevole qui ricordare) era in¬ 
tervenuto solo Francesco Pitassio - il ti¬ 
tolo del volume è Attore/Divo, edito da II 
Castoro nel 2003. 

Ora, invece, la pubblicistica nazionale 
sembra aver affilato le armi. In tutti i ca¬ 
si, a dire il vero, gli autori sono saggisti 
esperti, docenti che hanno già affrontato 
la questione in passato e, in almeno due 
casi, profondi conoscitori del teatro oltre 
che del cinema. I riferimenti dei volumi: 
Cristina Jandelli, Breve storia del divismo 
cinematografico, Venezia, Marsilio, 2007; 
Claudio Vicentini, L’arte di guardare gli 
attori. Manuale pratico per lo spettatore di 
teatro, cinema, televisione, Venezia, Marsi¬ 
lio, 2007; Gigi Livio, L'attore cinemato¬ 
grafico. Alcune ipotesi metodologiche e criti¬ 
che, Arezzo, Editrice Zona, 2007. Nel 
primo caso, si tratta di un volume divul¬ 
gativo - ma non per questo meno inte¬ 
ressante - che mette a frutto la letteratu¬ 
ra internazionale sull’argomento per ri¬ 
compattarla in vista di una storia del di¬ 
vismo. Lo sguardo sui corpi, sui volti e 
sulle figure d’attore/divo è centrato, an¬ 
che grazie a una buona conoscenza delle 
fonti e a una consapevolezza analitica 
che permette di inquadrare i fenomeni 
nel loro contesto storico e teorico. La 
Jandelli si era già occupata di divismo al 
femminile durante il cinema muto italia¬ 
no e non dimentica perciò di indagare i 
processi simbolici attraverso i quali il di¬ 
vo riesce a vivere “fuori” dallo schermo e 
dentro i discorsi sociali della sua epoca. 
Interessanti, in particolare, le riflessioni 
sul cinema contemporaneo e sui rappor¬ 
ti che intercorrono tra mutamento del- 
l’immagine digitale e riflessi che ciò 
comporta sul divismo, con acute analisi 
delle opere di David Lynch e di II caima¬ 
no di Nanni Moretti. 

Nel caso di Claudio Vicentini, invece, si 
mette a frutto la preparazione - amplis¬ 
sima - in fatto di storia del teatro e del¬ 
lo spettacolo (materia di cui l’autore è 
Professore Ordinario), in stretta connes¬ 
sione con il cinema, la televisione e per¬ 
sino la produzione multimediale. In que¬ 
sto caso, l’approccio è estremamente va¬ 
riegato. Non è un caso che il sottotitolo 
rechi il termine “manuale pratico” ma che 


poi vi aggiunga “per lo spettatore”. Sem¬ 
bra un ossimoro e non lo è. Vicentini, 
esperto di tecniche attoriali e recitative, 
mostra dunque non solo e banalmente i 
trucchi del mestiere, ma una vera e pro¬ 
pria retorica dei meccanismi dell’arte 
dell’attore. Salvo - citando ancora il lun¬ 
go sottotitolo - che l’arte, in questo caso, 
è quella di “guardare” gli attori, e perciò 
di saperli vedere, coniugando esperienza 
di consumo e innalzamento estetico. Nel 
libro, gli esempi sono tantissimi, dal sa¬ 
cro al profano, dal western all’italiana a 
Lawrence Olivier, da Totò a Grace Kel¬ 
ly, in una scorribanda che, sostenuta da 
una scrittura profonda e da un piacere 
verso l’argomento giustamente mai cela¬ 
to, conquista alla prima lettura. 
Avvicinandoci sempre più al problema 
esposto poco sopra, ovvero alla necessità 
di trovare un linguaggio appropriato per 
la critica attoriale, troviamo alcune solu¬ 
zioni nel volume di Gigi Livio. In questo 
caso, una serie di saggi separati - ma tra 
loro intimamente collegati - ci suggeri¬ 
scono la possibilità di approdi metodolo¬ 
gici non casuali a questa materia. L’inda¬ 
gine è fortemente analitica. Vi si trovano 
studi su Cassavetes, dettagliati ragiona¬ 
menti sui “modi” di abitare il film da par¬ 
te di Vittorio De Sica e Gary Cooper, ri¬ 
flessioni intorno a Kazan, all’Actor’s Stu¬ 
dio e a Marilyn Monroe. In tutti i casi, 
materie ampiamente trattate subiscono 
una revisione preziosa, che permette di 
osservare i fenomeni da un’angolatura 
inedita. Le proposte metodologiche di 
Livio, che intercettano varie branche del¬ 
la ricerca e rifiutano ogni impressioni¬ 
smo, sfociano in un’enfatizzazione dell’a¬ 
spetto interpretativo da condividere con 
forza. 

Se questi tre libri, tutti di ottima levatu¬ 
ra, colmano un vuoto pubblicistico e me¬ 
todologico importante, ora bisogna assi¬ 
stere alle ricadute sul piano degli studi 
applicativi. Da subito, un critico intelli¬ 
gente come Sergio Arecco sembra ri¬ 
spondere da par suo. Rispolverando un 
genere assai poco in voga in Italia - la 
biofilmografia critica - egli scrive un 
monumentale volume su Marion Brando, 
edito nel 2007 da Le Mani. Il libro met¬ 
te insieme una grande quantità di dati e 
di notizie, ricostruisce con perizia la vita 
di Brando facendosi largo tra mito e 
spazzatura, trova rime interne alla bio¬ 
grafia e alla filmografia dell'attore, dedi¬ 
ca dettagliate analisi a dialoghi e passag¬ 
gi (riproposti quasi interi) di ciascun film 
girato dall’attore statunitense. L’origina¬ 
lità del progetto sta proprio nel fare un 
bel libro “all’americana”: il critico si 
“sporca” le mani con il giornalismo, la 
biografìa, la ricerca di fonti, ma non ri¬ 
nuncia - pur rispettando il genere bio¬ 
grafico - a letture, interpretazioni, pro¬ 
poste charificatrici. 

Attore, divo e genere, come ci insegnano 





FAHRENHEIT 451 



gli storici dello stardom, sono termini da 
sempre intrecciati. Le categorie dell’at¬ 
tore e quelle del genere si intrecciano in 
complessi terreni di negoziazione delle 
attese spettatoriali. Lo comprende bene 
un volume apparentemente enciclopedi¬ 
co e invece straordinariamente brillante 
per acutezza critica e amore per l’ogget¬ 
to di studio. Si tratta di Commedia ame¬ 
ricana in cento film di Paola Cristalli (Le 
Mani Editore), già autrice di pregevoli 
testi su Via col vento e sulla Hollywood 
classica. In questa lunga trattazione “tra¬ 
vestita” da elenco di schede, emerge il fi¬ 
lo rosso che lega la produzione hol¬ 
lywoodiana dal sonoro a oggi, con i suoi 
picchi e le sue cadute, i suoi margini sor¬ 
prendentemente elastici e le sue norme 
immortali, la sua capacità di esaltare vol¬ 
ti, corpi, parole e la sua schiacciante su¬ 
periorità rispetto ad altre forme di 
espressione popolare. Il volume - lungo 
500 pagine dense e appassionanti - si 
candida a diventare “opus” extra-accade¬ 
mico dell’anno per come utilizza gli 
strumenti della critica sovrapponendoli 
con profonda conoscenza del mestiere a 
quelli metodologici o teorici, che pure 
l’autrice conosce a fondo. Come per 
Arecco, anche per Cristalli la scrittura di 
un libro può diventare il luogo di eserci¬ 
zio dell’intelligenza creativa, dell’ado¬ 
zione di un mondo cinematografico, 
della consuetudine irrinunciabile con ciò 
di cui si parla. Ma in entrambi i casi 
amore, cinefilia, passione personale 
(quasi adesione esistenziale) non tolgo¬ 
no un grammo di scientificità ai volumi, 
anzi ne esaltano loriginale identità. 

La casa editrice Le Mani, del resto, con¬ 
tinua la propria campitura - unica in 
Italia - sul cinema classico e post-classi¬ 
co, e sui generi cinematografici. Lo di¬ 
mostra il nuovo appuntamento con Ci¬ 
nema & Generi, datato 2007, pubblica¬ 
zione annuale a cura di Renato Ventu- 
relli che medita sulla situazione e le tra¬ 
sformazioni dei generi a partire dalla 
produzione stagionale e dagli stimoli 
storiografici emersi dalle occasioni festi¬ 
valiere. Anche qui si parla di attori - co¬ 
me capita nel saggio di Simone Emilia¬ 
ni: Il corpo e il volto: i nuovi comici statu¬ 
nitensi, che avvicina alcune delle temati¬ 
che presenti anche nella Tavola Rotonda 
che apre la nostra rivista. Ma poi vi so¬ 
no articoli su cinema e boxe, sul polar 
francese (del massimo esperto italiano 
dell’argomento, Mauro Gervasini), sul 
cinema politico in Italia, suE’action tai¬ 
landese, senza dimenticare il luogo per 
eccellenza di rielaborazione dei generi, 
la nuova fiction tv Usa. 

Atteggiamento più lontano e diversifi¬ 
cato è quello che esprimono i filosofi già 
responsabili del volume di analisi su I 
Simpson che recensiamo poco oltre. O 
meglio, è uno di loro - portavoce del 


gruppo newyorkese -, Mark T. Conard, 
a curare il libro e a interrogare il noir da 
un punto di vista speculativo. Platone 
suona sempre due volte — ha filosofia del 
noir, edito da Piemme, 2007, attraversa 
con ghiotta predisposizione alla materia, 
decine di momenti della letteratura e 
(soprattutto) del cinema di genere da un 
punto di osservazione filosofico. La pre¬ 
fazione risulta importante per compren¬ 
dere i vari rivoli in cui si divide il volu¬ 
me, e la prima parte riesce con esattezza 
a ricostruire un reticolo di riferimenti 
culturali e sociosemiotici riguardanti na¬ 
scita e sviluppo del nero. Gli “studi di 
caso” sono altalenanti; tra questi spicca 
la discussione sul noir e Camus da parte 
di Alan Woolfolk. Comunque un volu¬ 
me da possedere, soprattutto per gli 
amanti della teoria del genere e dei suoi 
sviluppi eterodossi. Da mettere sullo 
scaffale in compagnia del suo gemello 
eguale e contrario: L'età del noir. Ombre, 
incubi e delitti nel criminale americano 
(1940-1960). Si tratta di uno studio dal¬ 
l’approccio opposto, scritto da Renato 
Venturelli (sempre lui) per Einaudi 
(2007). Qui il noir è riportato a una fi¬ 
logenesi le cui pezze d’appoggio sono 
difficilmente discutibili. Letteratura, 
politica, società, cinema, si stringono 
l’un l’altro per chiarire da dove proviene 
il noir, che territorio copre, quali figure 
privilegia e come comunica dal punto di 
vista iconografico e narrativo. L’approc¬ 
cio più tradizionale alla materia non 
nuoce, né si creda che abbia il respiro 
corto, poiché infine il risultato appare si¬ 
mile a quello di Conard: il noir ha con¬ 
fini più precisi di quanto si creda, eppu¬ 
re lascia intorno a sé una scia di inter¬ 
pretazioni, letture, risvolti che non fini¬ 
scono mai di rilanciarne il senso, fino a 
farne - da genere ultra-storicizzato qual 
è - un transgenere di riferimento. 

Roy Menarmi 




17 


















FAHRENHEIT 451 


Recensioni 

Lindau 

Jacques Aumont, Michel Marie, Di¬ 
zionario Teorico e Critico del Cinema, 
Torino, Lindau, 2007. 

Pourpeu qu'on ait rifischi sur la liai¬ 
son que les de'couvertes ont entrelles, 
il est facile de s’appercevoir que les 
Sciences et les arts se prétent mutuel- 
lement des secours, et quii y a par 
conséquent une chaìne qui les unii, il 
est souvent diffìcile de réduire à un 
petit nombre de règles ou de notions 
générales, chaque Science ou chaque 
art enparticulier, il ne l'estpas moins 
de renfermer en un système qui soit 
un, les branches infiniment variées de 
la Science humaine. 

Jean le Rond d’Alembert 1 

Per la collana Saggi della casa editrice 
Lindau, nel panorama letterario di 
nicchia legato alla settima arte, Jacques 
Aumont e Michel Marie ritagliano 
una specificità legata alla riflessione 
teorica e critica che ha accompagnato 
la pratica cinematografica sin dalla sua 
comparsa. 

Un intento tassonomico-didattico ri¬ 
volto agli studiosi del settore, ma non 
privo di interesse per il lettore cinefilo 
o per chiunque è alla ricerca di rispo¬ 
ste sintetiche e chiare sull’argomento. I 
lemmi raccolti nell’opera fissano i car¬ 
dini su cui si imperniano le diverse 
teorie dedicate al cinema da teorici, 
studiosi e registi, formulazioni siste¬ 
matiche mutuate spesso da altre mate¬ 
rie di studio. 

La capacità di questa arte di assorbire 
e rielaborare le discipline che l’hanno 
preceduta, e che la attraversano e la sua 
predisposizione a generare forme de¬ 
dicate, discorsi critici precipui, lessico 
specialistico hanno di sovente bisogno, 
per una corretta interpretazione, di 
una conoscenza specifica ed approfon¬ 
dita nei più disparati ambiti culturali e 
tecnici o di una guida esperta che illu¬ 
mini il percorso. Ed è questa la dire¬ 
zione nella quale si pongono i due stu¬ 
diosi d’oltralpe. Il loro lavoro non si 
conforma come una mera catalogazio¬ 
ne di definizioni: suggerisce esempi, 
propone riferimenti incrociati tra le 
varie voci, indica rimandi bibliografici 
preziosi. La forte impressione che il 
lettore riceve è quella della visione del 
cinema come la forma d’arte che, più e 
meglio di altre, fagocita tutto lo scibile 
e le tecniche umane: dall’estetica alla 
semiologia, dalla storia dell’arte alla 
sociologia, dalla psicoanalisi alla scien¬ 
za, ecc. Aumont e Marie offrono uno 
strumento di conoscenza semantica ed 


etimologica dei termini afferenti al ci¬ 
nema per una più agevole comprensio¬ 
ne delle opere e delle considerazioni 
degli analisti, attraverso una selezione 
delle voci accurata ed una capacità di 
sintesi notevole. 

La tentazione di denominarla enciclo¬ 
pedia in miniatura è forte, ma gli stes¬ 
si autori diffidano il lettore da questa 
interpretazione allontanando tale so¬ 
spetto attraverso l’utilizzo di voci bre¬ 
vi. Un invito ad allargare ed approfon¬ 
dire le curiosità attraverso altre ricer¬ 
che, peraltro ampiamente suggerite. 
Provvisto di un indice semantico che 
raggruppa le voci ivi presenti in campi 
nozionali e disciplinari, posizionando¬ 
le in più gruppi, il dizionario cerca di 
non privilegiare una teoria a scapito di 
altre, anche se, naturalmente, alcune di 
esse hanno una rilevanza dovuta al se¬ 
gno che si sono lasciate dietro e godo¬ 
no del privilegio di uno sviluppo mag¬ 
giore e di una schematizzazione com- 
partimentata. Lo scandaglio della di¬ 
versificazione degli approcci teorici 
proposti in materia di cinematografia 
mostra per ogni concetto ognuno dei 
significati ad esso ascrivibili ed attesta¬ 
ti, e si correda di un corposo indice bi¬ 
bliografico finale. 

Nelle parole degli autori: “Questo di¬ 
zionario vuole testimoniare lo stato at¬ 
tuale degli studi cinematografici, della 
loro ricchezza, ma anche la loro storia 
già secolare. Vuole anche testimoniare 
il loro carattere internazionale” (p. 6). 
Testimonianza del “carattere interna¬ 
zionale [ occidentale ]” del cinema. 

Piera Braione 


Note 

1. Denis Diderot, Jean le Rond d’Alembert, En- 
cyclopédie ou Dictionnaire raisonné des Sciences , des 
arts et des métiers , par une société de gens de lettres, 
Paris, 1751-1772, introduzione al Tomo I, 
http://diderot.alembert.free.fr/. 


Free Foundation/Libero 

Luisa Arezzo, Gabriella Mecucci, Ci¬ 
nema, profondo rosso. Come la sinistra ha 
costruito Tegemonia sul cinema italiano, 
facendone una sprecopoli di celluloide, ca¬ 
pace dì produrre soltanto film flop, Edi¬ 
zione speciale per Free Foundation for 
research on European Economy/Libe- 
ro, 2007. 

Questo libro parte da una premessa: 
quantità e qualità si corrispondono, un 
film trova il suo senso esclusivamente 
dalla resa al botteghino. Punto. Segue 
supplica di 191 pagine per dire che i 
sinistrorsi cattivi mangiano i bambini 
del “denaro pubblico” attraverso il ci¬ 
nema, e la colpa è (quasi) tutta di Vel¬ 
troni con annessa apologia di cinema - 
e politica culturale tutta - del fascismo 
(tic!) e Giuliano Urbani, nonché An- 
dreotti dei bei tempi, quando da sotto- 
segretario contribuiva ad affossare il 
neorealismo “troppo avulso dal gusto 
popolare”, che però poi non ci si imba¬ 
razza di vituperare quando si attaccano 
le notti bianche e i festival, col solo 
scopo di colpire il sindaco di Roma. 
Mauro Gervasini ha salutato il libro 
quale “scossa” nel panorama sonnolen¬ 
to del cinema italiano alla quale si do¬ 
vrebbe rispondere nel merito, giacché i 
dati sono dati e non di sinistra o di de¬ 
stra (ma le interpretazioni dei dati, 
quelle sì, sono opinabili e nel libro di 
questo si tratta). Sarà anche miope “li¬ 
quidare le analisi di Cinema, profondo 
rosso come sommarie” 1 come ha fatto 
Marco Bellocchio ma sommarie lo so¬ 
no, dunque non si vede perché replica¬ 
re ad un pamphlet mascherato da testo 
scientifico come se fosse una cosa di¬ 
versa da un qualunque dibattito politi¬ 
co televisivo (con dati snocciolati da 
fonte unica quale premessa veritiera 
senza contraddittore in grado di ri¬ 
spondere sulle medesime fonti), co¬ 
munque, cerchiamo di essere respon¬ 
sabili e andiamo al merito. 

Anzitutto quantità non è “resa al bot¬ 
teghino”. Un film non si conclude nel¬ 
la sola visione di sala. I dati dell’indot¬ 
to e quelli della distribuzione alterna¬ 
tiva alla sala, nel testo, misteriosamen¬ 
te scompaiono, perché “non è possibile 
risalirvi” e comunque “si tratta di per¬ 
centuali irrisorie”. Due problemi, il 
primo: è una conclusione non dimo¬ 
strata e, se non è dimostrabile, darla 
per affermazione inoppugnabile è 
quantomeno sintomo di scorrettezza 
metodologica (ma è ovvio che qui il 
metodo è al servizio del merito: se 
conviene si è metodologicamente ri¬ 
gorosi, altrimenti...). Secondo: i nu¬ 
meri di quanti guardano un film e 
quanti pagano il biglietto non sono so¬ 
vrapponibili: come si misura il file sha¬ 


ring o il numero di persone davanti ad 
un televisore? A meno che il fatto che 
il film sia visto non interessi, ma solo il 
suo incasso, allora, seguendo questo 
criterio per il quale esclusivamente i 
film potenzialmente appetibili vanno 
finanziati, tanto vale dare i soldi pub¬ 
blici, tutti quanti, a De Laurentiis, o a 
nessuno: muoia Sansone con tutti i fi¬ 
listei. 

Le politiche di gestione della spesa 
pubblica della Comunità Europea 
hanno definito un concetto di “ecce¬ 
zione culturale” per il finanziamento 
alla cultura, essendo dimostrato come, 
in alcuni settori, quali il teatro di pro¬ 
sa o la lirica, il rientro effettivo dei fi¬ 
nanziamenti pubblici (ovvero non al 
netto dell’indotto) è pressoché impos¬ 
sibile. Il valore del film o dello spetta¬ 
colo teatrale è anche un valore imma¬ 
teriale e se ci scaldiamo altre volte per 
difendere valori immateriali quali l’i¬ 
dentità culturale, non si capisce perché 
nel caso della cinematografìa naziona¬ 
le non si debba fare lo stesso. Detto 
questo c’è un problema che pertiene 
all’intero sistema industriale italiano 
ossia l’accesso al mercato, il lobbismo e 
l’assenza di un efficace filtro antitrust: 
c’è un costante duopolio distributivo, 
da qualche tempo, Medusa/01 (Me- 
diaset/Rai) che ovviamente incide sul¬ 
la resa del film e agisce da vero e pro¬ 
prio filtro censorio. I film che escono 
in tre sale non possono incassare 
quanto quelli che escono in cento e il 
sistema industriale italiano non è certo 
in grado di garantire una concorrenza 
effettiva ad un film hollywodiano che 
ha un piano di produzione decine di 
volte più dispendioso di quello di un 
film italiano medio (più investimenti 
di denaro pubblico servirebbero, non 
meno), né tanto meno si può indicare 
il sistema adottato dal coraggioso 
esperimento di Vittorio Moroni come 
la soluzione, può funzionare una tan¬ 
tum non costantemente. Infine il Refe- 
rence System impedisce l’accesso ai fi¬ 
nanziamenti pubblici non solo agli 
esordienti, come segnala giustamente 
Gervasini, ma anche a registi afferma¬ 
ti che non hanno alle spalle un produt¬ 
tore noto, ma magari una cooperativa 
(si veda il caso disdicevole del manca¬ 
to finanziamento al film su Puccini di 
Paolo Benvenuti 2 ) che non per il solo 
fatto di essere tale' è di necessità meno 
solida (anzi...). 

Federico Giordano 

Note 

1. Mauro Gervasini, “Qualcosa di destra sul cine¬ 
ma italiano”, Film Tv, a. 15, n. 23, p. 35. 

2. Cfr. Angelo Pizzuto, “Il Caso Paolo Benvenu¬ 
ti: Puccini negato” e Paolo Benvenuti, “Lettera 
aperta al ministro Rutelli”, Cinemasessanta , n. 
288, Aprile/Giugno 2006, pp. 15-17. 





FAHRENHEIT 451 



Bulzoni - Isbn - Sironi 

Corrado Peperoni (a cura di), I Sim- 
pson. Il ventre onnivoro della tv postmo¬ 
derna, Roma, Bulzoni, 2007. 

William H. Irwin, Mark T. Conard, 
Aeon J. Skoble, I Simpson e la filosofia, 
Isbn Edizioni, Milano, 2006. 

Marco Malaspina, La scienza dei Sim¬ 
pson. Guida non autorizzata all’Uni- 
verso in una ciambella, Milano, Sironi, 
2007. 


Era inevitabile che gli studi sui Sim¬ 
pson proliferassero. Caso mai, stupisce 
il ritardo di questa fioritura letteraria, 
visto che ci avviciniamo ai venti anni 
di stagioni televisive e che il primo 
lungometraggio - a sua volta lunga¬ 
mente atteso - ha fatto storia. Co¬ 
munque sia, i tre libri qui analizzati 
mostrano origini differenti. Il primo, 
curato da Corrado Peperoni, presenta 
una ricca silloge di studi sulla serie più 
longeva d’America e lo fa con sguardo 
a metà tra la filmologia e lo studio cul¬ 
turale. Mettendo al lavoro saggisti fre¬ 
schi e non paludati, Peperoni riesce a 
comporre un affresco analitico a tutto 
tondo. Spiccano gli scritti su Simpson 
e horror ( Chi ha paura dell’uomo giallo'? 
di Silvia Moras), spoglio di citazioni e 
omaggi; il documentato saggio sulla 
traduzione italiana della serie animata 
(The Simpsons... Lost in Translation? di 
Federica Bologna); l’approfondimento 
sulla critica sociale veicolata dal pro¬ 
dotto {Una famiglia di consumatori ani¬ 
mati di Massimo Lori). Non mancano, 
tuttavia, altri articoli dedicati a ogni 
aspetto dell’universo simpsoniano, sia 
esso artistico, narrativo o simbolico. La 
diversa estrazione dei collaboratori e lo 
spirito aperto senza bisogno di giusti¬ 
ficazioni irrobustiscono l’originalità 
del volume, che peraltro fa ben sperare 
nella collana che lo ospita (“Grandi se¬ 
rie televisive americane”, diretta da 
Franco Monteleone e Vito Zagarrio, 
di cui questo libro è il primo numero). 
Assai diverso il discorso per ciò che ri¬ 
guarda il volume “filosofico”. In questo 
caso, si tratta di un testo collettaneo 
totalmente improntato all’analisi filo¬ 
sofica dei Simpson in quanto testi 
“portatori” di problemi del pensiero 
(come accaduto anche al Dr. House, di 
recente). E uno degli approcci più an¬ 
tichi alla questione, quello di utilizzare 
un prodotto popolare per cavarne ri¬ 
flessioni più ampie. Il problema, spes¬ 
so, è che si perde di vista l’oggetto: non 
è il testo ad essere sollecitato filosofi¬ 
camente, ma gli elementi filosofici che 
il testo sembra suggerire. Dopo di che, 
il testo scompare e si ricomincia a par¬ 
lare di ontologia ed ermeneutica. I fi¬ 


losofi (analitici) americani qui coin¬ 
volti sfiorano talvolta il rischio, ma il 
più delle volte dimostrano un certo at¬ 
taccamento all’oggetto che - evidente¬ 
mente - prendono piuttosto sul serio. 
Rimane in ogni caso il fascino di leg¬ 
gere un approfondimento sulla presen¬ 
za di Nietzsche negli atteggiamenti di 
Bart (o del gioco di parole tra Bart e 
Barthes) o individuare elementi 
marxiani nel processo relazionale tra i 
membri della comunità di Springfield. 
Infine, il volume più curioso. La scien¬ 
za dei Simpson è una vera e propria 
monografia scritta da un giornalista 
scientifico, che lavora per l’Istituto Na¬ 
zionale di Astrofisica. Fino ad ora, era¬ 
vamo abituati a testi di scienziati ap¬ 
passionati di Sciencefiction, o di sopran¬ 
naturale, pronti a commentare con cu¬ 
ra le ipotesi epistemologiche suggerite 
dal cinema di genere. Francamente, 
mai ci si sarebbe aspettati un lavoro di 
questo tipo sui Simpson. E invece ec¬ 
colo qui, un risultato ottimo e di buo¬ 
na scrittura, che fa anche invidiare la 
competenza umanistica esibita da uno 
studioso delle stelle. 

Nucleare, ecologia, salute, i temi af¬ 
frontati dal libro. Il tono è lieve, intel¬ 
ligente e intelligibile, il passaggio dagli 
episodi della serie ai problemi raziona¬ 
li (e ritorno) si dimostra continuo e 
credibile. 

Inoltre, contiene una tesi importante: 
I Simpson insegna che la scienza è 
ovunque, che plasma la vita quotidia¬ 
na e le relazioni sociali; ma mostra an¬ 
che che la scienza non è dogma, che 
va conosciuta e studiata con la libertà 
e quel pizzico di sfrontata creatività 
che si trova nella serie creata da Matt 
Groening. 

Roy Menarini 




19 


















Un sogno lungo un’eternità 

Un’altra giovinezza (Youth Without 
Youth , Francis Ford Coppola, 2007) 

Francis Ford Coppola aveva smesso da 
tempo di essere un regista: per dieci 
lunghi anni è stato oltre il cinema e ol¬ 
tre lo spettacolo, coltivando un’auto- 
rialità che si esprime più nei progetti 
lasciati in sospeso che nelle imprese 
effettivamente realizzate. Dirige la sua 
compagnia di distribuzione, l’Ameri- 
can Zoetrope, è proprietario del vigne¬ 
to Neibaum-Coppola nella valle di 
Napa, in California, e ha creato nel 
1997 la rivista letteraria Zoetrope - All 
Stories per scoprire e lanciare nuovi ta¬ 
lenti, per trovare storie inedite da pub¬ 
blicare e tradurre per lo schermo. L’e¬ 
norme successo ottenuto con le attività 
svolte fuori dal cinema (ristoranti e 
aziende vinicole) lo ha messo nella po¬ 
sizione privilegiata di poter scegliere di 
essere libero, di non fare i film che non 
ha voglia di fare, di impiegare dieci an¬ 
ni per sviluppare un progetto, di 
emanciparsi dai tempi forzati e dalle 
mode dell’industria hollywoodiana, di 
scegliere una strategia personale, di 
guadagnarsi in prima persona i budget 
per realizzare esattamente quello ha 
scritto, quello che vuole. 

Tra le interminabili digressioni su cibo 
e vino, tra la progettazione frenetica e 
l’organizzazione culturale, Coppola ha 
inserito Megalopolis: un film di finzio¬ 
ne particolarmente ambizioso che so¬ 
gnava da tempo e di cui soltanto di re¬ 
cente è riuscito a portare a termine la 
sceneggiatura. Al centro dell’opera ci 
sono i concetti filosofici di Tempo e 
Coscienza, calati in una grande metro¬ 
poli della modernità che assomiglia 
moltissimo a New York. E a questo 
punto della sua vita che Wendy Doni- 
ger, la più nota tra le allieve americane 
del filosofo e storico delle religioni 
Mircea Eliade, suggerisce al regista la 
lettura di Urialtra giovinezza, roman¬ 
zo fantastico dell’autore rumeno scrit¬ 
to nel 1976 e pubblicato da Gallimard 
nel 1980. La potenza del soggetto e il 
“miracolo inconoscibile” che colpisce il 
protagonista, spalancando lo spazio 
del suo inconscio, lo convincono a 
rompere un silenzio decennale e a “de¬ 
buttare” sullo schermo con un film che 
è insieme una cosciente messinscena 
del tempo e uno strumento di ricerca e 
scoperta dell’origine del linguaggio. 
Attraverso le pagine di Eliade, Coppo¬ 
la approda ad una sorta di maturazio¬ 
ne, ad una coscienza più meditata e 
dolorosa del tempo. Messa da parte l’e¬ 
sperienza accumulata, prova a re-in- 
ventare il suo cinema, creando una 
struggente epopea di amore, morte e 
rinascita, una riflessione sul tempo e 
sull’eternità, un saggio sulla natura del 


cinema e dell’illusione, che rinnova 
con sorprendente abilità le forme visi¬ 
ve e narrative. 

Urialtra giovinezza è la parabola esi¬ 
stenziale di Dominic Matei, un settan¬ 
tenne docente di glottologia ossessio¬ 
nato dal linguaggio e da Laura, amata 
in gioventù e morta di parto. Deciso a 
togliersi la vita con una dose letale di 
stricnina, viene colpito da un fulmine 
davanti alla stazione di Bucarest ma la 
scarica elettrica invece di ucciderlo in¬ 
nesca un prodigioso processo rigenera¬ 
tivo. Sopravvissuto alla Seconda Guer¬ 
ra Mondiale, alla bomba atomica e al¬ 
la Guerra Fredda, Matei vuole portare 
a termine il suo libro sull’importanza 
del linguaggio nell’attribuzione di sen¬ 
so al tempo. La proroga di vita e rin¬ 
contro con Veronica, incarnazione del¬ 
l’amata Laura, diventano la possibilità 
per raggiungere l’inarticolato momen¬ 
to del principio. Il romanzo di Eliade, 
fecondo di rimandi a figure e motivi 
letterari topici (Faust, Dorian Gray, 
Frankenstein), è una riflessione amara 
e ironica sulla frustrazione perenne 
dello scienziato di poter arrivare nel¬ 
l’arco di una sola vita a una verità tota¬ 
lizzante e definitiva. Si può leggere il 
libro come una storia faustiana: un uo¬ 
mo anziano, cancellata l’azione impie¬ 
tosa del tempo e riconquistata con la 
giovinezza la forza intatta delle sue 
passioni, ha l’opportunità di portare a 
termine la sua opera più ambiziosa e di 
amare di nuovo la stessa donna. A 
questo amore sacrificherà il raggiungi¬ 
mento di ogni certezza conoscitiva. 
Ma è piuttosto l’implicita contesa sul 
senso dell’esistenza dell’uomo nel 
mondo a impressionare e ad appassio¬ 
nare Coppola. Se i libri di Mircea 
Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Il sa¬ 
cro e il profano e Storia delle credenze e 
delle idee religiose, costituiscono una 
tappa fondamentale nell’ambito dello 
studio delle religioni primitive, Urial¬ 
tra giovinezza risponde invece alle 
tante teorie nobili derivanti dall’osses¬ 
sione, diffusa durante la cosiddetta 
“crisi della cultura” nell’Europa colta 
della prima metà del Novecento, per il 
recupero delle origini mitiche dell’u¬ 
manità e l’identificazione dell’istante 
magico in cui l’infanzia comune del¬ 
l’uomo protostorico si mutò in matu¬ 
rità cosciente e differenziata per stirpi 
e lingua. Formatosi culturalmente nel¬ 
la Romania del primo dopo guerra, fi¬ 
no al soggiorno in India (1928-1931) 
che impresse nei suoi interessi di ricer¬ 
ca una svolta fondamentale verso l’o¬ 
rientalistica e la storia delle religioni, 
Eliade mutuò dallo psichiatra svizzero 
Cari Gustav Jung il concetto di “ar¬ 
chetipi”: definiti dapprima come “im¬ 
magini universali” e successivamente 
come “modelli” di pensiero e quindi di 
comportamento, strutture invariabili 



CINEMA E LETTERATURA 


pre-formali, griglie universali colmabi¬ 
li di volta in volta con immagini diver¬ 
se relativamente al contesto storico¬ 
geografico, socio-culturale o anche 
semplicemente individuale. Eliade fa 
propria l’idea di sopravvivenze arcai¬ 
che nell’inconscio dell’uomo moderno, 
che porta in sé il paradosso di un’esi¬ 
stenza vissuta su due piani differenti, 
paralleli e fra loro incompatibili: da 
una parte, il livello storico, organizzato 
secondo uno schema di adeguamento 
ad una situazione alienante, e, dall’al¬ 
tra, il livello mitico, cioè la sua struttu¬ 
ra psichica profonda, organizzata se¬ 
condo uno schema simbolico. Come il 
cinema di Coppola così la letteratura 
di Eliade ci parlano di qualcosa di an¬ 
tico: “la nostalgia del paradiso”, un’Età 
dell’Oro, un Tempo del Sogno, un 
“tempo senza tempo” che precede la 
storia e che mantiene ancora intatta la 
propria perfezione. Un errore rituale o 
una colpa ha posto fine a questa con¬ 
dizione paradisiaca principiando la 
storia e il cosiddetto “tempo profano”, 
un deserto abbandonato dagli dèi e ca¬ 
ratterizzato dalla progressiva corruzio 1 
ne del mondo. Coppola, narratore ca¬ 
pace di condurci con sguardo pertur¬ 
bato nel Tempo perso e ritrovato e di 
raccontarci del destino e della meravi¬ 
glia, traduce il tempo e i sogni nel lin¬ 
guaggio del cinema. La sua giovinezza 
altra, un equilibrio perfetto tra scienza 
e magia luminosa, recupera l’incanto 
dello spettacolo delle origini fino a 
raggiungere il “protolinguaggio” del ci¬ 
nema: la camera oscura che rovescia 
l’immagine del mondo. 

Coppola scopre, rilancia e illumina la 
prosa di Eliade, sospesa tra scienza 
moderna e racconto fantastico, affer¬ 
mando un’idea di cinema puro, sottrat¬ 
to all’accidentalità temporale dell’effi¬ 
mero ed elevato a mezzo privilegiato 
di indagine sul senso della vita, sul de¬ 
stino umano, sull’ossessione della gio¬ 
vinezza, sul peso dell’esperienza. 
Urialtra giovinezza è un “trattato filo¬ 
sofico” per comprendere meglio il tem¬ 
po, la coscienza e l’aspetto fantastico 
della realtà. Per l’individuo non esiste 
una forma di lotta veramente efficace 
contro il tempo che scorre ineluttabile, 
secondo dopo secondo, anno dopo an¬ 
no, conducendoci alla morte. Eppure 
gli uomini hanno intrapreso questa 
lotta contro il tempo anzitutto con l’il¬ 
lusione. Il principio del piacere, che re¬ 
gna nel profondo dell’inconscio, igno¬ 
ra le esigenze temporali e il tempo me¬ 
desimo. Soltanto quando sogniamo i 
nostri desideri si realizzano vincendo 
ostacoli spaziali e temporali: stringia¬ 
mo l’amata tra le braccia, cavalchiamo 
il sole e le stelle, siamo eternamente 
giovani. Nella finzione favolistica, nei 
film, così come nei sogni notturni, il 
tempo non è irreversibile ed è possibi¬ 


le rimontarne il corso. Nella “veglia”, al 
contrario, pesantezza, durezza e impe¬ 
netrabilità della materia d si oppongo¬ 
no e ci impediscono. Coppola, recupe¬ 
rando l’attitudine mentale della giovi¬ 
nezza e desiderando sperimentare e ri¬ 
schiare, scatena il desiderio e la ten¬ 
denza incoercibile a sottrarsi alla 
realtà, rifugiandosi nella fantasticheria 
e nel più splendido di tutti i fantasmi: 
il cinema, che come l’immaginazione 
che lo produce, è situato fuori dallo 
spazio, fuori dal tempo. Uri altra giovi¬ 
nezza, insieme a Peggy Sue si è sposata 
(Peggy Sue Got Married, 1986) e al 
successivo Giardini di pietra ( Gardens 
ofStone, 1987), ha una tonalità elegia¬ 
ca: domina il ripiegamento sul passato, 
il ricordo, il rimpianto, l’elaborazione 
di un amore, di un lutto e dei propri 
sogni infranti, nell’ennesimo paralleli¬ 
smo che Coppola stabilisce tra le pro¬ 
prie vicende private, la propria avven¬ 
tura artistica e il destino stesso del ci¬ 
nema. L’universo che deriva da Urial¬ 
tra giovinezza non è tragico ma pateti¬ 
co, perchè le anime lasciate sole (quel¬ 
le del colonnello Kurtz, di Dracula e di 
Matei) vagano smarrite e nostalgiche, 
evocando “doppi” e visioni. Il patetico 
nel cinema di Coppola, come dice ma¬ 
gnificamente Renzo Trotta, “presup¬ 
pone l’esibizione dell’Anima Dolorosa 
e il rapporto di coabitazione col Regno 
dei Morti. Un rapporto che non parla 
di estraneità o di eroica scelta ma di 
frequentazione familiare.” 1 Come 
Kathleen Turner ritorna nella sua ado¬ 
lescenza conservando l’aspetto, il com¬ 
portamento e la sensibilità di un’adul¬ 
ta, così Dracula girerà per Londra “ve¬ 
stendo” la giovinezza del giovane prin¬ 
cipe e Dominic, fulminato, “indosserà” 
quella dello studente ambizioso. Si 
muovono e vivono in incognito nel 
Regno dei Morti, fra le cose che sono 
state e non sono più, fra le cose che 
potevano essere e non sono state. Ue- 
mozione di questi personaggi sta tutta 
nelle risonanze che quel mondo per¬ 
duto (e ritrovato) provoca in loro. 
Peggy, il conte Dracula e il professor 
Matei fanno l’amore coi loro fantasmi. 
Questo è Urialtra giovinezza', una rie¬ 
vocazione di fantasmi. Per questo è 
struggente. Come la terza rosa posata 
su una mano invecchiata. 

Marzia Gandolfì 


Note 

1. Renzo Trotta, Francis Ford Coppola , Recco, Le 
Mani, 1996, p. 9. 


r- 



Un 'altra giovinezza 


21 





















CINEMA E LETTERATUR 


22 


Ne touchezpas à la buche. Sul de¬ 
mone in Balzac e Rivette 

La Duchessa di Langeais {Ne touchez pas 
à la hache, Jacques Rivette, 2007) 

In filigrana e ad intermittenza, Rivette 
ha sempre attinto da quei classici let¬ 
terari francesi che stima secondo 
un’affine e sublime tendenza alla con¬ 
traffazione del reale, oltre i lumi della 
révolution , rasente le ombre dei ro¬ 
mantici, vicino alla crisi della moder¬ 
nità. Tuttavia, nelle ultime due decadi, 
accanto a suggestioni eterogenee, l’O¬ 
pera più frequentata sembra essere 
proprio quella di Balzac. Fedelissimo 
alla sua fonte, La Duchessa di Langeais 
costituisce il primo vero e proprio 
adattamento, dopo il leit-motif del 
quadro che intitola La bella scontrosa 
{La Belle noiseuse, 1991), in cui Rivette 
s’ispira Uberamente al romanzo Le 
Chef-d'oeuvre inconnu (1831), già insi¬ 
to nell’intrigo di Una recita a quattro 
{La Bande des quatre, 1988), sotto for¬ 
ma del racconto deUrante e mendace 
di un agente in cerca di una tela ruba¬ 
ta, La Belle noiseuse, appunto. Unica ef¬ 
frazione al testo, per ovvie ragioni di 
spazio e di tempo, Rivette deve qui 
scorciare i consueti cammei narrativi à 
la Balzac, sullo sfondo di una Restau¬ 
razione assai controversa (1818-23); in 
compenso, investe sul personaggio 
che, tramite il dialogo, spicca lavorato 
a sbalzo sulla trama effimera della re¬ 
cita amorosa, in perfetta simmetria 
con il romanzo. 

A lato degb innesti stiUstici (che pun¬ 
tano sul teatrale), un’altra discrasia ri¬ 
spetto alla fonte letteraria coincide con 
l’epilogo rivisitato. Rivette scegUe di 
chiudere con uno scambio di battute 
tra Ronquellores e Montriveau citato 
in esergo nell’opera di Balzac. E questo 
minimo dettagUo a tradire lo sguardo 
di Rivette, Bonitzer e Laurent, che ri¬ 
leggono il romanzo nel Novecento, al¬ 
la luce di un repertorio ben più ampio, 
in cui sembra miscelarsi particolar¬ 
mente Dostoevskij. Rispetto al Ubro, il 
lungometraggio si confronta con tutta 
una parabola di trasformazione del ro¬ 
manzo, nell’arco di oltre 150 anni di 
narrativa. In sintesi, il film viene dopo 
il rìse and fall del romance attraverso 
l’autocritica del roman naturaliste e del 
novel. Già a fine Settecento, il roman¬ 
zo era, infatti, ad un bivio: “L’uomo 
poteva cedere alla propria imperfezio¬ 
ne e asservirsi alla materia, o seguire la 
propria vocazione eroica e conformar¬ 
si all’ideale” 1 . Entro la fine dell’Otto¬ 
cento, se il romance sembra affetto da 
parahsi, fermo al racconto di thè truth 
of human heart, il novel (genere che 
pure germina dal primo) “zs presumed 
to aim at a very minute fideUty” 2 . 
Quell’unica forma letteraria del “ro¬ 


manzo” si spacca, e un suo ramo dal¬ 
l’immaginoso s’inabissa nel verosimile, 
superando la bnea d’ombra del Ro¬ 
manticismo, verso la nuova sponda del 
realismo e oltre, attraverso la tormen¬ 
tata introspezione di Dostoevskij. 

Nel finale del film, quando Ronquello¬ 
res propone di gettare a mare quella 
che era una donna e ora è solo un ca¬ 
davere, Montriveau consente com¬ 
mentando secondo la sua vena più ni- 
chibsta: “Oui, car ce n’est plus qu’un 
poème" 3 . Che cos’era lei per lui? Carne. 
Sesso. Un corpo vivo. Una pura sessua¬ 
lità di corpi che si urtano. Qui Mon¬ 
triveau, è sì bello e dannato, ma, diver¬ 
samente dal romanzo, possiede un at¬ 
tributo aggiunto che rinvia al titano di 
Achab in Moby Dick, è zavorrato da 
una gamba di legno, sorta di stigmate 
divina, e ha vissuto la condizione sel¬ 
vaggia del naufrago, in più non ha 
dubbi morali, e persegue esclusiva- 
mente un principio di piacere. Se Bal¬ 
zac miniaturizza, Rivette, viceversa, 
amplifica. Montriveau assurge così ad 
eroe negativo, in dissenso con Dio, la 
società e perfino se stesso. Sotto il saio 
dell’amata, l’amante scopre il corpo 
nudo e scarno, e lo profana. A questo 
punto, davvero nelle ultimissime bat¬ 
tute, si svela finalmente il demone di 
Montriveau. Non a caso, nell’edizione 
del 1839, il romanzo si apriva con una 
lunga epigrafe tratta dal Camino de 
perfección (1583), in cui Santa Teresa 
d’Àvila esalta il perfetto amore spiri¬ 
tuale che vorrebbe incorrotta l’anima 
dell’amato per non esserne separata 
nella vita eterna. L’anima di Montri¬ 
veau si svela infine corrotta. Di contro 
la duchessa, affetta dal male dell’idea¬ 
lismo, fugge per divenire la “soave Suor 
Thérèse”, e per sedare l’ennesima ten¬ 
tazione, si suicida. Da questo punto di 
vista (e cioè rispetto al personaggio, tas¬ 
sello decisivo per la morfologia del ro¬ 
manzo), Rivette deforma ciò che Bal¬ 
zac anticipa (e sopprime, come fa con 
l’epigrafe). Di fronte a Balzac si schiu¬ 
de la lunga epoca del novel realista, 
forma innovativa che congiunge di se¬ 
colo in secolo lo scrittore a Rivette. 
Ciò che piace a Rivette (come già fu 
per Anna Karina o Jean-Pierre Léaud) 
è la totalità del corpo, nel piano se¬ 
quenza, come già ne La religiosa {La 
Religieuse, 1966), dove peraltro il corpo 
nudo della Béart è dominio del pri¬ 
missimo piano del pittore Fautrier, cui 
interessa la carne, non il corpo: “è dav¬ 
vero la materia, i suoi ostaggi non so¬ 
no ritratti, ma carne, con un segno che 
indica: ostaggio” 4 . A Montriveau inte¬ 
ressa il corpo della Duchessa: “Quello 
lì, cara duchessa”, ammonisce il visdo- 
mino di Pamiers, “è cugino primo del¬ 
le aquile, non lo addomesticherete mai 
e vi porterà nel suo nido, se non state 
attenta” 5 . 


Inadatto ai salotti di Parigi, Montri¬ 
veau, alla stregua di un Napoleone, è in 
realtà la quintessenza della sua epoca. 
Non è proprio un eroe. È storpio, ha il 
passo pesante, e questa sua tara fisica 
lo segna nel carattere terribilmente 
schivo. In fondo, Montriveau è un vin¬ 
cente. In ciò incarna il personaggio li¬ 
mite della modernità, ossia colui che 
scardina le regole, non tanto per rifon¬ 
darle, quanto per negarle. Sotto questo 
aspetto, il giovane Depardieu si dimo¬ 
stra perfetto per la parte, assegnandovi 
uno spessore sarcastico e mortifero. 
Scampato ad un incidente che gli ha 
atrofizzato una gamba, e con trascorsi 
da tossicodipendente, Depardieu reca i 
segni tangibili della dissidenza del suo 
personaggio. Montriveau potrebbe 
sembrare un eroe romantico quando 
appare per la prima volta: figura sola e 
possente nella penombra della sua ca¬ 
mera, con il volto nascosto a tre quarti 
da una fronda di lunghi capelli, inve¬ 
stito da una catastrofe che lo ha con¬ 
sunto, con la gamba di legno che batte 
compulsivamente al suolo. “Nessuno è 
più noioso e più tetro di lui, cara, ma è 
di moda...” lo descrive una Duchessa 
ad Antoinette. Ma non è esattamente 
così. Montriveau appartiene, infatti, ad 
una specie superiore, nell’ambizioso 
disegno fisiologico che Balzac attinge 
e ricama dal repertorio di Gali e Lava- 
ter. Se Gali analizza il cranio da cui 
deriva i caratteri mentali e Lavater si 
allarga al fisico nel suo insieme, Balzac 
unisce i due, apportandovi del sopran¬ 
naturale. Emulando poi Rousseau, 
Leibniz e Spinoza, l’Autore dona a 
Montriveau il talento assai nichilista 
dello sguardo di fuoco del fluido vitale 
(che irretisce subito la svilita nobil- 
donna). Rispetto a Balzac, il Montri¬ 
veau di Rivette assimila inoltre i tratti 
di un altro individuo eccezionale e ma¬ 
ledetto: Stavrogin, fulcro del romanzo 
più disperato della maturità di Do¬ 
stoevskij. Personaggio cupo e violento, 
vero demone tra i Demoni {Besy, 


1871), Stavrogin incarna al massimo 
grado il tragico della sua epoca, affetta 
dal germe dell’ateismo dei figli, nel¬ 
l’indifferenza dei padri liberali. En¬ 
trambi i personaggi afferiscono a so¬ 
cietà segrete (luna di massoni - i fa¬ 
migerati e cospiratori Tredici, da cui il 
titolo del ciclo che racchiude il roman¬ 
zo —, l’altra di nichilisti incendiari nel¬ 
la Russia del Terrore), che rappresen¬ 
tano un’umanità di ossessi, disancorati 
da tutti i legami naturali (popolo, Dio, 
terra) e sull’orlo di un abisso in cui pre¬ 
cipitare per risorgere. Entrambi sono 
come malati di una totale indifferenza 
etica, che parifica il bene e il male, che 
li porta a storpiare la vita, per evitare la 
noia. 

[Stavrogin] si era nascosto in qual¬ 
che luogo. Si scoprì che viveva in 
una certa strana compagnia, che 
aveva stretto rapporti con certi ri¬ 
fiuti della società di Pietroburgo 
[...] Era un giovane molto bello, 
sui venticinque anni e, lo confesso, 
mi colpì. [...] Non era molto lo¬ 
quace, era elegante senza essere ri¬ 
cercato, straordinariamente mode¬ 
sto e nello stesso tempo ardito e si¬ 
curo di sé, come nessun altro. [...] 
sembrava un modello di bellezza, 
ma allo stesso tempo era ributtan¬ 
te. [.. .] Visse da noi circa sei mesi, 
fiacco, svogliato e piuttosto cupo; 
[...] Ma passarono alcuni mesi e la 
belva mostrò ad un tratto i suoi ar¬ 
tigli 6 . 

Balzac seziona la passione, Rivette 
unisce qui Balzac a Dostoevskij, Mon- 
triveau/Napoleone a Stavrogin/Baku- 
nin. Tramite questo suo fascinoso de¬ 
mone, Rivette sembra estrarre dal Bal¬ 
zac monarchico del 1832 il più tardo 
fourierista vicino al falansterio, imme- 
diatemente precedente ai nichifisti 
russi di Dostoevskij. Ma in più, come 
si confà alla forma disincantata del no¬ 
vel, i due hanno in comune una certa 



La Duchessa di Langeais 




















CfNEMA E LETTERATURA 


inclinazione perversa alla ribellione fi¬ 
ne a se stessa. E il male che ci attrae a 
loro. Ma nel primo, il male è freddo, 
razionalmente orientato, unito ad una 
costante malinconia che rasenta la tri¬ 
stezza. Similmente a Montriveau, che 
si prostra e poi si beffa, il demone russo 
ha la forza di umilarsi con castighi tre¬ 
mendi, nascosti di ironia (tipo il matri¬ 
monio che contrae, senza consumarlo, 
con la zoppa Mar’ja Timofeevna). 

Il Montriveau che Rivette plasma da 
Balzac è l’ultimo di una lunga serie di 
figure demoniache che scardinano lo 
schema del romance , per ancorarlo al 
novel, e cioè ad una lucida e devastan¬ 
te analisi del contemporaneo. Sotto 
quest’aspetto, il regista ha introiettato 
prima i geni del male di Balzac, poi lo 
Stavrogin di Dostoevskij. Con l’episo¬ 
dio del falso ratto, Montriveau s’inse¬ 
risce nel filone del romanzo gotico per 
demolirlo dall’interno. L’eroe sembra, 
infatti, degenerare nel villaim da ani¬ 
ma bella e innamorata si trasforma in 
demone. Ma, secondo quel verosimile 
psicologico che unisce il romantico al 
naturaliste, ironizzando sul gotico, Ri¬ 
vette, dietro a Balzac, sfacetta il demo¬ 
ne in ombre e luci. Montriveau è bello 
ma zoppo, circuisce e si ritrae, restaura 
la monarchia del Re Cristianissimo, 
ma poi assalta il Convento. Pur man¬ 
tenendo il conflitto individuo/mondo, 
si sfata l’idealismo romanzesco. Più 
raffinato di Vautrin, spaventoso e se¬ 
ducente eroe della Comédie humaine, 
fratello dei grandi malfattori del ro¬ 
manzo gotico, del mostro di Franke- 
stein, Montriveau glissa abilmente su 
diversi stereotipi del romance. In primo 
luogo, sebbene incline al male, non 
compie alcuna fornicazione o stupro, 
azioni che marcano, invece, il romance 
di fine Settecento, in quanto particola¬ 
ri transazioni tra classi. Certo, attua il 
rapimento della duchessa, ma non 
consuma l’efferato reato. Nel cuore 
della notte, la preleva dalla carrozza, la 
narcotizza, la lega e l’imprigiona nella 
sua misteriosa residenza. Qui allude al 
ratto, minacciando di marchiarla a 
fuoco sulla fronte con la croce dei ga¬ 
leotti e tal fine convoca il confratello 
chirurgo. Ma poi desiste, ottenendo 
l’effetto auspicato. E anche quando la 
duchessa cede e si offre, lui si nega e 
ricolloca la donna al ballo con tanto di 
porta segreta a soffietto (allusione ai 
castelli gotici della Radcliffe). 
Conforme al canone, Balzac non de¬ 
scrive l’adulterio, e non sconvolge la 
pruderie del suo pubblico borghese. 
Ma Rivette, scoprendo i corpi, svela 
quel gesto (quasi invisibile, giusto un 
sintagma in Balzac) di lei che odora e 
inumidisce il sigaro di lui, in segno di 
remissione. Tuttavia, l’adulterio non si 
compie, tanto meno si evoca. Nel ro¬ 
mance, invece, l’atto non solo si com¬ 


pie, ma spesso si scrive, “tradendo 
quanto diffusa e perturbante sia la no¬ 
stra ossessione per l’amore che infran¬ 
ge la legge. Non è questo il segno che 
vogliamo fuggire da un’orribile 
realtà?” 7 . In secondo luogo, come acca¬ 
de solitamente nel romanzo d’adulte¬ 
rio, Montriveau è uno straniero ospite 
in casa che trasgredisce le regole, sedu- 
cendo la moglie del duca assente. Ri- 
vette evidenzia questo tratto assai mo¬ 
derno, introducendo gli a parte con la 
servitù, cui pertiene quell’intimità do¬ 
mestica che il generale viola brutal¬ 
mente. Da quando rigetta le regole di 
quella società che lo vorrebbe incorpo¬ 
rare, lo straniero diventa nemico. 

In conclusione, Rivette costruisce il 
demone di Montriveau proprio intor¬ 
no a quella battuta che gli fa recitare e 
da cui trae il titolo della versione fran¬ 
cese Ne touchez pas à la hache'fi (la scu¬ 
re che troncò il capo a Carlo I nel 
1649). Non gettate la maschera: vi co¬ 
sterà la vita, sottende profeticamente 
Montriveau ad Antoinette. Così nel 
finale, la mannaia è quella che si au- 
toinfligge lei con il suicidio. Parafra¬ 
sando, a livello di impianto narrativo, 
questa stessa mannaia reciderà il ro¬ 
manzo dal poema, simboleggiato dal 
corpo morto, smunto e nudo della Du¬ 
chessa (non più monaca, palesemente 
scoperta nella finzione del suo roman¬ 
ce interiore). La strategia guerresca di 
lui ha funzionato mentre, necessaria¬ 
mente, il disegno romanzesco di lei si 
è dissipato. La recita deve finire, so¬ 
stiene Balzac; è tempo di spezzare i 
vincoli dell 'ancien regime (nel 1830 co¬ 
mincia il cosiddetto “regno dei ban¬ 
chieri”) e cambiare genere. Il romanzo 
non si chiude quindi con un consolan¬ 
te andfìnally she got married, alla Jane 
Austen. Tramite il demone di Montri¬ 
veau, interpretando l’innovazione di 
Balzac, la messinscena di Rivette de¬ 
molisce quei cliché letterari di quel ro¬ 
mance, che spesso alimenta altrettanti 
stereotipi nel film di finzione. 

Dunja Dogo 


Note 

1. Thomas Pavel, “Il romanzo alla ricerca di se 
stesso. Saggio di morfologia storica”, in Franco 
Moretti (a cura di), Il romanzo II. Le forme, Tori¬ 
no, Einaudi, 2002, p. 47. 

2. Nathaniel Hawthorne cit. in James D. Hart, 
The Oxford Companion to American Literature, 
New York, Oxford University Press, 1948, p. 571. 

3. Cit. dal film. 

4. Jacques Rivette in Jacques Rivetto. La regie du 
jeu , Torino, Museo Nazionale del Cinema di To¬ 
rino, s.d., p. 15. 

5. Honoré De Balzac, “La duchessa di Langeais”, 
in La Commedia Umana , voi. I, tomo II, Milano, 
Mondadori, 2001, p. 1383. 

6. Fedor M. Dostoevskij, I demoni (Besy ), voi. 1, 
Milano, Garzanti, 2000, pp. 45-46. 

7. Tony Tanner, L’adulterio nel romanzo: contratto e 
trasgressione , Genova, Manetti, 1990, p. 102. 

8. Ne touchez pas à la hache era il titolo originale 
del romanzo (1834). 



La Duchessa di Langeais 


23 














Escursioni nell’inconscio con il 
regista Jochen Kuhn 

All’ultima Biennale de l’image en 
mouvement di Ginevra, conosciuta 
nell’ambiente del cinema sperimentale 
come Bim (12-20 ottobre 2007), si so¬ 
no potute rivedere alcune opere del re¬ 
gista e pittore tedesco Jochen Kuhn, 
che attraverso il medium cinema attua 
una vera e propria sintesi di linguaggi 
artistici diversi: la pittura si muove, è 
accompagnata dalla musica e dal testo 
letterario. 

Da quando adolescente autodidatta ha 
iniziato a cimentarsi col super-8, Kuhn 
è rimasto fedele al cortometraggio, 
trovando nella sua brevità ed essenzia¬ 
lità la forma più congeniale per le sue 
storie inconfondibili. 

Alla manifestazione ginevrina il lavoro 
dell’artista tedesco deve aver destato 
un certo stupore perché elementi pe¬ 
culiari dei suoi film erano in contro¬ 
tendenza rispetto all’estetica e all’etica 
delle opere degli altri ospiti, che que¬ 
st’anno sono stati, tra gli altri, Robert 
Morin, Joan Jonas, Pedro Costa, Pier¬ 
re Huyghe, le produzioni belghe di¬ 
stribuite dallo studio Argos di Bruxel¬ 
les, molti adepti del cinema degli 
Straub-Huillet. Da ricordare anche il 
programma in memoria di Thierry 
Kuntzel. 

Laddove i must della Bim sono la ne¬ 
gazione della dimensione del racconto 
e il “risparmio” o il “calvinismo” delle 
immagini e delle intenzioni, Kuhn in¬ 
vece ha sviscerato i suoi personali sce¬ 
nari interiori (dipinti) densi di parti¬ 
colari e la sua voce narrante si è ad¬ 
dentrata in riflessioni sempre più filo¬ 
sofiche. 

Bassa, sensuale, monotona, roca, dolce, 
profonda, quasi che il regista avesse in¬ 
goiato il microfono in sede di registra¬ 
zione, la voce di Kuhn è stata fino al 
2005 1’appiglio per lo spettatore che 
avesse accettato di seguirlo nei sempre 
diversi viaggi agli inferi. 

Sono atmosfere suggestive quelle in 
cui ci portano queste avventure: strade 
deserte, austeri caseggiati, vari oggetti 
fuori posto come ingranaggi industria- 
fi dimenticati, resti di civiltà scompar¬ 
se, presenze conosciute ma non identi¬ 
ficate come nei sogni. I film di Kuhn 
hanno infatti sempre un qualcosa di 
onirico. Molti hanno parlato di Meta¬ 
fìsica o di Surrealismo, ma anche di 
Nuova Oggettività, naturalmente. 

La nostalgia è immediata in questi 
scenari e quasi lancinante, ma sempre 
“propulsiva” perché la storia prosegue 
senza dare il tempo ad una sofferenza 
compiaciuta di prendere piede. Ci so¬ 
no passaggi frenetici (e qui entra in 
gioco la particolarità della tecnica) nei 
quali l’artista distrugge con impietosi 


colpi di spugna delle composizioni 
pittoriche piene di dettagli alle quali 
era arrivato grazie ad un lento lavoro 
di precisione. Oppure, viceversa, da 
macchie, ritagli e semplici abbozzi la 
mano, “ripresa sul fatto”, per così dire, 
con pennellate sicure dà forma a figu¬ 
re umane e a complessi ambienti ar¬ 
chitettonici. 

Il mistero aumenta, le evoluzioni delle 
immagini riservano sorprese e spesso 
si ha la sensazione di addentrarci in 
territori privati. È il protagonista stes¬ 
so ad abbracciare la prospettiva del 
voyeur, oppure con uno stratagemma 
più sottile fa assumere a noi quel ruo¬ 
lo, dato che ci racconta di eventi per¬ 
sonali, ricordi, desideri. 

È straordinario notare come ci si pos¬ 
sa immergere emotivamente nelle 
sempre complesse situazioni di questi 
brevi viaggi interiori nonostante l’arti¬ 
sta si faccia cogliere - volontariamente - 
mentre aggiunge del colore o cambia 
una tela, decostruendo o smentendo 
cioè la finzione. 

Al di là della varietà di intrecci che la 
sua vasta produzione offre, si può sem¬ 
pre individuare in questi film il percor¬ 
so “d’apprendistato” di un personaggio 
solitario alle prese con certi temi ricor¬ 
renti. 

I primissimi film, che il regista è restio 
a mostrare ai festival perché li conside¬ 
ra ancora poco professionali, sono ac¬ 
comunati da una “scontrosità” intri¬ 
gante: non si lasciano leggere facil¬ 
mente e sono segnati da una cupezza 
esistenziale che tiene au piège i vari ar¬ 
chitetti, pittori, registi, scrittori, com¬ 
positori che ne animano le storie. Tut¬ 
ti infervorati in riflessioni teoriche un 
po’ astruse sull’essenza della creazione 
artistica, questi giovani uomini perdo¬ 
no il contatto con la realtà mettendosi 
fisicamente in pericolo: l’architetto in 
fuga dell’omonimo film del 73 si attar¬ 
da sul litorale mentre la marea risale; Il 
traslocatore (1977) vagabonda per set¬ 
timane alla ricerca estenuante di una 
casa che risponda a tutti i requisiti di 
comfort; del filmmaker di “tanti inizi” 
(Lauter Anfang, 1975) si perdono le 
tracce durante una corsa frenetica ma 
la macchina da presa riversa per terra 
continuerà a filmare immagini del 
mondo alla rovescia. 

I film degli anni Ottanta invece sono 
decisamente più scoppiettanti ed elet¬ 
trizzanti perché i loro antieroi sanno 
accendersi per uno stivaletto, una boc¬ 
ca di donna, un braccio guantato. L’e¬ 
lemento che più movimenta queste 
storie è l’eros, il desiderio del corpo 
femminile e anche se il rapporto amo¬ 
roso è solo fantasticato esso accende di 
rosso la scala di grigi dell’esistenza (i 
colori che Kuhn predilige sono nor¬ 
malmente il seppia, il grigio, le terre 
bruciate) rendendo più allettanti i de- 







CINEMA E ARTI VISIVE 


serti scenari urbani e domestici all’in¬ 
terno del quale si dibatte il protagoni¬ 
sta. Il contenuto dei suoi pensieri ora 
invade lo schermo come fuoriuscito da 
un balloorv. scritte rosso fuoco, inter¬ 
mittenti, che si espandono. 

La curiosità e l’entusiasmo dell’io nar¬ 
rante non si spengono di fronte all’en¬ 
nesima delusione, anzi questa è neces¬ 
saria affinché nelT’episodio” 1 successi¬ 
vo una nuova sfida lo aspetti. 

Difficile fare graduatorie tra i numero¬ 
si titoli della sua produzione in questa 
fase tutta spinta in avanti. Da ricorda¬ 
re una rivisitazione personale delle lo¬ 
calità balneari della costa adriatica: 
HotelAcapulco (1987); la vera biografìa 
di un uomo mai esistito, Robert Lan- 
gner, Biografie (1988), espediente per 
riflettere sul concetto di fama; un sag¬ 
gio appassionato sulla comunicazione 
che fallisce è invece Elogio della segre¬ 
teria telefonica (1989) dove al posto 
della donna tanto desiderata ci sono 
una cornetta rotta e una ghiera grossa 
come un ufo; in La via per il cantiere 
(1989) nel generale monocromo si sta¬ 
glia una marina in tonalità del blu che 
ricorda la produzione detta “classica” 
di Picasso. 

Stilisticamente in questi film regna la 
commistione di diverse textures di ma¬ 
teriali: singoli oggetti reali - tridimen¬ 
sionali - (un guanto, un telefono, una 
maniglia) creano sulla tela dipinta -bi- 
dimensionale - uno choc violento 
(Makubra il silenzioso , 1980, o Bildnìs 
M. , 1976, dove una persona in carne 
ed ossa entrava ed usciva dalla tela). 
Osservando la filmografia di Kuhn si 
nota, poi, che gradualmente gli ele¬ 
menti eterogenei della materia in uso 
dell’artista si amalgamano: in L’ultimo 
dell’anno (1992) una stoffa diventa la 
cornice del film; le riprese macro col¬ 
gono la trama e le pieghe di un len¬ 
zuolo restituendone la sensazione di 
morbidezza in tutta la sua intensità; 
poco più tardi, all’interno della storia 
dipinta, l’autore esplorerà tutte le asso¬ 
ciazioni sonno-morte. 

Ne La confessione (1990) gli oggetti si 
scatenano in direzione della satira an¬ 
che se il regista assicura che Erich Ho- 
necker e il papa Giovanni Paolo II, 
protagonisti del film, sono trattati sim¬ 
bolicamente. Ma come non ridere sco¬ 
prendo sul letto dell’ultimo presidente 
della DDR due Wurstel etichettati 
Marx e Lenin, oppure quando la ma¬ 
niglia della porta del paradiso si rom¬ 
pe e i due anziani sentono intonare al¬ 
l’organo VIntemazionaleì\ E ormai 
chiaro, insomma, che l’ironia è parte 
integrante della poetica kuhniana, ma 
essa non è da intendersi come critica 
rivolta all’esterno, agli altri, quanto co¬ 
me possibilità - per tutti - di distan¬ 
ziarsi dai problemi. Il regista, grande 
appassionato delle storie di Don Ca¬ 


millo e Peppone, nel suo film appena 
citato accomuna i due rappresentanti 
delle opposte fedi sotto il segno della 
debolezza fisica e spirituale: Woityla 
ed Honecker cessano di essere perso¬ 
nalità di spicco e incorrono in gajfes e 
lapsus così che tutti possono riflettersi 
in quelle esistenze e posarvi uno 
sguardo condiscendente. 

Naturalmente Kuhn ironizza anche 
sul suo proprio ruolo e sui temi che af¬ 
fliggono un artista. Per un regista, per 
esempio, è fondamentale trovare un 
produttore. In Lettera alla produttrice 
(1985) il destino di un cineasta è in¬ 
trecciato a quello dei superstiti di una 
catastrofe nucleare. Ma dato che il 
motto dei film di Kuhn sembra essere 
“non tutto ciò che sembra tragico è ve¬ 
ramente senza uscita”, anche se alla fi¬ 
ne del film il protagonista giunge alla 
constatazione che la sua sceneggiatura 
non rientra nei canoni del cinema di 
successo e quindi egli decide di non 
spedire la lettera, il tono non è disfat¬ 
tista: proprio questa scelta diventa una 
dichiarazione di etica di cineasta d’au¬ 
tore. Il giovane dal ciuffo ribelle e da¬ 
gli occhiali pasoliniani (interpretato 
dallo stesso regista trentenne) mormo¬ 
ra una parolaccia, raccoglie i suoi fogli 
e guarda avanti. 

Almeno per la biografìa di Kuhn que¬ 
sto atteggiamento risulta vincente: se 
si prova infatti a considerare la storia 
filmata come una sorta di documenta¬ 
zione sulla vera attività artistica del re¬ 
gista, che lavorava in solitudine nelle 
stanze che fanno da location al film (in 
quello che sappiamo essere il “pittore¬ 
sco” quartiere di San Pauli ad Ambur¬ 
go) a questa fase, fatta di difficoltà 
economiche e di mancanza di risonan¬ 
za, è poi seguito il riconoscimento uf¬ 
ficiale: un film per la televisione, la 
prestigiosa borsa a Villa Massimo a 
Roma, molti premi e nel 1991, anno 
della fondazione della Filmakademie 
di Ludwigsburg, la nomina a professo¬ 
re di Filmgestaltung. 

Le opere del decennio successivo di¬ 
mostrano una maturità raggiunta che 
non teme più le accuse di verosimi¬ 
glianza o di realismo; la raffinata iro¬ 
nia, la musica sempre più sensibile ai 
rumori e alle sonorità dissonanti fanno 
di questi ultimi film (che dal 1998 al 
2005 portano lo stesso titolo con nu¬ 
mero progressivo Neulich/L’altro giorno 
1-5) delle piccole parabole sulle lace¬ 
ranti contraddizioni dell’individuo: 
l’ambizione, l’indipendenza, la solitu¬ 
dine, la fedeltà... 

Se il regista lamenta la disattenzione 
del vasto pubblico è pur vero che egli 
non si cura affatto di accattivarselo.al¬ 
meno nella scelta dei temi: la tesi di 
Sonntag 1 (2006) è che non ci sia più 
nulla di interessante al mondo da no¬ 
tare; il film attualmente in lavorazione 


Exit tematizza lo svincolarsi di un in¬ 
dividuo dalle “griglie sociali” che lo 
hanno finora definito: il ceto, la lingua 
e la nazionalità di appartenenza, il la¬ 
voro, i contatti; il film successivo si 
svolgerà in cimiteri storici. 

Alla luce di questi orientamenti si può 
dire senza pudore che Kuhn è proprio 
come i suoi personaggi: sa quali siano 
le cose da “non fare” per essere integra¬ 
to eppure non si nega ciò che lo appas¬ 
siona. Il protagonista di N5 (2004) sa 
bene che andare al bordello “non è 
consono al buon gusto” ma ciò nono¬ 
stante vi si reca; in L'ultimo dell’anno 
afferma che la pittura dal vero è obso¬ 
leta eppure tutto è dipinto virtuoslsti¬ 
camente: corpi nudi, oggetti, decora¬ 
zioni complesse; neanche nei film mu¬ 
ti è concesso fare sentimento, dichiara¬ 
no le didascalie concettuali di Franz 
l’infernale (1986), in realtà il protago¬ 
nista del film morirà incompreso dalla 
donna che ama e la musica espressa- 
mente “kitsch-romantica” 2 ne accen¬ 
tua tutto il pathos; in N3 (2000) l’uo¬ 
mo alla fermata dell’autobus si dichia¬ 
ra annoiato dalla conversazione intima 
che si sta svolgendo lì a fianco ma in¬ 
tanto non ne perde un passaggio; e gli 
esempi potrebbero continuare... 

Kuhn ha imparato insomma ad elude¬ 
re i divieti (estetici) dell’ambiente arti- 
stico-cinematografico. 

Si può anche stabilire con precisione il 
termine ad quem che sancisce questa 
scaltrezza acquisita. È il 1980, con 
Makubra il silenzioso , suo primo Pre¬ 
mio Nazionale Tedesco Bundesfìlm- 
preis a 27 anni, il regista debuttante 
abbina due approcci apparentemente 
antitetici: il concettualismo e il senti¬ 
mento. L’uno va di moda nella scena 
artistica di quegli anni, l’altro “das 
kann man nicht mehr machen!”(non 
lo si può più fare). 

Studente di pittura alla Hochschule 
fur Bildende Kunste di Amburgo, 
Kuhn aveva anche tentato di adeguar¬ 
si a questi dogmi, ma la dimensione 


narrativa riemergeva sempre dalle sue 
tele filmate. In Makubra egli riesce a 
“raffreddare” il coinvolgimento nella 
storia (un dramma della gelosia e del¬ 
la vendetta) tramite una lunga rifles¬ 
sione concettuale sull’abitabilità degli 
spazi; la pittura illustra le vicende ma è 
anche gesto puro e la parola diventa 
segno grafico slegato dal contesto. 
Fondamentale per la riuscita di questo 
calibrato pastiche di generi e di lin¬ 
guaggi - che a distanza di molti anni è 
un evergreen del catalogo del regista - 
è la scelta meditata del vocabolario, il 
lavoro di labor limae sul testo, l’atten¬ 
zione alla qualità sonora della parola. 
Le capacità analitiche del regista sono 
molto apprezzate nell’ambiente acca¬ 
demico: non solo gli studenti del pri¬ 
mo anno di “costruzione del film” im¬ 
parano con Kuhn a discutere e a con¬ 
frontarsi intellettualmente sui progetti 
prima di passare alla loro realizzazio¬ 
ne, ma in alcune occasioni al regista è 
stato chiesto di calarsi nel ruolo di teo¬ 
rico e a questo proposito è da ricorda¬ 
re il brillante saggio sul cortometrag¬ 
gio commissionatogli dal Festival di 
Oberhausen per il cinquantenario del¬ 
l’evento 3 . I nonsense, i dialoghi sempre 
più concisi poi sono stati argomenti di 
studio di germanisti, psicoanalisti e di 
scuole di scrittura creativa. 

Vedere questi film nelle sale tedesche 
può riservare sorprese: scoppi di risa 
nelle scene più drammatiche quando 
sembrerebbe essere un certo sarcasmo 
a trionfare. Affinché una battuta ad ef¬ 
fetto funzioni anche in un’altra lingua 
occorrerebbero infatti, delle note per 
spiegare ciò che nelle singole parole 
che compongono un “incastro poetico” 
è un fatto di memoria comune, vissuto 
storico-politico, fenomeno di consumo 
di un paese, cultura, concezione del 
mondo insomma 4 . Ma secondo le mo¬ 
dalità di traduzione concesse al cinema 
- coi sottotitoli o col doppiaggio - 
questo non è possibile. Quando il regi¬ 
sta presenta i film all’estero di solito 



Die Beìchte 


25 








CINEMA E ARTI VISIVE 


26 


preferisce la modalità della voce over, 
che permette di seguire l’evolversi del¬ 
le immagini recependo anche il testo, 
ma in molti festival o nel DVD in 
commercio Neulich 1-5 S naturalmente 
ci sono i sottotitoli. 

Altri ambienti invece guardano l’opera 
di Kuhn da altri punti di vista e l’a¬ 
spetto linguistico e il senso della storia 
non sono più in primo piano. Ne è una 
dimostrazione la relativamente recente 
ma ormai assidua presenza del regista 
nelle gallerie d’arte e fiere d’arte con¬ 
temporanea 6 . In questi luoghi la mo¬ 
dalità di fruizione delle opere cambia: 
in una mostra o ad una biennale la vi¬ 
cinanza tra installazioni, quadri, video¬ 
proiezioni induce ad una certa frenesia 
ed è consuetudine vedere spettatori, 
ma sarebbe il caso di dire “visitatori”, 
entrare ed uscire a piacimento dalle sa¬ 
lette in cui vengono mostrate opere 
audiovisive. Generalmente i film sono 
proposti in un loop, così chi è interes¬ 
sato può comunque reiterare la visione 
prendendo coscienza delle meta¬ 
morfosi pittoriche che si susseguono, 
avvicinarsi allo schermo e ammirare 
un dettaglio. Però non vengono certo 
rispettati la durata né lo svolgimento 
che per quell’opera l’autore ha stabili¬ 
to. Lontano dall’essere una visione in 
comodità, concentrazione, raccogli¬ 
mento come nell’esperienza della sala 
cinematografica, questa è un’esperien¬ 
za della frammentarietà e sporadicità 
(anche, ben inteso, di un entusiasmo 
autentico a giudicare dai bei cataloghi 
che ne vengono fuori!). 

Al di là di tutto, comunque, la struttu¬ 
ra dei film di Kuhn, per quelle sue ca¬ 
ratteristiche fìsiche di lenta immersio¬ 
ne nel buio della caverna, itinerario 
guidato da un’ombra e da una voce, 
sessione psicoanalitica, ipnotica, esplo¬ 
razione di un sogno, sembra essere la 
stessa dell’esperienza cinematografica. 
Quindi la sede ideale per un approccio 
e un approfondimento dell’opera di 
Kuhn dovrebbe essere quella della co¬ 
munità degli studiosi e degli appassio¬ 
nati di cinema e sicuramente i tempi 
sono maturi anche per il pubblico ita¬ 
liano. 

Francesca Esposito 


Filmografia di jochen Kuhn 

La maledizione dell’architetto (Der Flu- 
ch des Architekten, 1973). 

Inizio a volume più alto {Lauter Anfang, 
1975). 

Ritratto di M. (Bildnis M., 1976). 

Il traslocatore (Der Umzieher, 1977). 
Sovrapittura sul lenzuolo (Bettbezug 
Ubermalungen, 1978). 

Makubra il silenzioso (Der Lautlose 
Makubra, 1980). 

L'uovo (Das Ei, 1981). 

Immagini al divano (Sofabild, 1982). 
Sempre più in là {Immer weiter, 1984). 
Lettera alla produttrice (Brief an die 
Produzentin, 1985). 

Prima della fine (Kurz vor Schluss, 
1986). 

Franz l’infernale (Der Hóllenfranz, 
1986). 

HotelAcapulco (1986). 

Robert Langner una biografia (Robert 
Langner, Biografie, 1988). 

La via per il cantiere {Der Weg zur Bau- 
stelle, 1989). 

Elogio della segreteria telefonica {Lob des 
Anrufbeantworters, 1989). 

La confessione {Die Beichte, 1990). 

Jo-jo (1992). 

L’ultimo dell’anno {Silvester, 1992). 
L’altro giorno 1 {Neulich 1, 1998). 
Discorsi {Fisimatenten, 1999). 

L’altro giorno 2 {Neulich 2, 2000). 
L’altro giorno 3 {Neulich 3, 2002). 
L'altro giorno 4 {Neulich 4, 2003). 
L'altro giorno 5 {Neulich 5, 2004). 
Domenica 1 {Sonntag 1 , 2005). 

Exit (in lavorazione). 


Note 

1 Benché il regista non abbia mai parlato di epi¬ 
sodi ma abbia invece differenziato i suoi film con 
titoli molto particolari, si potrebbe comunque ve¬ 
dere l’intera sua produzione cinematografica co¬ 
me un pellegrinaggio del suo alter-ego nelle “sta- 
zioni7situazioni della vita. 

2. Questa la definizione del suo creatore che per 
questo film compone alla maniera di Rachmani- 
nofif-Debussy sapendo che è un’operazione deci¬ 
samente anacronistica. Nei primi film in super-8, 
Kuhn citava senza modificarli brani di Mahler, 
Jànaèek, Wagner e Strawinskij. In seguito ha 
composto lui stesso la colonna sonora e recente¬ 
mente lo interessano rielaborazioni al computer 
di rumori registrati in situazioni disparate. 

3. Jochen Kuhn,“Die Karawane zieht weiter. No- 
tizen zu einer nicht gehaltenen Rede”, in Kurz 
und Klein. 50 Jahre Internationale Kurzfilmtage 
Oberhausen, Ostfildern-Ruit, Hatje Canz Verlag, 
2004. 

4. Nella battuta: “avere pudore è come spararsi ad¬ 
dosso”, per esempio, non si coglierebbe l’allusione 
alla storia della Germania divisa se non si sapesse 
che lo Schussanlage menzionato era un preciso 
strumento di controllo della frontiera usato dalla 
polizia della DDR. L’immagine è abbastanza 
grottesca perchè applicata ad una scena in cui il 
protagonista di N5 sta cercando dei validi argo¬ 
menti per neutralizzare il suo senso di pudore che 
gli impedirebbe di andare al bordello, dove invece 
egli vuole assolutamente andare. E infatti vi si re¬ 
ca ma il “controllo dei confini” si fa risentire e l’av¬ 
ventura è rovinata. 

5. Il DVD è distribuito dalla Filmgalerie 451 di 
Berlino: http://www.filmgalerie451.de. 

6. Sammlung Goetz (Monaco di Baviera), Galle¬ 
ria Peter Kilchmann (Zurigo), Art Forum (Berli¬ 
no), ZKM (Karlsruhe), Centre Saint Gervais 
pour l’Art Contemporain (Ginevra), Parasol Unit 
Foundation (Londra), Kunsthaus (Zurigo). 


André Kertész tra fotografìa e ci¬ 
nema: una prima ricognizione 

La recente mostra al Castello di Mon- 
talbano Elicona {André Kertész, 25 
giugno-19 settembre 2007) è un’occa¬ 
sione propizia per fare il punto su una 
figura di fotografo che, nella sua ope¬ 
ra, palesa manifeste tangenze con l’ar¬ 
te cinematografica, ma che solo in mi¬ 
sura ridotta sono state sottolineate: 
André Kertész. 

Una mostra è la combinazione di fat¬ 
tori che non afferiscono esclusivamen¬ 
te a quanto esposto: anche la presenta¬ 
zione delle stesse opere, che fa da “pa¬ 
ratesto”, ne determina la riuscita. Con¬ 
tenuto e contenitore si fondono nell’u¬ 
nità estetica che costituisce ciascun 
evento-mostra. I corpi dilatati delle 
Distorsioni di Kertész trovano sintesi 
con gli spazi dilatati del castello, nel lo¬ 
ro “vuoto” irregolare, sebbene frutto di 
una evoluzione naturale e non di una 
costruzione ad hoc. Le possenti mura 
medievali si “aprono” verso l’esterno 
proprio nei punti in cui le fotografie di 
Kertész sono affisse, creando spesso un 
corto-circuito per il quale l’effetto sot¬ 
tilmente perturbante di alcune foto¬ 
grafie si estende alla ponderosità delle 
architetture, apparentemente imper¬ 
meabili. Se ne ha la riprova anzitutto 
in Lastra di vetro rotto (1929), nella 
quale dal vetro crepato, il quale proiet¬ 
ta l’immagine della città come superfi¬ 
cie piana e racchiude in sé i limiti del¬ 
la fotografia, l’aria sembra penetrare 
perforando la parete, ma anche nella 
gigantografia del corpo che si “stira” 
della Danzatrice burlesca (1926), posta 
nel punto in cui lo spazio della sala si 
dilata, si “stira” appunto. In questo in¬ 
scrivere i bordi dell’immagine nei pro¬ 
cessi di significazione di una foto sta 
uno dei principali procedimenti sur¬ 
realisti 1 , principi ai quali Kertész, sen¬ 
za aderire al movimento nella sua 
Stimmung, comunque si richiama, fa¬ 
cendo deragliare la natura deviante che 
è già alla base del surrealismo verso to¬ 
nalità che gli sono più proprie - prive 
di “teatralizzazioni” 2 -, più vicine ad 
un “surrealismo naturalista” 3 . 

Dunque il ritegno scenografico, la sin¬ 
cerità spoglia, la sobrietà della luce e la 
semplicità possente delle architetture 
sono le stesse che animano lo sguardo 
del fotografo ungherese, il quale non 
ama attrarre con effetti “tecnici” pro¬ 
dotti appositamente, come sovente ca¬ 
pitava a surrealisti e costruttivisti ai 
quali pure è stato accostato. Egli vuole 
estrarre un senso “altro” dalle cose quo¬ 
tidiane. Sono esse stesse che virano 
morbidamente verso la surrealtà, per 
mezzo dell’occhio della Leica che le 
coglie in un momento di “grazia” diffi¬ 
cilmente ripetibile. 



Hotel Acapulco 






CINEMA E ARTI VISIVE 


Per Kertész, ungherese esule che non 
imparerà mai ad esprimersi in un flui¬ 
do francese o inglese, lo sguardo (foto¬ 
grafico) e la parola si corrispondono, 
dunque ai percorsi del visibile che gli 
saranno contemporanei o prossimi si 
rivolgerà sempre quali mezzi essenzia¬ 
li della costruzione della propria iden¬ 
tità e struttura comunicativa. Sarà, in¬ 
fatti, amico o frequentatore di un gran 
numero fra artisti visivi, cineasti, foto¬ 
grafi - Man Ray, Léger, Ejzenstejn, 
Capa, Cartier-Bresson, Moholy-Nagy 
fra i più noti - spesso ricostruendo, nei 
loro ritratti, l’essenza della loro poetica 
artistica mediante gli oggetti che sono 
sparsi negli atelier {Un angolo dell’ate¬ 
lier di Fernand Léger , 1927), o quelli di 
uso quotidiano {Gli occhiali e la pipa di 
Mondrian , 1926), come quando coglie 
la dimensione cosmopolita e meticcia 
di Ejzenstejn, sebbene sempre con¬ 
giunta alle radici orientali, ritraendolo, 
volitivo e pensoso in giacca e cravatta, 
accovacciato su un tappeto ungherese 
{Sergej M. Eisenstein, 1929). 

Sebbene Kertész sia fotografo “puro”, 
che non nutre nostalgie per le altre ar¬ 
ti, i paradigmi del visibile lo percorro¬ 
no ed è in grado di inoculare in quan¬ 
ti lo circondano delle stille del proprio 
stile. In questo senso può essere inqua¬ 
drata una ricerca delle prossimità col 
cinema, in particolare con quello di 
avanguardia degli anni Venti e Trenta 
- primariamente statunitense e euro¬ 
peo, Parigi e New York, luoghi dele¬ 
zione del fotografo ungherese -, col 
quale i rapporti sono più diretti (seb¬ 
bene la sola citazione certa ed esplicita 
di una foto dell’artista ungherese in un 
film del tempo è nell’opera seminale 
dell’avanguardia brasiliana Limite di 
Mario Peixoto, 1931). Senza alcuna 
pretesa di esaustività, o sistematicità, si 
possono individuare due fondamentali 
linee di tendenza nelle similitudini ci¬ 
nema-fotografia kertesiane, che sep¬ 
pure non provenienti da un’influenza 
immediata, risentono di un medesimo 
“clima” stilistico. La prima direttrice è 
quella che indaga gli ambienti. Dalle 
giovanili fotografie rurali ungheresi a 
quelle del periodo internazionale, che 
osservano gli interstizi delle metropo¬ 
li, la costante di fondo permane l’uma¬ 
nesimo: Kertész coglie l’“uomo” nel 
suo habitat naturale, spesso compreso 
nelle fatiche più gravi o in una condi¬ 
zione di emarginazione sociale, mai 
eroico, spesso sciolto nell’effusione 
sentimentale. La seconda riguarda la 
composizione dei corpi, la loro predi¬ 
sposizione ad astrarsi da sé stessi per 
mezzo di movimenti ginnici o atletici 
e torsioni e deformazioni. 

Nella prima classe si possono indicare 
come film kertesiani il gruppo delle 
“sinfonie metropolitane” e quelli dove 
il paesaggio rurale è osservato con un 


filtro della nostalgia e del “sentimento 
della terra”, retaggio “ungherese” della 
poetica kertesiana. Ma egli rigetta l’en¬ 
tusiasmo per lo spettacolo della vita 
moderna, rappresentato dalla “Fanta¬ 
smagoria della Città” 4 , che permea 
molti di questi film {Metropoli, Fritz 
Lang, 1927, Chelovek s kino-appara- 
tom, Dziga Vertov, 1929, o Berlin, die 
Symphonie einer Groàstadt, Walter 
Ruttmann, 1927), piuttosto rappre¬ 
senta una città non caotica né dram¬ 
matica 5 , “spazio dell’uomo”, aprirsi di 
micro-luoghi della collettività, conti¬ 
nuazione della realtà rurale in un con¬ 
testo urbano, dove se una “surrealtà” si 
manifesta lo fa attraverso l’accosta¬ 
mento di immagini “realistiche”, come 
in Entr'acte (Réné Clair, 1924) 6 , visi¬ 
vamente riconoscibili. Cosa c’ è di ker- 
tesiano in questi film? In Manahatta di 
Paul Strand e Charles Sheeler del 
1921 tutto è kertesiano: l’attracco al 
molo delle navi visto dall’alto (si veda 
la foto II porto di New York, 1938, ma 
sul soggetto Kertész ritornerà spesso), 
i fumi dei comignoli, le riprese dei 
grattacieli dall’alto e di quanto occorre 
fra le vie sottostanti. Il ricordo va al 
Kertész newyorkese 7 degli scatti dalla 
propria finestra, e su Washington 
Square in particolare, dove si coglie 
l’attenzione a intuire, nelle linee dei 
tetti e dei circuiti di chi sosta e si muo¬ 
ve sulle strade sottostanti, un percorso 
che si avvia verso l’astrattezza. E kerte¬ 
siana la sequenza iniziale, quella più 
eisensteiniana, e l’intera tonalità emo¬ 
tiva di Romance sentimentale (1930) di 
Ejzenstejn ed Aleksandrov, dove agli 
agenti atmosferici scatenati corrispon¬ 
de una struggente musica orientale, 
ma anche la fusione lirica di campagna 
e città di Brumes d’automne (1925-26) 
di Dimitri Kirsanov. Ma risonanze 
kertesiane si possono sorprendere nei 
palazzi colti, con uno scorcio molto ac¬ 
centuato, dal basso, e nel rapido modi¬ 
ficare e sovrapporsi delle architetture 
di Le Coquille et le clergyman (1927) di 
Germaine Dulac o nel sentimentali¬ 
smo e nella tonalità nostalgica di Au- 
tumn Fire (1930-31) di Herman G. 
Weiberg, storia di due “amanti”, “uo¬ 
mini comuni”, i quali si ritrovano in un 
paesaggio quotidiano che si risolve in 
una fuga distorta attraverso le loro 
percezioni: gli alberi, le gru, i cancelli 
che si frappongono ai corpi, i gratta¬ 
cieli visti da basso. E ancora Regens 
(1929) di Joris Ivens, dove gente co¬ 
mune si affretta, in spazi delimitati, 
per sfuggire la pioggia, e dove tutto è 
osservato attraverso riflessi o vetri ba¬ 
gnati, altra tematica kertesiana. Ma è 
anzitutto la gradazione malinconica 
alla quale la pioggia tutto sottopone e 
il suo riverbero che tendono a rendere 
la realtà sottilmente deragliarne, pic¬ 
cola “surrealtà”, che apparenta questo 



Distorsione n. 40 


film al fotografo ungherese, come d’al¬ 
tronde fa con H20 (1929) di Ralph 
Steiner, ancora più estremo nel movi¬ 
mento riflesso d’acqua/astrazione. 

A manovre di “aberrazione della visio¬ 
ne” determinate da condizioni “con¬ 
trollabili”, e non “ultraterrene” (gli 
specchi deformanti) rinviano le “di¬ 
storsioni” corporali, meccanismi della 
falsificazione e della “magia della cir¬ 
costanza” 8 , in questo, forse, davvero in¬ 
consciamente metabolizzati dal foto¬ 
grafo ungherese o trasmessi da questi 
ai cineasti, in un gioco di reciproche 
influenze. Una rapida carrellata: in La 
Retour àia raìson (Man Ray, 1923) i ri¬ 
flessi sulle ombre che spezzano il torso 
nudo; in Le Mysteres du chàteau du Dé 
(Man Ray, 1929) la trasformazione 
improvvisa di corpi in statue; gli sdop¬ 
piamenti e gli allungamenti “sadici” dei 
corpi atletici in Lot in Sodom (James 
Sibley Watson, Melville Webber, 
1933); il riflesso della tazza su cui si 
proietta l’ambiente circostante e la 
soggettiva degli organismi allungati e 
precari dopo che il protagonista subi¬ 
sce il colpo in testa in Uberfalls (1928) 
dell’ungherese Ernò Metzner; in Vor- 
mittagsspuk (Hans Richter, 1928) gli 
uomini che scompaiono “naturalmen¬ 
te” dietro il lampione e le singole parti 
del corpo che si librano indipendenti, 
come nei manichini kertesiani; la 
“frattura” delle membra attraverso la 
percezione dei corpi immersi nell’ac¬ 
qua, presente nelle foto ungheresi di 
Kertész come in Taris (1931) di Vigo; 
in L’Étoile de mer (Man Ray, 1928) la 
sfocatura che nasconde e sublima le fi¬ 
gure; gli specchi e prismi deformanti 
di Emak-Bakia (Man Ray, 1926) e il 
riflesso sulla palla dal movimento a 
pendolo in Ballet mécanique (Fernand 
Léger, 1924) coi corpi restituiti dal ri¬ 


verbero accresciuti e allargati con un 
effetto del quale le Distorsioni saranno 
vera e propria mimesi. 

Federico Giordano 


Note 

1. Rosalind Krauss, “Fotografia e surrealismo”, in 
Teoria e storia della fotografia, Milano, Bruno 
Mondadori, 2000, pp. 98-100. 

2. Jane Livingtone, “Il periodo americano (1936- 
1962). L’incomprensione reciproca”, in Pierre 
Borhan (a cura ài), André Kertész lo specchio di una 
vita, Milano, Federico Motta Editore, 1997, p. 
127. 

3. Ibidem , p. 128. 

4. Paolo Bertetto, "CHAQUE SOIR A MAGIC 
CITY , in Antonio Costa, Gian Piero Brunetta 
(a cura di), La città che sale. Cinema , avanguardie , 
immaginario urbano, Calliano, Manfrini, 1990, 
pp.42-43. 

5. P. Borhan, “Lo specchio di una vita”, in P. 
Borhan (a cura di), op. cit, p. 23. 

6. P. Bertetto, op. cit, pp. 44-45. 

7. P. Borhan, op. cit., p. 23. 

8. Dominique Baqué, Parigi, Kertész: le affinità 
elettive , in P. Borhan (a cura di), op. cit, p. 88. Cfr. 
per il simile meccanismo legeriano di controllo 
della visione spettatoriale, Standish Lzwder, Il ci¬ 
nema cubista, Genova, Costa & Nolan, 1984, p. 
95. 








































Prison Break fra ripetizione e tra¬ 
sformazione 


Come gran parte della serialità con¬ 
temporanea americana, caratterizzata 
dalla spiccata tendenza all’accumula¬ 
zione quantitativa delle fabulae e dal¬ 
l’elevata frammentazione e serializza¬ 
zione degli intrecci, anche la prima 
stagione di Prison Break , ideata da Paul 
Scheuring e composta da ventidue 
episodi trasmessi dalla Fox fra l’agosto 
2005 e il maggio 2006, si fonda sulla 
congiunta declinazione di due assi 
narrativi principali (il primo appunta¬ 
to sui fratelli Michael Scofìeld e Lin¬ 
coln Burrows, il secondo su Veronica 
Donovan e Nick Savrinn) e due se¬ 
condari (uno dedicato a LJ Burrows, 
figlio di Lincoln, l’altro alla Vice Pre¬ 
sidente Caroline Reynolds). 

Il primo asse, tutto giocato svSl'action 
carcerario, è incentrato sulle peripezie 
di Michael, Lincoln e degli altri abi¬ 
tanti del Fox River State Pènitentiary, 
adiuvanti (come Sucre o Westmore- 
land) 0 oppositori (come il capitano 
Bellick o Haywire) del progetto di 
evasione dei fratelli. Qui la narrazione 
si declina soprattutto sulla dimensione 
pragmatica 1 : gli attori sono “somatica¬ 
mente” significanti (il mafioso italoa- 
mericano John Abruzzi, lo stupratore 
omosessuale T-Bag, ecc.), le azioni 
producono trasformazioni fisicamente 
evidenti (come l’abbattimento di una 
parete), gli oggetti sono entità tesau- 
rizzabili o “di consumo” (come la vite 
di fissaggio numero di serie 
11121147). Su quest’asse, è la trasfor¬ 
mazione fisica della materia a rappre¬ 
sentare la principale attività (pragma¬ 
tica) dei soggetti. Qualunque fattore di 
carattere cognitivo 2 (cioè afferente al 
“sapere”) è di conseguenza diretta- 
mente correlato alla dimensione prag¬ 
matica. La circolazione delle informa¬ 
zioni all’interno del penitenziario, e la 
loro manipolazione ad opera di Mi¬ 
chael, non manifesta mai finalità prua- 
mente interrelazionali, ma svolge sem¬ 
pre un ruolo propedeutico al piano di 
evasione (si pensi al rapporto amicale 
di Michael con il direttore Henry Po¬ 
pe o a quello amoroso con la dottores¬ 
sa Tancredi). Al Fox River, anche la 
comunicazione è strumento di fuga. 
D’altro canto, uno degli elementi di 
maggior interesse della stagione sta 
nella logica scientifica con cui viene 
ideato il progetto di evasione: vero e 
proprio ingegnere levi-straussiano, 
Michael non entra al Fox River per 
“improvvisare” la liberazione del fra¬ 
tello (come avrebbe fatto il Jack Bauer 
di 24), ma “costruisce l’evento per 
mezzo di una struttura” 3 , subordinan¬ 
do la realizzazione del compito prefis¬ 
sato “al possesso di materie prime e ar¬ 


nesi, concepiti e procurati espressa- 
mente per la sua realizzazione” 4 , a par¬ 
tire dalla planimetria del penitenziario 
che si fa tatuare addosso, ma anche 
dallo studio accurato delle psicologie 
dei galeotti più in vista. A ben vedere, 
una delle angolazioni con cui può es¬ 
sere interpretato questo asse narrativo 
è quello della progressiva dissoluzione 
(a causa dell’imprevedibile irruzione 
del caso) della logica ingegneristica 
che sottende l’operato iniziale di Mi¬ 
chael, costretto nel corso della narra¬ 
zione a trasformarsi suo malgrado in 
bricoleur, adattando il suo progetto agli 
strumenti di cui dispone al momento 
(e non viceversa) 5 . 

Il secondo asse narrativo, correiabile 
all’alveo del legai thriller, è dedicato al¬ 
l’opera di detection posta in essere fra 
Chicago e Washington da Veronica 
Donovan (amica di infanzia di 
Michael e Lincoln e loro avvocato) e 
Nick Savrinn, che tentano di scoprire 
la verità sull’omicidio di Terence 
Steadman, per cui Lincoln è stato in¬ 
castrato, scontrandosi contro il muro 
della cospirazione politica imbastita 
dalla Vice Presidente Reynolds e dai 
suoi scherani (gli agenti dei Servizi 
Segreti Paul Kellerman e Danny Hale, 
poi affiancati da Quinn). All’opposto 
di quanto avviene sul versante carcer¬ 
ario, qui la dimensione pragmatica 
passa in secondo piano, ed è invece 
quella cognitiva ad essere preminente: 
per reperire il sapere necessario a scon¬ 
giurare l’esecuzione di Lincoln, Veron¬ 
ica e Nick intraprendono un percorso 
che li porta ad avventurarsi in universi 
cognitivi dall’incerto statuto veriditti- 
vo, in cui il confine fra verità e men¬ 
zogna è difficile da tracciare - come 
nel caso del video dell’uccisione di 
Steadman, che a primo acchito sembra 
inchiodare Lincoln, salvo poi essere ri¬ 
conosciuto come falso - e in cui è pro¬ 
nunciata la discrepanza fra l’essere e 
l’apparire (nel finale di stagione 
Veronica incontra uno Steadman vivo 
e vegeto in una villa a Blackfoot nel 
Montana). Su quest’asse, è dunque 
l’interpretazione del sapere a rappre¬ 
sentare la principale attività (cogniti¬ 
va) dei soggetti. Le azioni pragmatiche 
sono qui direttamente causate da 
quanto accade a livello cognitivo: non 
a caso, ogni scoperta di nuove infor¬ 
mazioni da parte di Veronica e Nick è 
pragmaticamente sanzionata dal¬ 
l’azione violenta dei Servizi Segreti (si 
pensi alla sparizione di Leticia, 
preziosa custode di scottanti infor¬ 
mazioni, all’attentato dinamitardo a 
casa di Veronica, al ferimento di Nick 
da parte di Quinn). 

Gli assi narratici secondari (relativi al¬ 
la “persecuzione” di LJ e alla scalata 
politica di Caroline Reynolds) si affi¬ 
ancano a quelli principali, a cui del 










illlilili 


resto sono strettamente intrecciati. Le 
peripezie vissute da LJ - che come il 
padre viene incastrato dai Servizi 
Segreti per un omicidio che non ha 
commesso, si dà alla fuga, per finire 
poi in carcere - sono il portato della 
strategia messa in atto dalla Vice 
Presidente Reynolds per bloccare il 
tentativo di Veronica di riaprire il 
processo di Lincoln, che non a caso 
riceve in carcere la visita di una “gior¬ 
nalista” che gli intima di mettere un 
freno all’avvocato, pena la vita di LJ. 
D’altro canto, è proprio l’inve¬ 
stigazione di Veronica a spingere la 
Reynolds ad affrettare i tempi del¬ 
l’esecuzione di Lincoln e a mettere 
sulla propria lista paga il governatore 
Tancredi, che infatti gli nega la grazia. 
La prima stagione di Prison Break col¬ 
pisce per la perizia con cui coniuga 
aspetti ripetitivi e aspetti trasformati¬ 
vi: i primi rendono conto delTomeo- 
stasi seriale”, vale a dire della capacità 
della serie, intesa come sistema te¬ 
stuale, di mantenere in stato di equili¬ 
brio, episodio dopo episodio, le pro¬ 
prie caratteristiche interne; i secondi, 
all’opposto, si riferiscono all’attitudine 
dei singoli episodi di incidere sulla co¬ 
stituzione “genetica” del sistema e di 
produrre perciò la sua evoluzione 6 . 
L’omeostasi seriale, basata sulla pre¬ 
senza di invarianti sistemiche, cioè di 
isotopie intertestuali 7 comuni all’inte¬ 
ro corpus episodico, fonda l’immedia¬ 
ta riconoscibilità della serie sia in ter¬ 
mini semiotici (come macrodiscorso 
recepito da un soggetto spettatore) 
che in termini commerciali (come 
brand acquistato da un soggetto com¬ 
pratore). La trasformazione, basata al 
contrario sulla presenza di varianti 
episodiche, relative al singolo episodio 
o a gruppi ristretti di episodi, gestisce 
l’innovazione della serie, concepita 
come un processo in dinamico svolgi¬ 
mento, secondo una scansione ritmica 
vertiginosa. Le varianti episodiche 
non sono espulse dal sistema seriale a 
fine puntata ma entrano a farne parte 
e si stratificano al suo interno (si pen¬ 
si al costante aumento dei partecipan¬ 
ti all’evasione), producendo così la 
perpetua rigenerazione del discorso 
dei singoli episodi e la continua ri¬ 
strutturazione degli orizzonti d’attesa 
spettatoriali. 

Le isotopie intertestuali vanno distin¬ 
te in tematico-narrative e figurative. 
Le prime si fanno carico di due fatto¬ 
ri: un investimento semantico astrat¬ 
to, riassumibile nel valore “libertà”, e 
una configurazione discorsiva profon¬ 
da, riassumibile nel tema “evasione”, 
che si declina nel corso della serie se¬ 
condo una varietà di percorsi figurati¬ 
vi (reperire la vite 11121147, svitare il 
lavandino della cella numero 40, sca¬ 
vare una buca nel locale delle guardie, 




ecc.), concatenati in schema discorsivo 
unico. Ogni episodio attualizza speci¬ 
fici programmi narrativi “d’uso” attra¬ 
verso percorsi figurativi afferenti alla 
stessa tematica. Ciò permette alla serie 
di coniugare la brève durata di uno 
schema episodico ricorsivo (in ogni 
puntata Michael ha un obiettivo speci¬ 
fico che deve raggiungere per fare 
avanzare il suo piano di evasione), alla 
lunga o lunghissima durata dell’arco 
narrativo globale (coincidente con il 
programma narrativo “di base”). Il che 
ha una conseguenza rilevante a livello 
delle tipologie di fruizione, in quanto è 
tendenzialmente soddisfatta sia la vi¬ 
sione occasionale e discontinua, che si 
appunta al programma narrativo d’uso 
del singolo episodio, sia la visione assi¬ 
dua e continua, che è interessata anche 
alla posizione occupata dall’episodio 
all’interno dell’edificio seriale. 

Le isotopie intertestuali figurative, in¬ 
vece, sottendono la struttura sintattica 
dei ventidue episodi della stagione, 
permettendo la loro iscrizione in un 
mondo possibile unico fondato sulle 
stesse coordinate spazio-temporali. 
NeEo specifico, esse gestiscono: 1) la 
localizzazione spaziale e temporale de¬ 
gli episodi, da cui deriva l’identità sin¬ 
tattica della stagione (Penitenziario di 
Fox River, Stati Uniti d’America, 
2005); 2) la programmazione spaziale 
e temporale che, sulla base delle loca¬ 
lizzazioni, organizza in insiemi conca¬ 
tenati e consecutivi sia gli spazi (per 
esempio, le diverse celle che compon¬ 
gono il Penitenziario), che i tempi (se¬ 
condo il conto alla rovescia impostato 
dalla data dell’esecuzione di Lincoln); 
3) la distribuzione attoriale, che stabi¬ 
lisce la presenza costante dei perso¬ 
naggi nell’universo rappresentato (Mi¬ 
chael, Lincoln, Sucre, ecc.). 

Le isotopie intertestuali non solo pro¬ 
ducono l’aggregazione dei ventidue 
episodi in un’entità testuale unica (la 
stagione, appunto) dotata di coerenza 
narrativa e autonomia discorsiva, ma 
permettono anche alla serie, in quanto 
prodotto culturale high concept, di 
“sciogliersi” nel circuito dello sfrutta¬ 
mento economico postindustriale 8 . In 
altri termini, le isotopie intertestuali 
rappresentano ciò che di seriale per¬ 
mane sia nel passaggio da un episodio 
all’altro che nel passaggio da un me¬ 
dium all’altro, e permettono dunque ai 
numerosi tie-ins della serie 9 di costi¬ 
tuire una rete discorsiva eteroclita ma 
organica e “integrata”. 

La prima stagione di Prison Break è un 
esempio emblematico di come la se¬ 
rialità televisiva americana, ristruttu¬ 
rando il proprio meccanismo di fun¬ 
zionamento, sia andata producendo 
negli ultimi due lustri una sorta di ce¬ 
sura “epistemica” nel panorama audio¬ 
visivo contemporaneo, lavorando at¬ 


torno a quello che Michel Foucault, ri¬ 
ferendosi alla letteratura “premoder¬ 
na”, definiva “E piacere di raccontare e 
di ascoltare, che era centrato sul rac¬ 
conto eroico o meraviglioso deEe ‘pro¬ 
ve’di bravura o di santità” 10 . Questo ri¬ 
lancio del piacere narrativo che la se¬ 
rialità più evoluta sta impostando, av¬ 
viene attraverso modalità narrative 
molto raffinate, capaci non solo di as¬ 
sociare ripetizione e trasformazione, 
circolarità e vettoriaEtà, ritorno del 
vecchio (e dunque fedeltà e famigha- 
rità) e irruzione del nuovo (e quindi 
sorpresa e suspense), ma anche di im¬ 
postare una sorta di fusione struttura¬ 
le fra queste dimensioni. Questa seria- 
Età sembra operare neE’alveo di un ap¬ 
parente paradosso Enguistico, dal mo¬ 
mento che non si accontenta di reite¬ 


rare, episodio dopo episodio, una ma¬ 
trice discorsiva preformata, da attua- 
Ezzare nel corso deEa serie con minimi 
sEttamenti figurativi, ma tende a fare 
deEa trasformazione narrativa E con¬ 
tenuto stesso deEa propria ripetizione. 
Ecco dunque che la serie non si pre¬ 
senta più come la sempEce sommato¬ 
ria di monadi testuaE chiuse in se stes¬ 
se, tenute assieme da un’intertestuaEtà 
“esteriore”, più pragmatica che seman¬ 
tica, ma come un dispositivo “auto- 
poietico”, motore di una indefinita 
moltipEcazione testuale, in cui ogni 
episodio riscrive e si inscrive neE’altro, 
tasseEo di un mosaico di mirabile 
complessità narrativa. 

Federico Zecca 


Prison Break 


Il cast dì Prison Break 


29 















TV FILES 


30 


Note 

1. Cfr. Algirdas J. Greimas, Joseph Courtés, Se¬ 
miotica. Dizionario ragionato della teoria del lin¬ 
guaggio, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 248. 

2. Ibidem , pp. 33-36. 

3. Claude Lévi-Strauss, Il pernierò selvaggio , Mila¬ 
no, il Saggiatore, 1964, p. 35. 

4. Ibidem , p. 30. 

5. Ivi. 


due minuti ciascuno, intitolato Prison Break: Proof 
oflnnocence. 

10. Michel Foucault, La volontà di sapere , Milano, 
Feltrinelli, 1978, p. 55. Cfr. anche, a proposito del 
“primato dell’eroe” nelle serie televisive contem¬ 
poranee, Roy Menarini, “Heroes for one day”, Se- 
gnocinema , n. 148, novembre-dicembre 2007, pp. 
8 - 10 . 


6. Cfr. Omar Calabrese, L’età neobarocca , Roma- 
Bari, Laterza, 1987, pp. 32-39. 

7. Cfr. Nicola Dusi, Lucio Spaziante, “Introdu¬ 
zione”, in Id., (a cura di), Remix-Remake. Pratiche 
di replicabilità , Roma, Meltemi, 2006. 

8. Cfr. P. David Marshall, “The New Intermedia- 
lity Commodity”, in Dan Harries (a cura di), The 
New Media Book, Londra, BFI, 2002. 

9. A seguito dell’immediato successo della prima 
stagione, il concept della serie è migrato in un 
videogame on-line, una rivista ufficiale, un ro¬ 
manzo, un’attrazione di Luna Park e uno spin-off 
mobisode (cioè realizzato per essere visionato con 
telofoni cellulari) composto da ventisei episodi di 


L’inanità dd linguaggio e la vi¬ 
sione impossibile 

Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare 
a Laforgue) (Carmelo Bene, 1974) 


“Solo l’indicibile si può dire”. Questo 
aforisma paradossale potrebbe prestar¬ 
si a sintetizzare il lascito dell’esperien¬ 
za creativa di Carmelo Bene. 

La contraddizione della frase è appa¬ 
rente: per “dire” bisogna “essere detti”, 
perché, se si cerca di dire, si finisce nel 
detto (l’autoreferenzialità della parola) 
e mai nel dire. Cioè il dire, il fatto lin¬ 
guistico, è qualcosa che l’uomo non è 
in grado di definire, dato che, se ten¬ 
tasse di farlo, cadrebbe nell 'impasse ir¬ 
risolvibile di dover descrivere la natura 
del linguaggio con il linguaggio stesso. 
Quando infatti si tenta di possederlo, 
ci si accorge di non riuscire a comuni¬ 
care quel che si intende, che è filtrato 
dalla mediazione della convenzione 
linguistica. Quindi l’uomo, prigioniero 
del linguaggio, può esprimere sola¬ 
mente l’evento del linguaggio, che è in 
sé indicibile, cioè inesplicabile e inco¬ 
municabile. 

Alla luce dell’inanità di ogni codice se¬ 
mantico la macchina attoriale beniana 
diviene espressione di un “anti-lin- 
guaggio”, che impedisce allo spettato¬ 
re ogni azione fatica; anzi lo costringe 
a non vedere e a non capire razional¬ 
mente. Qualsiasi sforzo interpretativo 
è reso vano dal ricorso alla tecnica del 
depistaggio, in primis sul piano testua¬ 
le e su quello narrativo: se nel labirin¬ 
to delTintertestualità non mancano ri¬ 
mandi a fonti inesistenti, citazioni fa¬ 
sulle e anacronismi, il dipanarsi del 
racconto è di continuo interrotto dal 
rifiuto dei personaggi di recitare il pro¬ 
prio ruolo. Il processo è finalizzato ad 
estirpare dall’osservatore l’abitudine 
alla ricerca perpetua di mappe cogniti¬ 
ve di riferimento. 

Di conseguenza, nelle opere televisive 
sono asservite allo scopo suddetto an¬ 
che le tecniche audiovisive, sfruttate 
per smantellare il linguaggio del video. 
Così, in Amleto di Carmelo Bene (da 
Shakespeare a Laforgue), Bene innanzi¬ 
tutto espunge l’elemento di mediazio¬ 
ne della percezione visiva, il grigio, e 
l’elemento di mediazione della sintassi 
cinematografìco-televisiva, il piano 
medio. 

Il film è infatti in un bianco e nero ati¬ 
pico, dai contrasti esasperati, che abo¬ 
liscono la profondità. I due colori, resi 
puri e saturi dalla totale mancanza del 
grigio, abbagliano lo sguardo fin dalle 
prime inquadrature, cosicché si è cata¬ 
pultati in un universo allucinato, che 
spoglia l’immagine di ogni elemento 
decorativo, proponendola nella rarefa¬ 
zione dell’essenzialità bicromatica. 



Prison Break 


Ad accentuare il disagio dell’osservato¬ 
re televisivo, serve poi la mancanza del 
piano medio, tipico elemento sintatti¬ 
co del linguaggio televisivo, a cui lo 
sguardo assuefatto dell’osservatore è 
abituato. Al suo posto piani lunghissi¬ 
mi si alternano per stacchi improvvisi 
ai primi piani dei volti dei personaggi. 
Per far questo il regista ricorre all’uso 
frequente dello zoom e in particolare 
del blow-up, la tecnica straniante del¬ 
l’ingrandimento a tutto schermo del 
dettaglio. 

Il fine di tale amplificazione visiva è di 
forzare lo spettatore ad una visione de¬ 
stabilizzante e di indurlo ad esperire 
come all’estremo avvicinamento del¬ 
l’oggetto non corrisponda affatto un 
miglioramento della visione e della co¬ 
noscenza della struttura dello stesso; al 
contrario l’oggetto si deforma e diven¬ 
ta irriconoscibile e non identificabile. 
Perciò anche l’esperienza puramente 
visiva insegna l’impossibilità della 
comprensione e la latitanza di una si¬ 
gnificazione finale e decisiva. 

Per intendere come ciò avvenga, è cru¬ 
ciale valutare altri aspetti tecnici che 
contribuiscono a scardinare il linguag¬ 
gio televisivo e i suoi cliché, costrin¬ 
gendo lo sguardo spettatoriale alla dit¬ 
tatura dell’occhio esplorativo e dis¬ 
umano della telecamera. 

Innanzi tutto il montaggio, paratattico 
e operante per stacchi netti, infrange 
puntualmente i codici convenzionali 
del découpage classico (la regola dello 
spazio a 180°, quella del raccordo sul¬ 
l’asse e la regola dei 30°), alterando la 
percezione dello spazio filmico. In più 
è frequente la rottura del punto di vi¬ 
sta, grazie all’utilizzo delle “soggettive 
senza soggetto”, false soggettive che 
traggono in inganno l’operazione di 
raccordo dello sguardo. 

Oggetto della progressiva distruzione 
della rappresentazione è perfino l’im¬ 
magine televisiva, che diviene il “non 
luogo” dell’irrappresentabile. I volti 
fluttuanti nel nero completo dello 
sfondo incidono fortemente sulla spa¬ 
zialità e la sua percezione: è una di¬ 
mensione irreale e spaesante, dove vige 
la mancanza di contorni e di qualsivo¬ 
glia unità scalare. I volumi sono ap¬ 
piattiti e la densità visiva dello sfondo 
monocromo satura lo spazio schermi- 
co, affogando nell’oscurità le figure. 
Capita anche che lo schermo nero 
venga eroso da “pennellate” di bianco: 
rimangono solo i corpi attoriali neri, 
circondati dall’invadenza del colore 
opposto, che minaccia la loro risibile 
visibilità. Essi titubano, si guardano 
intorno inquieti, per poi riprendere il 
loro incerto e svogliato frasario. Ma, 
sul finire delle scene, pennellate stavol¬ 
ta nere ricoprono e cancellano le figu¬ 
re, e con loro l’intero schermo, restitui¬ 
to al suo colore d’origine. 






TV FILES 


Le immagini del quadro televisivo so¬ 
no ormai talmente deteriorate, da ri¬ 
sultare non visibili: la telecamera offre 
la visione dell’inguardabile, autorifles¬ 
siva, di certo preclusa ad un occhio 
umano. 

A tal proposito è emblematica e rivela¬ 
trice la maschera tragica di Amleto- 
Bene: con lo sguardo perso nell’oblio, 
riflette nei suoi occhi lucidi l’assenza, 
che in lui si specchia e lo possiede, di¬ 
mentico di sé e della propria umanità. 
L’identificazione dello spettatore è 
quindi doppiamente vanificata: non 
solo a livello narrativo i personaggi 
inesorabilmente si ribellano riottosi al¬ 
l’idea di ricoprire una qualsiasi parte; 
ma a livello scopico è stata elisa ogni 
corrispondenza tra le immagini propo¬ 
ste sul video all’osservatore e le diege- 
tiche esperienze ottiche dei protagoni¬ 
sti. La camera fissa non è più interfac¬ 
cia statica tra mondo diegetico e spet¬ 
tatore, ma tramite le operazioni di 
composizione diventa occhio sperso¬ 
nalizzato, che non filma una realtà, 
non registra immagini preesistenti, ma 
dà l’impressione di crearle da sé. I sog¬ 
getti non sono protagonisti della visio¬ 
ne, ma vittime di un processo di ogget¬ 
tivazione completa, concettuale e visi¬ 
va. 

Il tema dello sguardo possiede un ruo¬ 
lo decisivo nella strutturazione del¬ 
l’immagine e pone la questione della 
valenza significante del materiale fil¬ 
mico. 

La presenza delle false soggettive, pri¬ 
ma citate, bandisce l’identificazione 
secondaria dello spettatore con i perso¬ 
naggi e le loro emozioni. Ne deriva che 
l’unica identificazione possibile è quel¬ 
la con la prospettiva della telecamera, 
ovvero con il punto di vista dell’istan¬ 
za a-personale di enunciazione. Si trat¬ 
ta di un punto di vista atipico, in quan¬ 
to multiplo, plurimo, che richiama il 
concetto del non luogo, l’altrove che 
secondo l’autore consustanzia la vera 
creazione artistica. Lo sguardo dei cor¬ 
pi attoriali, apparentemente vólto in 
camera, cerca qualcosa al di là dello 
spazio fìsico, un’originarietà mai stata. 
Allora, quando nel film le campiture di 
nero e di bianco sfaldano le forme e 
Fimmagine tout court, è come se il vuo¬ 
to, dopo aver costretto i corpi attoriali 
e le immagini che li contengono alla 
progressiva e inevitabile sparizione, 
espandesse la propria invisibilità spec¬ 
chiandosi nel teleschermo e invadesse 
gli occhi dello spettatore. 

Pertanto il vuoto è l’istanza di enun¬ 
ciazione che si palesa, come pretende 
l’intrinseca essenza del lavoro beniano 
sulle potenzialità comunicative dell’au¬ 
diovisivo: lo scopo è creare all’interno 
del film, tramite la de-costruzione, la 
condicio sine qua non per dar vita all’in¬ 
comunicabilità. Ne consegue che nel 


testo audiovisivo avviene un’inedita 
sovrapposizione tra il piano delle mar¬ 
che stilistiche ora rintracciate e il pia¬ 
no delle marche di enunciazione. 

Del resto il teorico Christian Metz pa¬ 
venta questa possibilità, quando so¬ 
stiene che il gioco delle marche enun¬ 
ciative si traduce talvolta in un tratto 
stilistico vero e proprio, alla stregua 
degli altri. 

Il problema del rapporto tra sguardo 
ed enunciazione emerge nella sua 
complessità e appare di non facile riso¬ 
luzione. Per esempio, la griglia inter¬ 
pretativa della “fecalizzazione”, con cui 
lo strutturalista Gérard Genette inda¬ 
ga i rapporti di sapere tra istanza nar¬ 
rante, personaggi e spettatore, è infi¬ 
ciata dal fatto che nel testo audiovisivo 
di Amleto non ce narrazione alcuna ed 
esiste solo il racconto nel suo indeci¬ 
frabile farsi. 

Piuttosto risulta d’aiuto lo studio sui 
punti di vista prospettico-cognitivi 
compiuto da Francesco Casetti, il qua¬ 
le identifica quattro modalità di sguar¬ 
do: foggettiva, l’interpellazione, la sog¬ 
gettiva e Foggettiva irreale. L’ultima è 
quella che sembra riguardare F Amleto. 
La struttura dell’oggettiva irreale in¬ 
fatti si riassume nella frase: “sono pro¬ 
prio io che guardo e proprio a te per¬ 
metto di vedere”, dove per “io” si in¬ 
tende l’enunciatore, l’istanza enuncia- 
trice del film, e con “tu” si indica l’e- 
nunciatario, ossia un’istanza assimila¬ 
bile ad una sorta di spettatore ideale 
che è sempre presupposto alla creazio¬ 
ne audiovisiva. 

Dalla proposizione si evince che gli 
occultati rapporti sotterranei tra enun¬ 
ciatore ed enunciatario in questa tipo¬ 
logia di sguardo vengono confessati ed 
esplicitati: “tu vedi, grazie a me”. Si de¬ 
termina qui una singolare correità tra 
le due istanze. 

Nell’opera televisiva di Bene l’istanza 
di enunciazione è, come detto, il vuo¬ 
to. Esso si specchia nell’immagine che 
ha prodotto, cancella i personaggi, 
esclusi in tal modo dal gioco enuncia- 
zionale, e rimbalza indecifrabile fuori 
dallo schermo, verso l’enunciatario. La 
frase che effigia Foggettiva irreale be- 
niana potrebbe suonare così: “sono 
proprio io che mi guardo e proprio te 
acceco con il mio riflesso”. E ancora: 
“tu non vedi che il nulla, a causa mia”. 
Casetti osserva inoltre che nelle ogget¬ 
tive irreali l’enunciatore può suggerire 
all’altra istanza la possibilità di un’in- 
terscambiabilità dei posti. In Amleto, in 
effetti, lo sguardo si svincola dalle li¬ 
mitazioni della visione classica, con¬ 
nessa ad un personaggio o alla narra¬ 
zione, e vive il brivido della visione so¬ 
vrana, onnipotente: lo sguardo però si 
perde e si fonde fino all’indiscernibi- 
lità con Fimmagine del vuoto sullo 
schermo. La marca autoriflessiva chia¬ 



: l' farjpe & -a KAwf t (a Ifo vjfa Cvfì fa 




Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare a Laforgue), collage di immagini 


ma allora lo spettatore ad una visione 
impossibile. È il tema dell’amplifica¬ 
zione scopica, precedentemente intro¬ 
dotto: quanto più ci si avvicina ad un 
oggetto e l’esperienza ottica si fa estre¬ 
ma, tanto più la cecità incombe. Ecco 
che la massima visibilità dell’immagi¬ 
ne coincide con il buio dello sguardo, 
con l’ottenebrarsi della vista. 

Si è realizzata la sovrapposizione teo¬ 
rizzata da Metz, per cui la marca 
enunciazionale e quella stilistica si 
compenetrano, e insieme fanno affio¬ 
rare la xpicnl; ( chrìsis ) del linguaggio 
comunicativo, sgretolato dai suoi bu¬ 
chi neri. 

Il video di Bene è dunque un clau- 
strofobico labirinto per la pratica di 
codifica logica che, come in una casa di 
specchi, si contempla nella propria au- 
toreferenzialità, senza mai trovare la 
via del significato, beffardamente ri¬ 
lanciato all’infinito dai continui slitta¬ 
menti di senso. 

La frantumazione del senso, come ci¬ 
fra essenziale del cinema beniano, è il 
frutto di una poetica che sottende a li¬ 
vello teoretico la filosofìa dell’assenza 
di Schopenhauer: se l’esistenza si è 
scoperta senza certezze e ogni investi¬ 
gazione di un fine ultimo che la tra¬ 
scenda si dimostra vana, la sola attività 
estetica plausibile è la traduzione arti¬ 
stica di tale condizione esistenziale. 

È possibile interpretare in questa chia¬ 


ve la conclusione dell’opera televisiva. 
Nello schermo, invaso da una campi¬ 
tura di bianco, compare l’armatura 
vuota di Fortebraccio, intenta ad auto- 
incoronarsi: è il simbolo della mancan¬ 
za, di un’assenza che, perentoria, atte¬ 
sta la sua presenza. In primo piano so¬ 
noro, un canto funebre del Tannhàuser 
di Wagner celebra la morte e l’auto- 
emarginazione della “forma” artistica, e 
insieme il trionfo di un vuoto cosmico, 
invisibile ma indelebile traccia di un 
“oltre” inconoscibile. 

Francesco Chillemi 


Francesco Casetti, Dentro lo sguardo. Il 
film e il suo spettatore, Milano, Bompia¬ 
ni, 2001 (5* ed.). 

Gérard Genette, Figure III. Discorso del 
racconto , Torino, Einaudi, 1976. 
Christian Metz, L'Enonciation imper- 
sonelle ou le site du film, Paris, Klinck- 
sieck, 1991. 

Cosetta G. Saba, Carmelo Bene, Mila¬ 
no, Il Castoro, 1999. 

Arthur Schopenhauer, Il mondo come 
volontà e rappresentazione, Milano, 
Mondadori, 1992. 






SOTTO ANALISI 


Il Museo postmoderno 

Introduzione. La querelle des postmo- 
dernes 

Non è possibile oggi utilizzare il ter¬ 
mine postmoderno senza provare un 
certo imbarazzo. Una sensazione di di¬ 
sagio, di incertezza, di sofferta incapa¬ 
cità nel maneggiare una parola che è 
passata, non indenne, attraverso una 
moltitudine di sfumature, applicazio¬ 
ni, estensioni a ogni campo disciplina- 
re e pratica del sapere, finendo quasi 
per spogliarsi di significato. 
L’espressione “postmoderno”, infatti, 
per sua natura etimologica, possiede 
uno statuto incerto, ondivago, oscillan¬ 
te, a partire dalla sua stessa definizione. 

“postmoderno” denuncia subito la 
natura sfuggente, ambigua e inde¬ 
finita del fenomeno a cui si riferi¬ 
sce. Il prefisso post suggerisce l’i¬ 
dea di un qualcosa che viene co¬ 
munque dopo qualcos’altro. Ma 
questo qualcos’altro è - come per 
una sorta di paradosso etimologico 
- proprio ciò che sta avvenendo 
ora, in questo istante: modernum, 
dall’avverbio latino modo (che si¬ 
gnifica “ora, in quest’attimo, at¬ 
tualmente”) 1 . 

L’ampiezza delle accezioni (storiche, 
sociali, filosofiche, letterarie, estetiche, 
e anche cinematografiche) in cui è sta¬ 
ta implicata la visione postmoderna 
come modo di intendere la contempo¬ 
raneità ha contribuito a sviscerare il 
concetto in ogni suo aspetto, ma lo ha 
anche esposto al rischio di fragilità e 
di scivolamento nella tautologia. Se la 
postmodernità, proprio per la sua es¬ 
senza connaturalmente contradditto¬ 
ria, proprio per questo suo essere “l’i¬ 
dentico che sfocia nel differente men¬ 
tre a sua volta dal differente riaffiora 
comunque l’identico” 2 , è riconducibile 
a una gamma potenzialmente infinita 
di tratti distintivi, c’è pericolo che si fi¬ 
nisca per sfuggire a ogni possibilità di 
riconoscimento, delimitazione e indi¬ 
viduazione scientifica del fenomeno. 
Perché, allora, continuare a usare una 
parola così scomoda? Intanto per l’in¬ 
capacità di trovare una valida alterna¬ 
tiva. Se il dibattito scientifico si è are¬ 
nato sul postmoderno, forse, è perché 
non è stato ancora possibile andare ol¬ 
tre. Gli altri termini proposti per defi¬ 
nire l’essenza della contemporaneità, 
sia in campo cinematografico sia filo¬ 
sofico, (“età neobarocca” 3 , “società tra¬ 
sparente” 4 , solo per citarne alcuni) non 
sembrano risolvere la questione. Al di 
là di mere diatribe nominalistiche, il 
problema fondamentale sta nell’inca¬ 
pacità di ritrarre con nitidezza il tem¬ 
po presente, forse anche perché lo 


stesso presente non è giunto ancora a 
una svolta tale da giustificare l’elimi¬ 
nazione di quel “post”. 

Ma se si continua a utilizzare quest’e¬ 
spressione, nonostante il relativismo 
definitorio, magari è perché il post¬ 
moderno non si è ancora svalutato del 
tutto di senso. A un livello meramen¬ 
te empirico, né esaustivo né sistemati¬ 
co, è possibile in ogni caso rintraccia¬ 
re nei testi, negli atteggiamenti e nel¬ 
le modalità di pensiero della contem¬ 
poraneità alcuni tratti distintivi tipici 
della nostra epoca. Si pensi ai fattori 
individuati da Gianni Canova sulla 
scorta delle riflessioni di Fredric Ja- 
meson: Ibridismo, Frammentarietà, 
Superficialità, Euforia, Omogeneizza¬ 
zione dello spazio, Presentifìcazione del 
tempo 5 . Ciò vale tanto per il cinema, 
quanto per le altre manifestazioni ar¬ 
tistiche e storico-sociali. A questi ele¬ 
menti è possibile aggiungere anche 
aspetti che di solito si associano al po¬ 
stmoderno cinematografico in manie¬ 
ra più superficiale nel dibattito gior¬ 
nalistico, ma che non è escluso possa¬ 
no essere oggetto di studi teorici com¬ 
plessi, come autoriflessività, interte¬ 
stualità, citazionismo, approccio ludi¬ 
co, regressione infantile, “cartoonizza- 
zione”, “cosizzazione”, e molti altri. 
Ripercorrere tutte le tappe che hanno 
segnato l’evoluzione e lo .sviluppo del 
discorso intorno alla postmodernità, 
sia in ambito generico sia in campo 
cinematografico, a partire dai teorici 
più autorevoli, da Jean-Fan 90 is Lyo¬ 
tard 6 a Fredric Jameson 7 , da Alberto 
Negri 8 a Gianni Canova 9 , da Laurent 
Jullier 10 a Vincenzo Buccheri 11 , è un 
compito che esula dalla portata fimi- 
tata di questo studio. 

Date le circostanze, l’unico approccio 
possibile non può che essere tangen¬ 
ziale. Ovvero, partire dalle particola¬ 
rità e dalle idiosincrasie di un singolo 
testo per cercare di dedurne e astrarne 
tratti caratterizzanti che possano 
esemplificare una realtà più vasta. 
Meglio ancora, poi, se il testo esami¬ 
nato è un’opera decisamente margina¬ 
le e senza manifeste pretese di rifles¬ 
sione teorica e intellettuale. Si potrà 
verificare, in questo caso, come certe 
istanze e certi atteggiamenti siano tal¬ 
mente presenti nell’atmosfera cultura¬ 
le contemporanea da circolare, magari 
in maniera inconsapevole e non medi¬ 
tata, anche nelle produzioni commer¬ 
ciali di più ampio e facile consumo. 

Il testo in questione è Una notte al 
museo (Night at thè Museum, Shawn 
Levy, 2006), uno dei blockbuster di più 
grande successo della stagione natali¬ 
zia americana 2006. E i tratti di post¬ 
modernità che è possibile rinvenire al 
suo interno sono soprattutto due: la 
dimensione metacinematografica e la 
componente antistorica. 


Sia chiaro sin da subito che, durante 
l’analisi, sarà messo da parte qualunque 
giudizio di valore estetico sull’oggetto 
esaminato, anche perché del tutto irri¬ 
levante ai fini della prospettiva scelta. 
Che il film di Shaw Levy sia poca co¬ 
sa, infatti, è faccenda parecchio sconta¬ 
ta, talmente autoevidente che non vale 
a nulla elencarne le mostruose defi¬ 
cienze e le trovate deficienti (princi¬ 
palmente tutte imputabili al regista 
Levy, totalmente privo di verve, creati¬ 
vità e gusto estetico, che l’anno prece¬ 
dente aveva già fatto scempio del mito 
della Pantera rosa). Neanche la bravura 
di Ben Stiller (attore oltremodo sotto¬ 
stimato) e dei suoi comprimari (su tut¬ 
ti Owen Wilson in una deliziosa “par- 
ticìna-ina-ina”) riesce a salvare una 
narrazione costituzionalmente fiacca, 
che non risparmia agli spettatori nep¬ 
pure 1 ’edutainment forzato e la sdolci- 
neria familiare più conservatrice. 

Ma tutto ciò è, almeno da un certo 
punto di vista, irrilevante. Serve solo a 
confermare come anche un prodotto 
che non possa dirsi certamente riusci¬ 
to, riesca a manifestare, a un livello 
sintomatico e vorrei dire quasi subco¬ 
sciente, una serie di tendenze del cine¬ 
ma, e soprattutto del blockbuster, con¬ 
temporaneo. 

Il Museo metacinematografico 12 

Vista l’apparente inconsistenza del 
film, non stupisce che Una notte al mu¬ 
seo non sia stato oggetto di nessuno 
studio di tipo critico. Anzi, a voler es¬ 
sere precisi, si dovrebbe più giusta¬ 
mente dire che l’ultima fatica di Levy 
è stata totalmente ignorata dalle riviste 
specializzate. La maggior parte delle 
testate non si sono nemmeno premu¬ 
rate di recensire il film. Le uniche ec¬ 
cezioni sono costituite da un breve tra¬ 
filetto intristito di Antoine Thirion 
nei Cahiers du Cinéma lì , dal pezzo sar¬ 
castico e pungente di Andrew 
Osmond su Sight & Sound 14 e da 
un’interessante riflessione sull’“appros- 
simazione e la genericità del sapere 
storiografico” di Alessandro Bertani 
per Cineforum 15 . 

Un discorso a parte merita la critica 
quotidianista, che ha coperto ampia¬ 
mente Una notte al museo, ma si è limi¬ 
tata prevalentemente a liquidarlo co¬ 
me un “filmetto ultra convenzionale, 
tutto ovvio e privo di una minima sor¬ 
presa” 16 , rivolto prevalentemente a un 
target di età scolare, e a lodarne al più 
l’intento didattico o i propositi di ri¬ 
conciliazione familiare. L’unico a ten¬ 
tare un’analisi più approfondita è stato 
Paolo Mereghetti 17 , che si è focalizza¬ 
to sul valore dell ’exemplum paterno co¬ 
me ossessione pedagogica della cultu¬ 
ra americana, connessa però sempre 
con la sfera del successo economico e 
professionale. 





SOTTO ANALISI 



Una notte al museo 


Comunque stiano le cose, stupisce che 
nessuno dei critici e dei recensori si sia 
soffermato sulla forte componente ri¬ 
flessiva che riecheggia per tutto il film 
di Shawn Levy. È fuor di dubbio, in¬ 
fatti, che Una notte al museo sia (anche) 
una gigantesca e baracconesca metafo¬ 
ra metacinematografìca 18 . 

Ogni attrazione del museo appare co¬ 
me uno specifico archetipo dei generi 
spettacolari della Hollywood classica 
(a partire, appunto, dai cosiddetti spec- 
taculars degli anni Cinquanta), che 
prendono vita durante la notte (ovvero 
quando “cala il buio in sala”). 
L’immagine che inaugura il film è em¬ 
blematica: la facciata del museo di sto¬ 
ria naturale è inquadrata in maniera 
prospettica e scintilla proprio come i 
loghi storici delle major , in particolare 
quello della Twenty Century Fox che 
gli spettatori hanno avuto modo di ve¬ 
dere appena qualche secondo prima. Si 
tratta di un vero e proprio titolo diege- 
tico di secondo grado: serve ad annun¬ 
ciare al pubblico che “il film nel film” 
sta per cominciare. 

Le portentose virtù magiche del mu¬ 
seo fanno letteralmente “resuscitare” 
vecchi filoni cinematografici, alcuni 
ormai abbandonati o in declino: we¬ 
stern (il diorama dei cowboy), kolossal 
e peplum (le miniature dell’esercito ro¬ 
mano), affresco storico (Cristoforo 
Colombo e Gengis Khan) e storico¬ 
patriottico (Teddy Roosvelt e Sa- 
cajawea), horror classico (la mummia), 
esotico (la giungla africana con leoni e 
scimmietta, la testa dell’isola di Pa¬ 
squa) 19 e big monster movie (il mam¬ 
mut e lo scheletro di T-Rex, che è na¬ 
turalmente anche un omaggio diretto 
al primo blockbuster dell’era digitale: 
Jurassic Park , Steven Spielberg, 
1993) 20 . 

Il fatto, poi, che due generi “spaziosi” e 
grandiosi come western e kolossal, al¬ 
l’epoca del Cinemascope i più apprez¬ 
zati e diffusi, siano adesso rimpiccioli¬ 
ti e ridotti all’impotenza è senz’altro 
un’intuizione brillante (anche se i due 
“soldatini” dimostreranno nel corso del 
film di essere particolarmente resisten¬ 
ti e alla-fine esclameranno: “Non ci si 
libera di noi tanto facilmente!”). 

Come se non bastasse, a svolgere una 
funzione quasi testamentaria, figurano 
perfino vere e proprie “testimonianze 
viventi” di quell’epoca, quali il terzetto 
d’attori composto da Dick Van Dyke 
(“invecchiare non è divertente”, di¬ 
chiara inequivocabilmente), Bill 
Cobbs, e Yhighlander Mickey Rooney 
(classe 1920). 

Ecco che forse anche il fastidioso mes¬ 
saggio educativo, il “più si sa del passa¬ 
to, più si sa del futuro”, acquista una 
connotazione di stampo autoriflessivo. 
La Hollywood di oggi, per uscire dalla 
crisi identitaria e creativa che la perse¬ 


guita, dovrebbe volgersi ai fasti del 
passato, tentando di rinnovarli e “rivi¬ 
vificarli”. 

Ma, a ben guardare, i personaggi che 
popolano il film rimangono costitu¬ 
zionalmente manichini, spettri del 
passato, “mummie da museo” appunto, 
che bisticciano tra loro per tutto il 
tempo e non sanno organizzare le pro¬ 
prie azioni in maniera coerente. Sono 
solo suggestioni senza vita, ormai in¬ 
capaci di emozionare lo smaliziato 
spettatore contemporaneo: il museo di 
storia naturale, infatti, è sull’orlo del 
fallimento perché le nuove generazio¬ 
ni preferiscono la PlayStation agli ani¬ 
mali imbalsamati e alle statue di cera. 
Quando, di notte, questi fantasmi di 
celluloide tornano in vita lo fanno nel¬ 
l’unico modo che è ancora possibile, 
quello del blockbuster dell’era postmo¬ 
derna. Tutte le attrazioni si confondo¬ 
no e si mescolano in un magma anar¬ 
chico che disintegra le distanze spa¬ 
zio-temporali e rende semplicemente 
priva di senso la nozione di coerenza. 

I visitatori del museo, infatti, sono 
contenti solo così: ritornano a far le fi¬ 
le alle casse soltanto dopo aver visto gli 
uomini primitivi uscire per strada e 
aver scorto sull’asfalto innevato le im¬ 
pronte del Tyrannosaurus Rex (esatta¬ 
mente come nel film di Spielberg). 

II museo by night di Levy diventa, in¬ 
somma, uno strano microcosmo in cui 
si riassumono e si sincretizzano tutti i 
caratteri dell’attuale high-concept mo¬ 
vie 21 : implosione e mescolamento dei 
generi, cinema delle attrazioni deriva¬ 
to dai parchi di divertimento o da luo¬ 
ghi affini, emulazione della narratività 
videoludica. 

Ed è così che la riflessività di Una not¬ 
te al museo non si limita soltanto al 
contesto cinematografico, ma si esten¬ 
de per un raggio mediale ben più am¬ 
pio 22 , che ingloba anche nuove tecno¬ 
logie comunicative come Internet, la 
realtà virtuale e i videogame. Dimostra¬ 
zione di come la Settima arte flirti 
sempre di più con le nuove modalità 
espressive del digitale, non solo come 
risorsa tecnica da investire nel campo 
degli effetti speciali, ma come linguag¬ 
gio da emulare e da cui trarre ispira¬ 
zione stilistica e formale. 

Il personaggio interpretato da Ben 
S filler, in fondo, non è altri che un 
player, termine volutamente plurise- 
mantico, che si trova catapultato den¬ 
tro un videogioco. Siccome perde le 
istruzioni che gli consentirebbero di 
vincere la partita, si documenta sul 
web per trovare soluzioni alternative 
agli enigmi da risolvere: quasi sempre 
indovinelli elementari, del tipo “dai 
l’osso al dinosauro”, che rimandano al¬ 
le avventure grafiche fino a qualche 
tempo fa molto in voga. 


Il film si conclude con un’immagine 
fiduciosa e ottimista: il pubblico ades¬ 
so va al museo di storia naturale e si 
diverte. Ma siamo sicuri che questo 
stato di cose durerà a lungo? In fin dei 
conti si tratta pur sempre di manichini 
e cadaveri imbalsamati riesumati con 
la forza. Hollywood dovrebbe impara¬ 
re a costruirsi nuovi miti (magari co¬ 
piando dai nevi mediò) anziché imbel¬ 
lettare vecchi zombie. 

Una notte al museo è in fondo 
l’ennesimo film sugli zombi, altri 
morti viventi (questa volta d’epo¬ 
ca) che risorgono ed affollano uno 
spazio apparentemente senza via 
d’uscita. Il museo diventa una 
trappola dove i non-morti ripeto¬ 
no all’infinito i propri ruoli più o 
meno strategici nella storia, come 
marionette o personaggi pirandel¬ 
liani che si agitano convulsamente, 
che reiterano il proprio cliché. [...] 
Anche gli zombie di Romero, pe¬ 
raltro, mimano se stessi da vivi: in¬ 
scenano la caricatura dei propri 
ruoli sociali in vita. Perdono l’u¬ 
manità ma non perdono l’impiego, 
si direbbe. 23 

Oltre Joker 

La sequenza filmica che propongo 
ci mostra il delirante volto di Joker 
durante una sua incursione nello 
spazio della tradizione artistica e 
dell’esperienza educativa, i luoghi 
in cui gli artefatti umani si fanno 
monumento e la loro catalogazio¬ 
ne ed esposizione si fa memoria e 
trasmissione del sapere: il museo. 

Il grande cinema [...] enumera 
una lunga gamma di emblemati¬ 
che situazioni in cui i “demoni” 
della cultura di massa invadono e 
sconvolgono la razionalità sociale 
[...]. In molti film dunque gli spa¬ 


zi tradizionali del sapere (teatri, 
biblioteche, scuole, ecc.) vengono 
sconvolte da Fantasmi, Mostri, 
Bestie, Assassini. 

Comincia così il saggio di Alberto 
Abruzzese “Sfigurare il moderno; 
Joker visita il museo”, che fa da apertu¬ 
ra al volume L'occhio di JakeP^. Il socio¬ 
logo delle comunicazioni di massa si 
riferisce a una delle scene più suggesti¬ 
ve di Batman (Tim Burton, 1989), 
quella in cui Joker “nel pieno della sua 
incontenibile creatività assassina, si di¬ 
verte a ‘vandalizzare’ le opere d’arte del 
museo, sculture infrante, quadri im¬ 
brattati, capolavori deturpati” 25 . Una 
scena davvero emblematica, che figu- 
rativizza con perfezione icastica la 
messa a soqquadro del senso dell’Or¬ 
dine, della Storia, del Sapere raziona¬ 
lizzato da parte delle entità carnascia¬ 
lesche postmoderne. 

In effetti, basta eseguire una rapida ri¬ 
cerca sul sito Intenet Movie Databa¬ 
se 26 per accorgersi di come una larga 
fetta degli ultimi blockbuster hi-tech 
preveda almeno una scena ambientata 
al museo. Solo per citare alcuni titoli a 
partire dai più recenti: TMNT, il nuo¬ 
vo film sulle Tartarughe Ninja (Kevin 
Munroe, 2007), The Fountain (Darren 
Aronofsky, 2006), Missione Impossible 
III (J.J. Abrams, 2006), Il codice Da 
Vìnci (The Da Vinci Code, Ron 
Howard, 2006), Curioso come George 
(Curious George, Matthew O’Calla- 
ghan, 2006), La maschera dì cera {Hou¬ 
se ofWax, Jaume Collet-Serra, 2005), Il 
mistero dei templari {National Treasure, 
Jon Turteltaub, 2004), Hellboy (Guil- 
lermo del Toro, 2004), Scooby Doo 2\ 
mostri scatenati {Scooby Doo 2: Monsters 
Unleashed, Raja Gosnell, 2004). E, più 
indietro, ancora La mummia {The 
Mummy, Stephen Sommers, 1999), La 
mummia: il ritorno {The Mummy Re- 
turns , Stephen Sommers, 2001), Star- 










SOTTO ANALISI 


34 gate (Roland Emmerich, 1994), lo 
stesso Jurassic Park. Per non parlare di 
film precedenti che contengono se¬ 
quenze girate proprio nello stesso Mu¬ 
seo di storia naturale di New York, co¬ 
me Men in Black II (Barry Sonnenfeld, 
2002) e Scoprendo Forrester (Finding 
Forrester, Gus Van Sant, 2000). Si trat¬ 
ta indubbiamente di una presenza 
simbolica, che testimonia l’ossessione 
di un contatto diretto con il Passato, 
ma anche di una sua radicale rielabo¬ 
razione. 

La suggestiva descrizione di Alberto 
Abruzzese potrebbe valere anche per 
Una notte al museo , a patto di apportare 
alcune modifiche. Nel film di Levy, in¬ 
fatti, non esiste alcuna istanza irrazio¬ 
nale esterna deputata a sconquassare la 
secolare immutabilità del sapere mu¬ 
seale. L’incantesimo che vivifica le at¬ 
trazioni proviene dall’interno, per la 
precisione dalla sezione egizia, in cui si 
trova il magico amuleto del faraone 
Ahkmenrah. Non è più necessario nes¬ 
sun dualismo Batman-Joker, nessuna 
contrapposizione bipolare tra Raziona¬ 
lità ed Emotività, tra Ordine e Caos. 
Ormai anche le istituzioni tradizionali 
incaricate di trasmettere la conoscenza 
sono connaturalmente e ontologica¬ 
mente postmoderne, non possono che 
fondersi e scombinarsi in maniera di¬ 
sordinata, senza il minimo criterio cro¬ 
nologico o filologico. Joker poteva an¬ 
cora incutere paura, le bestie virtuali di 
Una notte al museo ormai fanno solo 
sorridere e divertire i bambini. 

Del resto, si tratta di una trasformazio¬ 
ne che stanno subendo anche gli enti 
museali reali, soprattutto negli Stati 
Uniti d’America, dove vige una gestio¬ 
ne di tipo privato votata al profitto. 

Nati come organizzazioni il cui 
scopo era quello di salvaguar¬ 
dare la cultura e tramandare le 
conoscenze di una società, [i 
musei] hanno via via assunto 
funzioni sempre più ampie. 
[...] Al ruolo istituzionale va 
affiancandosi con sempre mag¬ 
giore forza la concezione del 
museo come impresa che offre 
un prodotto sia culturale sia di 
intrattenimento. Questa nuova 
concezione fa del museo una 
istituzione che si trova a con¬ 
correre su nuovi mercati con 
aziende e prodotti che operano 
nel campo dell 'entertainment e 
del tempo Ùbero 27 . 

Ciò vale in primis per l’American Mu- 
seum of Naturai History di New York, 
che è riuscito a risanare il suo deficit 
economico proprio grazie alla pubblicità 
del film di Levy, in un perfetto cortocir¬ 
cuito che sovrappone inesorabilmente 
l’effetto mediatico all’efFetto reale. 



Mentre il museo come istituzione sto¬ 
rica aveva l’obiettivo di classificare e 
contestuafizzare il sapere (e lo faceva 
in una certa misura anche la vecchia 
Hollywood intrattenitrice, mescolan¬ 
do però Storia a Mito), il nuovo parco 
giochi high teck descritto dal film di 
Levy fa dell’ibridazione e della fusione 
degli opposti non razionalizzata né 
mediata la sua ragion d’essere. E que¬ 
sto è ormai l’unico modo per intratte¬ 
nere i giovani visitatori (e spettatori): 
adottare il loro linguaggio e i loro pro¬ 
cessi cognitivi. Da una parte sviluppa¬ 
re un approccio ludico, interattivo, im- 
mersivo, mutuato dai nuovi media di¬ 
gitali. Dall’altra far propria una conce¬ 
zione epistemologica fondata sulla 
presentificazione del tempo. 

Per Jameson, “il postmoderno can¬ 
cella la storia”. Nasce, cioè, da un 
radicale indebolimento della no¬ 
zione di storicità e si dispiega in 
una dimensione sincronica più che 
diacronica. Le categorie moderne 
della temporalità, della memoria e 
della durata subiscono un brusco 
declino a favore di un emergere di 
un eterno presente che - come ha 
scritto Remo Ceserani - “cancella 
dall’attenzione del soggetto il pas¬ 
sato storico e il futuro, sia nella sua 
forma utopica sia in quella apoca¬ 
littica e catastrofica”. Il passato di¬ 
venta così un grande serbatoio di 
immagini da ripescare di volta in 
volta con un atteggiamento no¬ 
stalgico o ludico 28 . 

Conclusioni. Fine della Storia 

In questa sede non è possibile spinger¬ 
si oltre nell’indagare il concetto post¬ 
moderno di “fine della Storia” e le sue 
conseguenze nel campo del cinema 
americano 29 . L’interesse di quest'anali¬ 
si era semplicemente di focalizzarsi su 
un case study rappresentativo non per la 
sua eccezionalità - a riguardo avevano 
già detto di più e meglio alcuni film- 
manifesto come Jurassic Park e Jumanji 
(Joe Johnston, 1995) —, ma proprio per 
il suo carattere ordinario, che implica 
ormai una assimilazione e routinizza- 
zione di temi e stili riconducibili alla 
postmodernità anche nelle produzioni 
di Hollywood meno esemplari e signi¬ 
ficative. 

Mi sono incentrato principalmente su 
due aspetti che, a mio parere, emergo¬ 
no in Una notte al museo con maggior 
evidenza e forza: da una parte la di¬ 
mensione metahnguistica e riflessiva, 
dall’altra la concezione del divenire 
storico non come traiettoria progressi¬ 
va e lineare, bensì come amalgama adi¬ 
mensionale e anacronica. 

Ma si sarebbe potuto indagare con 
maggiore attenzione altri tratti carat¬ 


teristici del blockbuster postmoderno, 
presenti ugualmente nel film di Shawn 
Levy. Si pensi, ad esempio, alla perdita 
di una narratività forte, di quella coe¬ 
renza e coesione dell’intreccio che era 
tipica del cinema classico 30 . La presen¬ 
za di una narrazione debole, frammen¬ 
tata e “modulare”, su cui prevale un ap¬ 
proccio più emotivo e immersivo, è 
strettamente connessa con l’emulazio¬ 
ne dello stile dei new media oggi più in 
voga, dalle attrazioni interattive dei 
parchi a tema, ai videogiochi. 

Più che all’American Museum of Na¬ 
turai History di New York, il film di 
Levy sembra ambientato a Di- 
sneyworld, o in un analogo theme park 
ad alta tecnologia, ricolmo di amma¬ 
ttonici e dispositivi di realtà virtua¬ 
le 32 . Ma forse i confini tra musei e par¬ 
chi di divertimento si stanno assotti¬ 
gliando anche nel mondo reale, e Una 
notte al museo rappresenta piuttosto 
uno specchio fedele delle trasforma¬ 
zioni in seno all ’edutainment (america¬ 
no e non solo). 

Per quanto riguarda l’assimilazione di 
aspetti formali e tematici provenienti 
dall’estetica del videogame, si è già ac¬ 
cennato in precedenza allo statuto del 
personaggio interpretato da Ben Stil- 
ler, più simile a un avatar virtuale che 
agisce in base al principio cibernetico 
di azione e reazione, input e output, 
piuttosto che a un round character dal¬ 
la complessità narrativa. 

Si pensi, ancora, alla componente in¬ 
tertestuale e intermediale, al citazioni- 
smo 33 , all’approccio prettamente ludi¬ 
co e infantile, all’evocazione del magi¬ 
co e del meraviglioso: tutti caratteri ri¬ 
correnti del blockbuster contempora¬ 
neo, che non mancano naturalmente 
nel film di Levy. 


Una notte al museo 


Magari Una notte al museo si limita 
semplicemente ad assorbire acritica¬ 
mente e “per contagio” istanze teoriche 
ed estetiche che ormai da decenni cir¬ 
colano nell’aria. Magari le ingloba 
esternamente, senza rielaborarle e svi¬ 
lupparle nel senso della profondità. 
Ma anche questo è postmoderno: le 
trasformazioni e gli sconvolgimenti, a 
volte, intaccano solo la bolla superfi¬ 
ciale dell’immaginario. 

Dite, però: cosa c’è di più sconvolgen¬ 
te per il nostro immaginario storico di 
un cowboy e un soldato dell’antica Ro¬ 
ma che corrono insieme su un’auto 
sportiva 34 , inseguiti da un dinosauro, 
da un’orda di cavernicoli e dall’esercito 
unno di Attila? 


Roberto Castrogiovanni 








SOTTO ANALISI 


Note 

Il presente saggio' è stato selezionato alla 27“ edi¬ 
zione del Premio Adelio Ferrerò 2007. 

1. Gianni Canova, L'alieno e ilpipistrello, Milano, 
Bompiani, 2000, p. 5. 

2. Ibidem, p. 15. 

3. Omar Calabrese, L’età neobarocca , Bari, Laterza, 
1987. 

4. Gianni Vattimo, La società trasparente , Milano, 
Garzanti, 1989. 

5. G. Canova, op. cit., pp. 9-13. 

6. Jean-Francis Lyotard, La condizione postmo¬ 
derna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 
1981. 

7. Fredric Jameson, Il postmoderno o la logica cultu¬ 
rale del tardo capitalismo , Milano, Garzanti, 1989. 

8. Alberto Negri, Ludici disincanti. Forme e strate¬ 
gie del cinema postmoderno, Roma, Bulzoni, 1996. 

9. G. Canova, op. cit. 

10. Laurent Jullier, Il cinema postmoderno, Torino, 
Kaplan, 2006. 

11. Vincenzo Buccheri, Sguardi sul postmoderno: il 
cinema contemporaneo , Milano, ISU, 2000. 

12. Lo spunto per questa riflessione è nato da una 
chiacchierata con Lorenzo Nacci (http://murda- 
moviez.blogspot.com), che desidero ringraziare. 

13. “La destruction n’a aujourd’hui plus rien d’eu- 
phorique. Le dino poursouit ici toute la nuit une 
voiture téléguidée et, à l’aube, regagne gentiment 
sa niche. Le numérique a tallement retiré la joie 
du mouvement aux acteurs qu’on ne leur offre ici 
que de piteuses reconversions”. Antoine Thirion, 
“La Nuit au musée”, Cahiers du Cinema, n. 620, 
2007, p. 62. 

14. “Despite all thè computer effects on display, 
Night at thè Museum is practically a museum place 
itself, as antiquated as thè presence of Dick Van 
Dyke and Mickey Rooney in thè cast would sug- 
gest”. Cfr. Andrew Osmond, “Night at thè Muse¬ 
um”, Sight & Sound , n. 3,2007, p. 66. 

15. Alessandro Bertani, “Una notte al museo”, Ci- 
neforum , n.426, marzo 2007, p. 76. 

16. Paolo D’Agostini, “Una notte al museo”, La 
Repubblica , 2 febbraio 2007. 

17. Paolo Mereghetti, “Una notte al museo”, Il 
Corriere della Sera , 2 febbraio 2007. 

18. E chiaro che in questa sede si fa riferimento ai 
concetti di autoriflessività e metalinguismo in 
maniera radicalmente diversa dalle accezioni im¬ 
piegate per interpretare la cinematografìa moder¬ 
na (e soprattutto la Nouvelle Vague). Nel cinema 
postmoderno la dimensione metacinematografica 
è del tutto esente da implicazioni di destruttura¬ 
zione narrativa e di denuncia ideologica. 

19. Che, fra l’altro, rimanda intertestualmente in 
maniera esplicita a un classico del blockbuster con¬ 
temporaneo, Rapa Nui (Kevin Reynolds, 1994). 

20. Va da sé che il numero di citazioni e riferi¬ 
menti più o meno diretti vada ben oltre quelli che 
si è riusciti a elencare in questa pagina. Per fare 
solo un altro esempio, ad un certo punto il prota¬ 
gonista ascolta il tema musicale di Rocky (John G. 
Avildsen, 1976). 

21. Cfr. Justin Wyatt, High Concept: Movies and 
Marketing in Hollywood.\ Austin, University of 
Texas Press, 1994. 

22. A. Negri, op. cit p. 27, parla di "metaudiovisi- 
vo”, “perché ad essere coinvolto nella riflessione 
meta non è solo il cinema, ma i media in genera¬ 
le”. In questo caso si potrebbe parlare di “metavi- 
deoludico”. 

23. Bertani Alessandro, “Una notte al museo”, Ci- 
neforum, n. 426, marzo 2007, p. 76. 

24. Alberto Abruzzese, L'occhio di Joker: cinema e 
modernità , Roma, Carocci, 2006, p. 13. 


25. Ivi. 

26. Usando la parola chiave “museum”: http://ita- 
lian.imdb.com/keyword/museum/?sort=date. 

27. Carlo Amenta, “I siti internet dei musei. 
Un’applicazione della teoria multidimensionale 
della comunicazione”, in Stefano Martelli (a cu¬ 
ra), Comunicazione multidimensionale: i siti inter¬ 
net di istituzioni pubbliche e imprese , Milano, Fran¬ 
co Angeli, 2002. 

28. G. Canova, op. cit., p. 12. Il testo citato è trat¬ 
to da: Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, 
Torino, Bollati Boringhieri, 1997. 

29. A riguardo cfr. Fadda Michele, “Inside and 
Outside of History(ies): ‘ritorno ostinato delle 
non-immagini?”, in Franco La Polla (a cura), The 
Body Vanishes. La crisi dell'identità e del soggetto nel 
cinema americano contemporaneo, Torino, Lindau, 
2000. Cfr. anche Franco La Polla, “Storia e fanta- 
storia: la diversità americana” e “Fiction e realtà 
storica al cinema, ovvero: guardiamo la tv”, in Id., 
L'età dell'occhio, Torino, 1999. 

30. Cfr. David Bordwell, Janet Staiger, Kristin 
Thompson, The Classical Hollywood Cinema: Film 
Style & Mode of Production to 1960, London, 
Routledge, 1988. 

31. L 'animatronics è un “sofisticato congegno co¬ 
mandato elettronicamente che simula i movi¬ 
menti di un essere umano, di un animale o di una 
qualsiasi creatura ideata dai maestri degli effetti 
speciali”. Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Glos- 
sario_cinematografìco#A. 

32. Sui blockbuster come parchi di divertimento 
cfr. Geoff King, “Ride-films and fìlms as rides in 
thè contemporary Hollywood cinema of attrac- 
tions”, CineAction, n. 51,2000, pp.2-9. 

33. Fra l’altro, secondo Negri, anche l’impiego 
della citazione concorre a una “presentificazione 
dell’immaginario collettivo”. “Il reperto del passa¬ 
to viene attualizzato in un presente astorico. La 
dimensione dello spostamento provoca un allon¬ 
tanamento dal passato e paradossalmente deter¬ 
mina una deriva della storia”. 

A. Negri, op. cit., p. 89. 

34. Sequenza che, fra l’altro, rimanda intertestual¬ 
mente allo Starsky & Hutch (Todd Phillips, 
2004) della premiata coppia Stiller-Wilson. 


Chi si vuole conservare si perde. 
Tempo e spazio barocco nel ci¬ 
nema di Max Ophuls 

Il barocco è un’arte del movimen¬ 
to e, di conseguenza, un’arte del 
momento, dell’istante colto nella 
sua instabilità transitoria, un’arte 
già “cinematica” che postula il fat¬ 
tore temporale [...]. 

Jean Rousset 1 

Superficiale sì, ma solo in superfìcie. 

da Madame de... 

Il nome di Max Ophuls è stato da 
sempre inserito, accanto a quello di ci¬ 
neasti quali Sternberg, Welles, Wajda 
e finanche di Kubrick, all’interno di 
una speciale sezione dedicata ai registi 
definiti “barocchi”. 

Un’appartenenza che Ophuls non ha 
mai negato del tutto, pur esprimendo 
un certo scetticismo in merito duran¬ 
te una nota intervista con Rivette e 
Truffaut: “Per me, ‘barocco’ significa 
un’epoca in architettura, di cui mi è 
difficile dire quando inizia o finisce 
[...]. Ma non so esattamente cosa vo¬ 
glia dire quando viene usato per i 
film”, e poi aggiunge, in seguito alle 
sollecitazioni dei suoi interlocutori: 
“sarebbe anche un complimento... un 
complimento che mi fa anche un po’ 
paura!” 2 . 

In effetti, “La parola ‘barocco’, oltre 
indicare un preciso momento della 
storia delle arti, si configura come un 
termine passe-partouf e risulta co¬ 
stantemente applicata “a tutto ciò che 
eccede, che sfugge alla regola, e che, 
attraverso questo scarto, provoca stu¬ 
pore” 3 . Anche ogni riferimento ad un 
preteso barocco cinematografico non 
è esente da contraddizioni definitorie 
che altro non fanno che rendere com¬ 
plessa ogni riflessione in proposito. 
Nell’ampia letteratura relativa al ba¬ 
rocco, non manca chi come Eugenio 
D’Ors 4 ha individuato in tale caratte¬ 
re una costante presente in tutta la ci¬ 
viltà occidentale, sin dai greci, o chi, 
come Panofsky, propone con forza di 
parlare di barocco solo per le manife¬ 
stazioni estetiche e sociali del XVII 
secolo 5 . Pur tuttavia, una serie notevo¬ 
le di riflessioni si sono concentrate sul 
barocco individuando in esso un ele¬ 
mento moderno per antonomasia, 
rintracciabile tanto in arte quanto in 
letteratura: José Antonio Maravall 
scrisse chiaramente che “occorre rico¬ 
noscere nel barocco le origini della 
modernità” 6 . E Walter Benjamin ha 
posto in relazione barocco e letteratu¬ 
ra novecentesca nel suo II dramma ba¬ 
rocco tedesco , scrivendo: “in nessun pe¬ 
riodo [...] il sentimento artistico è 


stato tanto vicino alla letteratura ba¬ 
rocca del diciassettesimo secolo, tutta 
intenta alla ricerca di un suo stile, 
quanto il sentimento artistico dei gior¬ 
ni nostri” 7 . 

Tornando ad Ophuls, Truffaut “esclu¬ 
se che la componente barocca del suo 
stile (stigma assai frequentato dalla 
critica) fosse il puro e semplice virtuo¬ 
sismo di un cineasta decorativo” 8 , e in 
maniera altrettanto pertinente, Gior¬ 
gio Tinazzi si domanda: “Ophuls au¬ 
tore barocco? Tutto il formulario criti¬ 
co che si è usato ha quasi sempre di¬ 
mostrato la sua esilità; occorre pertan¬ 
to uscire dalla generalità di tale defini¬ 
zione, cominciando con l’analizzare le 
ragioni di quella originale messa in 
scena dello spazio che è la caratteristi¬ 
ca primaria del cinema ophulsiano” 9 . È 
quello che tenteremo di fare, mostran¬ 
do quanto lo spazio dei film di Ophuls 
sia diretta emanazione del tempo, vera 
figura chiave dell’universo del cineasta, 
nonché elemento centrale del pensiero 
sul barocco. Ed è proprio a molta ri¬ 
flessione teorica sul barocco e sulla sua 
temporalità - in particolare nella “de¬ 
clinazione” benjaminiana 10 - che ri¬ 
condurremo riferimenti legati al cine¬ 
ma ophulsiano, notando come i tratti 
di pertinenza vadano ben al di là della 
semplice vulgata cui spesso molta cri¬ 
tica si è stancamente rifatta. 

E stato notato come “Gran parte della 
filmografia di Ophuls è legata al pas¬ 
sato già come ossessione dei suoi si¬ 
gnificanti feticizzabili [...]. Lo statuto 
della memoria e del ricordo informa e 
sostiene comunque la sua messa in 
scena, anche quando di ricordo o di 
memoria in senso stretto non si trat¬ 
ta” 11 . La complessa concezione tempo¬ 
rale nei film ophulsiani ha spinto De¬ 
leuze ad affermare che “Le immagini 
di Ophuls sono dei cristalli perfetti” 12 , 
evidenziando la loro capacità di rende¬ 
re indiscernibile presente e passato, 
reale e immaginario, attuale e virtuale. 
Il filosofo ha esplicitato: “l’immagine 
attuale e l’immagine virtuale coesisto¬ 
no e si cristallizzano, entrano in un cir¬ 
cuito che ci riporta costantemente dal- 
l’una all’alta, formano una sola e stessa 
‘scena’ in cui i personaggi appartengo¬ 
no al reale e tuttavia recitano un ruolo. 
Tutto il reale insomma, la vita interio¬ 
re, è diventata spettacolo” 13 . 

Così, l’immagine del suo cinema si dà 
in una scena imperfettamente presen¬ 
te 14 , in quanto il suo concetto di tem¬ 
po non è affatto cronologico e sequen¬ 
ziale. Lo spazio labirintico, curvo, che 
ricade su se stesso, è il segno della 
“pazzia del mondo” teorizzata dal ba¬ 
rocco, della crisi, della rottura di ogni 
pretesa armonia classica. Il presuppo¬ 
sto dell’armonia e della classicità è una 
vettorialità spazio-temporale: ma nei 
film di Ophuls non esiste alcuna vet- 




SOTTO ANALISI 


36 



Igioielli di Madame de... 


tonalità. Infatti, come vedremo, il tem¬ 
po nel suo cinema è strettamente de- 
leuziano, un tempo non più cronologi¬ 
co bensì cronico. Deleuze, che nella 
rappresentazione diretta del tempo ri¬ 
leva il segno del cinema moderno, si 
domanda: “Cosa si vede nel cristallo 
perfetto? Il tempo, ma che si è già ar¬ 
rotolato, arrotondato, mentre si scin¬ 
deva” 15 . 

La compresenza dei tempi è chiara in 
tutto il cinema di Ophuls, come de¬ 
nuncia una battuta pronunciata dal 
meneur de jeu de La Ronde (1950): 
“Siamo nel passato. Io adoro il passato, 
è tanto più riposante del presente e 
tanto più sicuro dell’avvenire”. 

In questa frase, il riferimento alla di¬ 
mensione temporale del già trascorso 
potrebbe apparire in contraddizione 
con il principio della compresenza 
temporale. È vero, il meneur de jeu 
prende in considerazione un solo 
aspetto del tempo, il passato, appunto, 
ma si tratta di un passato concepito 
come dimensione “bloccata”, “cristal¬ 
lizzata”, dunque non collocata in una 
vettorialità, non posta all’interno di un 
divenire temporale. Il passato è pre¬ 
sente e viceversa: le due dimensioni 
hanno lo stesso valore 16 . Il film ophul- 
siano che forse più di ogni altro postu¬ 
la la nozione di tempo “bloccato” (so¬ 
prattutto a livello diegetico) è Letter 
from an Unknown Woman (Lettera da 
una sconosciuta, 1949): qui Lisa, la pro¬ 
tagonista, è come se vivesse un eterno 
presente, anche se già adulta è come se 
fosse sempre adolescente; e lo stesso 
dicasi di Stefan, l’uomo da lei amato, il 
quale arriva ad affermare: “Per quanto 
mi riguarda tutti gli orologi sono fer¬ 
mi”. Si può sostenere che in quest’ope¬ 
ra “è reale e presente il flash del passa¬ 
to e che le immagini di Stefan, adesso- 
qui, sono invece ‘passato’, o quanto 
meno appaiono come sospese nel tem¬ 
po, fuori da ogni registro cronologico. 
Non a caso Stefan non si accorge del 
tempo che passa” 17 . 

Ovviamente, una delle figure relative 
al trattamento temporale da sempre 
elevate a stilemi chiave dell’opera 
ophulsiana è il flash-back. I suoi film ne 
sono apparentemente pieni, ma in 
realtà dubitiamo si possa correttamen¬ 
te parlare di flash-back. Affrontando 
Lola Montès (1955), Philip Colin con¬ 
stata che essi: 

non sono delle semplici negazioni 
del presente, non essendo il pre¬ 
sente stesso che un episodio in più 
che collega Lola al suo passato, co¬ 
me le linee collegano gli uni agli 
altri i punti di una fuga geometri¬ 
ca complessa, una stella dalle in¬ 
numerevoli punte, un cristallo di 
brina tendente al cerchio, che è 
proprio la figura madre del lin¬ 


guaggio ophulsiano. Questa gravi¬ 
tazione insieme centrifuga e cen¬ 
tripeta dei personaggi e degli avve¬ 
nimenti in rapporto all’eroina tro¬ 
va la sua espressione fìsica ideale a 
ogni stadio della messa in scena 18 . 

Ha scritto Deleuze: 

Lola Montès, basterebbe questo 
film a confermare, se fosse neces¬ 
sario, a qual punto il flash-back sia 
un procedimento secondario, vali¬ 
do solo al servizio di un modo di 
procedere più profondo. Quel che 
conta infatti non è il legame tra 
l’attuale e miserabile presente (il 
circo) e l’immagine-ricordo di an¬ 
tichi, magnifici presenti. L’evoca¬ 
zione esiste, certo; ciò che rivela, 
più in profondità, è lo sdoppia¬ 
mento del tempo, che fa passare 
tutti i presenti e li fa tendere verso 
il circo come verso il loro avvenire, 
ma che conserva anche tutti i pas¬ 
sati e li mette nel circo come al¬ 
trettante immagini virtuali o ricor¬ 
di puri. La stessa Lola Montès 
prova la vertigine di questo sdop¬ 
piamento quando, ebbra e febbri- 
citante, sta per gettarsi dall’alto del 
tendone neEa minuscola rete che 
l’aspetta in basso 19 . 

I flash-back, dunque, perdono la loro 
connotazione abituale, che consiste nel 
presentare tempo passato connetten¬ 
dolo ad un presente di cui siamo con¬ 
sapevoli. In Ophuls il flash-back, o quel 
che ne resta, è la dilazione di una serie 
infinita di istanti presenti, la cui coEo- 
cazione sulla tavola del tempo lineare 
non ha posizione certa. Lo stesso con¬ 
cetto di presente tende a scomparire: è 
il tempo in sé e per sé che consuma lo 
spazio attraverso una rappresentazione 
che lo svela nella sua purezza e, in fon¬ 
do, nel suo cannibalismo. 

Ha scritto Tinazzi: 

Ophuls arriva a radicalizzare que¬ 
sto tema dell’irrecuperabilità del 
tempo, fino a fare un film ( Lola 
Montès ) sulla messa in scena del ri¬ 
cordo, dove - come dice lo scudie¬ 
ro - storia e invenzione si mesco¬ 
lano. Accanto al ricordo c’è perciò 
la perdita, la vita non ricomincia 
più, afferma Evelyne in Sans lende- 
main, Tutto finisce all’alba, 1939; e 
la lettera della sconosciuta giun¬ 
gerà a destinazione solo a morte 
avvenuta 20 . 

I personaggi ophulsiani cercano in 
ogni modo (e con loro E regista me¬ 
diante la messa in scena) di inseguire E 
tempo, nel tentativo di “conservarsi”. 
Un tentativo vano, in quanto E tempo è 
inattingibEe in quanto irrecuperabEe. 


Secondo l’estetica barocca, il tentativo 
di recuperare il tempo, di esorcizzare 
l’ossessione del vuoto, passa attraverso 
E riempimento deEo spazio. Anche nei 
film di Ophuls assistiamo ad un riem¬ 
pimento eccessivo deEa scena: gli og¬ 
getti si moltiplicano, gli orpelli satura¬ 
no stanze di palazzi e strade di città 
interamente costruite in studio. In Le 
Plaisir [Ilpiacere, 1952), per esempio, 
“il décor del teatro è il trionfo deE’ap- 
parenza euforica e delirante (lampadi¬ 
ne dappertutto, disegni déco smeriglia¬ 
ti su vetrate, bizzarre aperture ovoidali 
neEe balaustre, luccichii cangianti del¬ 
le pietrine che rivestono le colonne... 
E tutto volentieri sbEanciato da inqua¬ 
drature oblique)” 21 . E l’intero Madame 
de... (1953), che ruota intorno a mo¬ 
nili di ogni sorta - si pensi agli orec¬ 
chini che rappresentano il leitmotiv 
narrativo, i quali altro non sono che E 
corrispettivo del proliferare degli ag¬ 
gettivi tipico del barocco, di quei “frut¬ 
ti deEa terra”, per dirla con Benjamin 22 
- è un mondo fatto di apparenze, un 
mondo di superfici, come testimonia il 
personaggio di Louise, frivola e super¬ 
ficiale, per l’appunto. E la superficialità 
deU’effimero, deH’epidermico, che de¬ 
nuncia E conflitto di una realtà inat¬ 
tingibEe, provvisoria. Non è certo ca¬ 
suale che Ophuls scelga sovente come 
ambito deU’azione gli spazi dedicati 
aEo spettacolo, come teatri, cabaret, sa¬ 
le da baHo (è una opzione che il cinea¬ 
sta persegue sin dai suoi inizi, si pensi 
a Die verkaufte Braut [La sposa vendu¬ 
ta, 1932), tratto daH’opera di Smetana, 
che è un melodramma musicale con 
attori girovaghi). Egli, che ha ricono¬ 
sciuto in acrobati e clown i maestri del 
suo mestiere, non solo presenta E cine¬ 
ma sotto forma di metaspettacolo, ma 
più in generale sottolinea quanto il 
luogo deEo spettacolo sia per antono¬ 
masia il luogo del provvisorio. 


Il senso deE’accumulo succitato non è 
solo visivo, ma anche sonoro: infatti, è 
riscontrabEe anche neEe ripetizioni, 
negH echi deEa colonna sonora, intesa 
sia come colonna musicale, sia come 
parlato e rumore (e ancora una volta 
Lola Montès ecceEe in questa direzio¬ 
ne). La ripetizione, sia essa visiva o 
uditiva, sancisce E vuoto: si veda in 
questo senso l’intero Letter from an 
Unknown Woman. Qui Lisa riprende E 
filo deEa sua intera esistenza, evocata 
daEa lettera inviata a Stefan. La donna 
toma sui luoghi dei suoi trascorsi (per 
esempio, Lisa adolescente si reca, poco 
prima deEa partenza che la porterà via 
da Vienna per molto tempo, suEe stes¬ 
se scale in cui ha visto per la prima vol¬ 
ta l’amato), e la celebre sequenza am¬ 
bientata al luna park è interamente 
dominata daEa figura deEa ripetizione. 
I due protagonisti, infatti, salgono a 
bordo di un fìnto vagone ferroviario, 
sui quaE finestrini scorrono le imma¬ 
gini di luoghi turistici famosi ripro¬ 
dotti grossolanamente. Terminato il 
primo “giro”, ne domandano un altro e 
un altro ancora: iterazione e iEusione 
che presagiscono E nuEa a venire. 
Madame de... presenta due segmenti 
costituiti interamente daEa riproposi¬ 
zione del medesimo atto: neEa gioiel¬ 
leria dove Madame de... vende i suoi 
orecchini, E giovane garzone di botte¬ 
ga ripete più volte il movimento di di¬ 
scesa e salita deEa scala che conduce 
daE’ufficio del proprietario al piano di 
sotto e aE’uscita. Più avanti, E genera¬ 
le André de..., neEa ricerca degH orec¬ 
chini che la moglie finge di aver per¬ 
duti, si sposta continuamente da un 
palco aE’altro deE’Opera, in un movi¬ 
mento iterato e a vuoto. Ne La Ronde, 
E segmento di raccordo tra gli episodi 
è spesso rappresentato dal meneur de 
jeu che fa ruotare una giostra su cui si 
avvicendano i protagonisti (“Je méne 
la ronde”, dice aE’inizio): Benjamin, in 



SOTTO ANALISI 



Le Plaisir 


barocco: la melanconia (su cui si sof- 37 
ferma diffusamente anche Benja¬ 
min) 34 . L’immenso amore per la vita e 
la percezione dell’incapacità di essere 
“in tempo”, si declina in una melanco¬ 
nia che, per usare le parole di 
Berthomé “si nutre della morte per 
condurre un incitamento a vivere più 
intensamente” 35 . Si pensi, in questo 
senso, ad un intero film come Sans len- 
demain. 

Il barocco, nel momento in cui nega la 
morte, afferma la sua ineluttabilità. 

Morte che aleggia ovunque nel cinema 
di Ophuls, e che si riconnette fatal¬ 
mente al problema della concezione 
temporale: “La morte è [...] l’immagi¬ 
ne cristallo virtuale e mai attuale (tem¬ 
po infìlmabile perché sempre in fuga, 
sempre scisso), è il passato del presen¬ 
te, è il presente reso opaco dalla virtua¬ 
lità di una morte che verrà o che è già 
venuta, è l’inizio che contiene già la 
sua fine” 36 . Quest’affermazione è la 
sintesi perfetta non solo di Letterfrom 
an Unknown Woman (del cui “tempo 
bloccato” abbiamo detto in preceden¬ 
za), ma di tutto il senso dell’opera 
ophulsiana. 

Quando Lisa dichiara: “Ora so che 
mai niente accade per caso. Ogni 
istante ha il suo peso, fino a che anche 
la morte appartiene al passato” non 
esprime solo la sua opinione e la sua 
condizione, ma anche quella di tutti i 
personaggi di Ophuls. 


Infanzia berlinese , curiosamente evoca 
proprio la giostra quale figura mitica 
della ripetizione. 

Ancora, nei film di Ophuls la ripeti¬ 
zione segna l’ineluttabilità degli even¬ 
ti: è il caso del doppio matrimonio in 
La Tenére ennemie {La nostra compa¬ 
gna, 1936); delle storie che si specchia¬ 
no l’una nell’altra in Liebelei {Amanti 
folli, 1932); nonché, nel terzo episodio 
de Le Plaisir (intitolato La Mod'ele ), 
della scala che vede il primo incontro 
dei due protagonisti, e che si ritrova 
anche pochi istanti prima del tentato 
suicidio della giovane modella 23 . 

Tutto nel cinema di Ophuls, come nella 
migliore tradizione barocca, tende a co¬ 
prire, a celare non solo lo spazio vuoto, 
ma anche il tempo che appare morto. Il 
regista lo fa mediante il ricorso continuo 
a cerimonie, riti, come il caso dei duelli di 
Liebelei, de La signora di tutti (1934), e di 
Letterfrom an Unknovm Womam tutto al 
fine di celare l’immanente senso del 
provvisorio. 

La questione della ripetizione si colle¬ 
ga direttamente - anzi, si integra - con 
il tema del movimento. 

Benjamin notò come l’arte barocca 
tenda alla “ricerca di uno stile estrema- 
mente elaborato nel linguaggio, di uno 
stile atto a farlo apparire all’altezza del 
tumulto degli eventi del mondo” 24 e 
come il dramma barocco si svolga nel 
continuum dello spazio. 

Ophuls dichiarò: “Un spectacle... pour 
mòi c’est le mouvement!” 25 . Afferma¬ 
zione confermata da quella di Lola 
Montès, secondo la quale “la vita è il 
movimento”. Significativamente, nel 
suo “Baroque et esthétique du mouve¬ 
ment” 26 Marcel Brion, esponendo i 
nodi estetici del pensiero barocco, in¬ 
dividua proprio nel movimento il 
principio stesso della vita: da qui l’i¬ 
narrestabile mobilità dell’architettura 
barocca, che trasporta lo spettatore al 
suo interno e lo coinvolge. Nei film di 


Ophuls assistiamo ad una vera osses¬ 
sione del movimento: “Il piano fisso 
gli doveva sembrare distante dalla vita, 
da una realtà sempre increspata e im¬ 
prendibile” 27 . Tutto il suo cinema sem¬ 
bra potersi allegorizzare nelle sequen¬ 
ze dei balli che affollano i suoi film sin 
da Liebelei, La signora di tutti e Werther 
(1938), fino a giungere ai valzer senza 
fine di Madame de..., valzer nei quali 
l’osservatore si trova visivamente coin¬ 
volto e partecipe di quel “tumulto” cui 
si riferiva anche Benjamin. 

Ma il movimento, come il tentativo 
stesso di riempire lo spazio, è destina¬ 
to allo scacco, in quanto tenta di con¬ 
durre ad una razionalizzazione impos¬ 
sibile. Ha scritto Fornara: “È nel pe¬ 
renne movimento che sta per Ophuls 
la verità di una condizione umana fra¬ 
gile e fatalmente destinata a una con¬ 
clusione tragica” 28 . 

Anche una sola sequenza de Le Plaisir 
mostra quanto detto. Si tratta del pas¬ 
saggio in cui un personaggio parte alla 
ricerca del medico per soccorrere la 
masque (protagonista del primo e 
omonimo segmento del film): i suoi 
movimenti all’interno del Palais de la 
Danse, lunghi e articolati, seguiti con 
evoluzioni complesse della macchina 
da presa (per le quali Noèl Burch ha 
parlato di “arabeschi febbrili e arbitra¬ 
ri”) 29 , finiscono per annullarsi trovan¬ 
dosi in definitiva al punto di parten¬ 
za 30 . Più in generale, è l’intero Le Plai¬ 
sir a confermare come ogni movimen¬ 
to risulti prostrato. La ronde ophulsia¬ 
na mette in scena, attraverso il percor¬ 
so circolare, la forza del movimento il¬ 
lusionistico: è il caso de la masque che 
si copre il viso con un mascherone di 
cera ogni sera per lanciarsi in sfrenati 
baili nel tentativo di esorcizzare la vec¬ 
chiaia. Ancora una volta, dunque, un 
personaggio che tenta di conservarsi. 

In questa direzione, tutti gli atti, i ten¬ 
tativi di ricostruzione delle loro vicen¬ 


de da parte dei protagonisti ophulsia- 
ni sono prostrati e prostranti per defi¬ 
nizione. La circolarità del loro agire 
(la macchina da presa gira in tondo, 
circolarmente, allegorizzando visiva¬ 
mente l’obbligo della coazione a ripe¬ 
tere, e non a caso si è individuato nel¬ 
la forma del cerchio, nonché, in misu¬ 
ra inferiore, della retta e della spirale, 
uno dei motivi ricorrenti in Ophuls: 
ne La ronde il meneur dejeu dichiara di 
“vedere” en rond), e il conseguente 
spostamento della macchina da presa 
che li asseconda sono il segno visivo di 
una danza di morte 31 che si sviluppa 
non solo orizzontalmente (l’uso del 
Cinemascope permette di lavorare 
proficuamente in questo senso), ma 
anche e significativamente in vertica¬ 
le: il circo, le sue piattaforme sospese, 
le scale fatte di corde, i trapezi, rap¬ 
presentano il tentativo di possedere - 
seppur vanamente - in ogni direzione 
lo spazio. Se volessimo trovare una 
definizione sintetica e ad effetto per 
cogliere le dinamiche e la condizione 
esistenziale dei personaggi ophulsiani, 
forse la seguente può essere efficace: 
non è il tempo a non bastare loro, sono 
loro a non bastare al tempo. 

Quanto afferma Lisa in Letterfrom an 
Unknown Woman : “Ho molto da dirti, 
e, forse, troppo poco tempo”, è da ro¬ 
vesciarsi nel senso da noi indicato: è 
lei a non essere sufficiente, non il tem¬ 
po. È lei “in difetto”, in costante “ri¬ 
tardo”. Significativamente, in tutto il 
cinema di Ophuls ricorrono battute in 
tale direzione. In Sans lendemain, 
Evelyne esordisce dicendo: “Mi sento 
mancare”, e in effetti, “sembra, già 
dalla sua prima apparizione, una mor¬ 
ta in vita” 32 , e lo stesso si può dire an¬ 
che di Lola Montès. Ha ragione 
Claude Beylie, quando afferma che 
“per gli effimeri amanti de La Ronde è 
sempre troppo presto o troppo tar¬ 
di” 33 . In effetti, i personaggi ophulsia¬ 
ni sono sempre in una situazione di 
décalage temporale. In Werther, per 
esempio, assistiamo ad un dialogo 
estremamente esemplificativo: duran¬ 
te la sequenza del “gioco della cucca¬ 
gna” nella taverna del paese, Werther e 
Charlotte restano soli in una stanza 
adiacente alla sala principale del loca¬ 
le. La gente in sala conterà sino a die¬ 
ci, nel frattempo, loro potranno ba¬ 
ciarsi (è questo lo scopo del “gioco”). 
Trascorsi i dieci secondi, i due non si 
sono quasi avvicinati l’uno all’altra. 
Dunque, Charlotte esclama: “Troppo 
tardi...”, e Werther, stupendola, di¬ 
chiara: “Neanche se fossero arrivati a 
venti vi avrei baciata...”. Allorché lei 
domanda: “Perché?”. “Troppo pre¬ 
sto...”, ribatte l’uomo, concludendo il 
dialogo e la sequenza. 

Questa costante del décalage fi con¬ 
danna ad un altro tratto tipicamente 


Il concetto di tempo non cronologico, 
la conseguente organizzazione spazia¬ 
le tendente al riempimento della scena 
e al percorrimento della medesima 
mediante movimenti lunghi ed elabo¬ 
rati della macchina da presa; la provvi¬ 
sorietà esistenziale dei personaggi nel 
costatante tentativo di conservarsi, 
cercando di fugare l’inellutabilità della 
morte. Queste, in estrema sintesi, le 
caratteristiche del cinema di ophulsia- 
no che abbiamo tentato di segnalare e 
di porre in relazione con la “questione 
barocca”. 

Crediamo di poter affermare, insieme 
a Berthomé, che “Barocco, Ophuls lo è 
senza dubbio” 37 . E crediamo di aver 
mostrato a quale accezione del baroc¬ 
co sia utile riferirsi per comprendere al 
meglio l’opera del cineasta. Un’opera 
evidentemente proteiforme (raramen¬ 
te tale espressione appare così perti¬ 
nente), in grado di evocare non solo la 
propria individuale singolarità, quanto 
anche di parlare dell’arte in cui essa si 
inscrive. Infatti, ogni film di Ophuls, 
apparentemente “superficiale” e fatto 
di “apparenze”, parla del cinema tout 
court, della sua natura profonda, della 
sua essenza: il tempo, lo spazio, il mo¬ 
vimento. Abbiamo detto con Lola 
Montès che “la vita è il movimento”. 
L’opera di Ophuls insegna come quel 











SOTTO ANALISI 


movimento che noi designiamo con 
l’espressione “vita” sia in costante dia¬ 
lettica con il tempo. 

“Chi si vuole conservare si perde”, 
scrisse Todorov a proposito della lettu¬ 
ra che Bachtin diede dei personaggi 
dostoevskijani 38 : i protagonisti ophul- 
siani, nel loro costante peregrinare per 
le pieghe temporali, mostrano come 
forse, per conservarsi, sia necessario 
perdersi. 

Claudio Di Minno 

Note 

Il presente saggio è stato selezionato alla 27 a edi¬ 
zione del Premio Adelio Ferrerò 2007. 

1. Jean Rousset, La Littérature de l'àge baroque en 
France, Paris, Corti, 1954; trad. it. La letteratura 
dell'età barocca in Francia, Bologna, Il Mulino, 
1985, p. 93. 

2. Jacques Rivette, Francois Truffaut, “Intervista a 
Max Ophuls”, Cabiers du Cinema, n. 72, giugno 
1957; trad. it. in Giovanni Spagnoletti (a cura di), 

Il cinema di Max Ophuls , Parma, Incontri cinema¬ 
tografici di Monticelli Terme, 1978, p. 19. 

3. Giaime Alonge, “Il monolito e il geroglifico. 
Ipotesi per uno studio delle interrelazioni tra ci¬ 
nema e barocco a partire da 2001: Odissea nello 
spazio", in Giulia Cariuccio, Federica Villa (a cu¬ 
ra di), Il corpo del film. Scritture, contesti, stile, emo¬ 
zioni, Roma, Carocci, 2006, p. 63. 

4. Eugenio D’Ors, Del barocco , Milano, SE, 1999. 

5. Erwin Panofsky, Che cos'è il barocco , in Tre saggi 
sullo stile. Il barocco, il cinema, la Rolls-Royce, Mila¬ 
no, Electa, 1996. 

6. José Antonio Maravall, La cultura del Barocco. 
Analisi di una struttura storica, Bologna, Il Muli¬ 
no, 1985, p. 156. 

7. Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco,To¬ 
rma, Einaudi, 1971, p. 39. 

8. Luciano De Giusti, “Eleganza e malinconia”, in 
Luciano De Giusti, Luca Giuliani (a cura di), Il 
piacere e il disincanto nel cinema di Max Ophuls , 
Milano-Pordenone, Il Castoro-Lo sguardo dei 
maestri, 2003, p. 9. 

9. Giorgio Tinazzi, “La ricchezza della superfì¬ 
cie”, in Id. (a cura di), Dossier Max Ophuls, La Val¬ 
le dell'Eden , n. 7, maggio-agosto 2001, p. 11. 

10. Peter Vòn Bagh definisce enpassant Benjamin 
“fratello in filosofìa” di Ophuls. P. Von Bagh, “Le 
prigioni del moderno: celebrità, divismo, pubbli¬ 
cità”, in L. De Giusti, L. Giuliani (a cura di), op. 
cit., p. 125. 

11. Michele Mancini, Max Ophuls, Firenze, La 
Nuova Italia, 1978, p. 12. 

12. Gilles Deleuze, L'ìmage-temps, Paris, Les Edi- 
tions de Minuit, 1985; trad. it. L'immagine-tempo, 
Milano, Ubulibri, 1989, p. 97. 

13. Ibidem, p. 98. 

14. La felice formula è di Mancini, op. cit, p. 13. 

15. G. Deleuze, op. cit., p. 99. Il filosofo riprende, 
proprio applicandole ad Ophuls, quelle suggestio¬ 
ni che svilupperà in Le Pii. Leibniz et le Baroque, 
Paris, Les Editions de Minuit, 1988; trad. it. La 
piega. Leibniz e il barocco, Torino, Einaudi, 1990, 
in cui affermerà: “Il barocco [...] non smette mai 
di fare pieghe” (p. 6). Definizione assai pertinente 
anche per il cinema ophulsiano. 

16. Analogamente e a più riprese, a Benjamin è 
stata mossa un’obiezione similare. Ma spiega En¬ 
rico Guglielminetti: “Non che Benjamin rim¬ 
pianga il bel tempo andato: presente e passato - 


non sono l’uno migliore dell’altro. Il passato fu 
anch'esso presente. E come il presente attuale, 
quel presente-passato escluse del pari il proprio 
passato” (in Walter Benjamin: tempo, ripetizione, 
equivocità, Milano, Mursia, 1990, p. 23). Ne La 
Ronde il passato assume la stessa funzione che ri¬ 
troviamo nel présente barocco, in quanto i tempi 
vengono concepiti: “come punti che giacciano su 
un unico piano, il quale tutti li unisce in un nesso 
simultaneo [...]. Il tempo non è più pensabile co¬ 
me semplice flusso”, e ancora, “Lessenza del ba¬ 
rocco è la contemporaneità delle sue azioni” {Ibi¬ 
dem, p. 75 e p. 85). 

17. M. Mancini, op. cit., p. 80. 

18. Philip Colin, “D’une mise en scène baroque”, 
in Baroque et cinema, Etudes cinématographiques, n. 
1-2,1960, p. 92. 

19. G. Deleuze, op. cit, p. 99. 

20. G. Tinazzi, “La ricchezza della superficie”, 
cit., p. 13. 

21. M. Mancini, op. cit., p. 107. 

22. W. Benjamin, op. cit, p. 41. 

23. Molti anni prima dell’apparizione di sistema¬ 
tiche speculazioni sull’argomento Jacques Rivette 
notò come i film di Ophuls siano costituiti “dal¬ 
l’accumulazione di azioni secondarie, di false pi¬ 
ste, di ripetizioni e di ritardi” ( J. Rivette, “Le Ma- 
sque”, Cahiers du cinéma, n. 28, novembre 1953). 

24. W. Benjamin, op. cit., pp. 39-40. 

25. Citato in Georges Annenkov, Max Ophuls, 
Paris, Le Terrain Vague, 1962, p. 17. 

26. Contenuto in Baroque et cinéma , Etudes ciné¬ 
matographiques, cit., p. 60. 

27. Bruno Fornara, Geografia del cinema. Viaggi 
nella messinscena, Milano, Bur, 2001, p. 184. 

28. Ibidem, p. 185. 

29. Noèl Burch, Praxis du cinéma, Paris, Galli¬ 
mard, 1969; trad. it. Prassi del cinema, Parma, Pra¬ 
tiche, 1980, p. 79. 

30. Nelle sequenze ambientate al Palais, il décor e 
il movimento sprigionano un’energia destinata a 
disperdersi nella sua totale inutilità. Sul tema del¬ 
lo “spreco barocco”, si veda W. Benjamin, op. cit., 
pp.150-151. 

31. Di danse macabre parla Jean-Pierre Berthomé 
nel suo Le Plaisir, Paris, Nathan, 1997, pp. 67-70. 

32. Silvio Alovisio, “Tutto finisce all’alba. Liturgie 
della morte e immagini della fine nel cinema di 
Ophuls”, in G. Tinazzi (a cura di), Dossier Max 
Ophuls, La Valle dell'Eden, cit., p. 33. Alovisio ha 
aggiunto, riprendendo un’espressione di Sartre, 
che Evelyne è “il necrologio di se stessa”. 

33. Claude Beylie, “De l’amour de l’art à i’art de 
l’amour”, L'Avant Scène Cinéma, n. 25, aprile 
1963. 

34. “La parentela fra lutto e ostentazione, che il 
linguaggio barocco attesta in modo così grandio¬ 
so [...j è uno spettacolo che può certo premiare lo 
sguardo attento con la scoperta dei suoi significa¬ 
ti nascosti, ma il cui infinito ripetersi non fa che 
promuovere lo sconsolato dominio di un tempe¬ 
ramento melanconico” (W. Benjamin, op. cit, p. 
67). 

35. J.-P. Berthomé, op. cit, p. 97. 

36. S. Alovisio, op. cit, p. 36. In una nota apparsa 
su France-Soir nel dicembre 1955, Francois Ro¬ 
che richiama la “logica dei ricordi dei malati in 
punto di morte” a proposito del tempo ophulsia¬ 
no. E un’osservazione pregnante, nonché un’ulte¬ 
riore conferma che per i personaggi di Ophuls 
non può esserci avvenire proprio perché presente 
e passato si mescolano in maniera indiscernibile. 

37 J.-P. Berthomé, op. cit, p. 93. 

38 Tzvetan Todorov, Mikhail Bakhtine. Le princi¬ 
pe dialogique suivi de Ecrits du Cercle de Bakhtine , 
Paris, Seuil, 1981; trad. it. Michail Bachtin. Il prin¬ 
cipio dìalogico, Torino, Einaudi, p. 132. 







LXIV Mostra Internazionale 
d’Arte Cinematografica 

Venezia, 29 agosto-10 settembre 2007 

Archeologie western a Venezia 

Coerentemente con una timida ripresa 
d’interesse da parte del mercato (il re¬ 
make di Quel treno per Yuma ad opera 
di James Mangold è uscito poche set¬ 
timane più tardi), quest’edizione della 
: Mostra di Venezia è stata contraddi- 
stinta da un’inedita offerta western: 
ben: due film in concorso, senza conta¬ 
re le rassegne dedicate rispettivamente 
al western italiano e a cinque capola- 
vou della maturità di Budd Boetticher. 
Un’offerta assai variegata che del gene- 
te western, fantasma che si aggira per 
buona parte delle produzioni cinema¬ 
tografiche contemporanee senza abi¬ 
tarle esplìcitamente, restituisce un’im¬ 
magine entusiastica e contraddittoria 
•d tempo stesso. Una problematicità: 
che si esprime innanzitutto nel rap¬ 
porto che con il genere intrattengono i 
film inediti: da almeno venticinque 
attui, è conte se il western si fosse dis- 
solto in prodotti che o reinvestono le 
sue strutture in altri tipi di contesti e 
narrazioni (e stato il caso di Carpenter, 
per esempio), oppure utilizzano la sua 
iconografìa all’interno di strutture me¬ 
lodrammatiche (Brokeback Mountain, 
Ang: Lee, 2005, Down in thè Valley, 
David Jacobson, 2005). In questo con¬ 
testo realizzare un film esplicitamente 
appai tenente al genere significa alme¬ 
no: in parte compiere un’operazione in¬ 
tertestuale: se non si sta già effettuan¬ 
do un remake, si tratta di connettersi 
ad una memoria cinematografica stra¬ 
tificata. Lassassimo di Jesse James per 
mano del codardo Robert Ford (The As- 
sassìnationof Jesse James by thè Cornard 
Robert Ford, Andrew Dominik, 2007), 
ad esempio, a fronte di una messa in 
Siena pedantemente mimetica nei 
confronti della regia di Malick, si ri- 
collega invece nella struttura ad un an¬ 
tecedente ben preciso, Pat Garrett & 
BìllyKid{ Sam Peckinpah, 1972). L’in¬ 
tera vicenda, infatti, è incorniciata tra 
un’iniziale sequenza dazione violenta 
e l’annunciato omicidio finale, in mez¬ 
zo ai quali si snocciola un’interminabi¬ 
le attesa nella quale acquista un’impor¬ 
tanza maggiore la configurazione pas¬ 
sionale dei personaggi (nel film di Do¬ 
minik si tratta dell’inadeguatezza alle 
proprie ambizioni e della paura come 
motori del tradimento di Ford, nonché 
del mal di vivere c dell’angoscia come 
cause ddla rassegnazione finale di Ja¬ 
mes) piuttosto delie sue conseguenze 
sul piano dell’azione. Il legame tra i 
due film è rafforzato dai comuni pro¬ 
blemi produttivi, in quanto anche il 
film di Dommìk è stato interamente 


rimontato dalla produzione: come il 
suo modello, che conta tre edizioni 
differenti nessuna delle quali rispec¬ 
chia le effettive intenzioni di Peckin¬ 
pah, anche questo film sembra tra¬ 
smettere alla forma l’irresolutezza dei 
suoi protagonisti. 

Sukiyaki Western Django di Takashi 
Miike (come Searchers 2.0 di Alex 
Cox, presente nella sezione Orizzonti) 
si ricollega invece al western italiano, 
che rilegge con la massima astrazione 
possibile e sotto il segno dell’ironia: si 
tratta di uno pseudo remake-prequel 
di Django (Sergio Corbucci, 1966) re¬ 
citato in inglese da attori nipponici 
(persino Tarantino, unico occidentale 
in un ruolo minore, parla con accento 
orientale) e la cui trama è in realtà un 
pastiche di elementi derivanti da capi¬ 
saldi dello spaghetti western. D’altra 
parte, l’approccio nostrano ai genere 
nelle sue prime fasi era pesantemente 
debitore nei confronti del cinema di 
samurai: in questo senso l’estremo sin¬ 
cretismo scenografico del film, che 
mescola pagode e saloon e offre tra¬ 
monti disegnati da teatro Kabuki, è 
quello contemporaneamente di una 
riappropriazione e del riconoscimento 
di una parentela. Gli elementi temati¬ 
ci dello spaghetti western, come quel¬ 
lo dell’eroe che fa il doppio gioco tra 
due fazioni, sono poi ingigantiti nella 
loro evidenza, cosicché i due fronti in 
lotta sono identificati da divise mono¬ 
crome rosse e bianche, come fossero 
pedine degli scacchi. 

Per quanto vigorosamente rifiutato 
dalla maggior parte della critica pre¬ 
sente al Lido, il film di Miike ha il me¬ 
rito di offrire una rilettura del suo mo¬ 
dello molto più godibile e chiara di 
quanto non facesse la retrospettiva che 
lo ha accompagnato, quella quarta edi¬ 
zione della “Storia segreta del cinema 
italiano”, curata da Giusti e Gomara- 
sca, che sembrava voler ripercorrere i 
fasti della prima del 2004. Ma mentre 
quest’uitima era felicemente riuscita, 
sia nel suo intento iconoclasta (intro¬ 
durre disordinatamente e rumorosa¬ 
mente film disparati, accomunati dalla 
marginalizzazione critica e dalla re¬ 
cente riscoperta cinefila), sia nella co¬ 
pertura mediatica, in questo caso ci si 
trova di fronte a un corpus di film che 
di per sé era già riuscito a mantenere 
una buona dose di attenzione critica: le 
rassegne recentemente dedicate a 
Leone, o al limite a Soliima, non si 
contano. Perciò, non si è trattato più di 
introdurre l’orinatoio nell’edificio mu¬ 
seale, come è avvenuto quattro anni fa, 
bensì di allargare il pantheon degli au¬ 
tori di una stagione del cinema italia¬ 
no che tutti sentono già, bene o male, 
di conoscere. Il problema è proprio 
questo: che se dal gesto di rottura si 
intende passare all’approfondimento 


di un genere, sarebbe il caso di andare: 
oltre le forme più smaccatamente ve- 
terocinefile. E invece, a fronte di una 
programmazione improntata eviden¬ 
temente all’accumulazione (in luogo di 
un catalogo della rassegna c’era infatti 
un dizionario curato da Giusti), le 
proiezioni erano precedute dalle solite 
interviste al regista del film (qualora 
ancora in vita), secondo il triste sche¬ 
ma “presentazione-aneddoto sugli at¬ 
tori-aneddoto sul produttore cialtro¬ 
ne-sanzione positiva del cineasta auto¬ 
re/ artigiano-pari sanzione negativa dei 
critici dell’epoca che non erano in gra¬ 
do di apprezzare”. Piuttosto che le 
preoccupazioni cinefilo-rivaìutative 
sarebbe stato più interessante un ten- : 
tativo di ricostruzione, seppur parziale, 
del contesto produttivo dell’epoca, an¬ 
che perché buona parte dei film non 
era affatto malese si sarebbe volentieri 
fatto a meno di curiosità come La ta¬ 
glia è tua, l’uomo he ammazzo io 
(Eduardo Mulargia, 1969), il cui effì¬ 
mero merito consiste nell’essere il pri¬ 
mo film con bacio gay tra cowboy. 
L’esito è stato ulteriormente inficiato 
dalla concomitante rassegna che pre¬ 
sentava cinque capolavori restaurati di 
Boetticher, da I tre banditi (The TallT, 
1957) a La valle dei Mohicani ( Coman¬ 
che Station, 1960): fondati quasi tutti 
su di un identico nucleo narrativo, 
questi film fanno collidere tutti gli ele¬ 
menti in gioco in maniera sempre di¬ 
versa, e con l’invidiabile concisione di 
una durata che si attesta sempre attor¬ 
no ai 70 minuti. In altre parole, punta¬ 
re alla rivalutazione in blocco degli esi¬ 
ti più diseguali del western italiano 
non giova granché neanche a quello 
stesso cinema, soprattutto se nella sala 
di fianco vengono presentati concor¬ 
renti di cristallina perfezione; piutto¬ 
sto, si sente il bisogno di un recupero 
fondato su di una ricognizione siste¬ 
matica del genere, e non su anacroni¬ 
stiche categorie autoriali in dissolvi¬ 
mento. 

Il ritratto dell’approccio contempora¬ 
neo al western, così come traspare nel 
palinsesto dell’ultima edizione della 
Biennale Cinema, appare improntato 
al confusionario entusiasmo, che spe¬ 
riamo sfoci in successive più meditate 
iniziative. 

Francesco Di Chiara 






















LE CITTA DEL CINEMA 


40 


Trompe-l’oeil 

Gli amori di Astrea e .Céladon (Les 
Amours dAstrée et de Céladon, Eric 
Rohmer, 2007) 

Gallia, V sec. Dopo il tentato suicidio 
perché Astrée non lo vuole più vedere, 
e prima di poterla riavvicinare e ricon¬ 
quistare travestendosi da donna, Céla¬ 
don è soccorso da una ninfa, che gli 
scopre indosso un medaglione col ri¬ 
tratto di Astrée. 

Non db freeze frame o ingrandimento 
che tenga. Non c’è verso di sapere, tan¬ 
to la corrispondenza è precisa, se il ri¬ 
tratto nel medaglione è una pittura as¬ 
sai somigliante all’originale, o una foto 
ritoccata per sembrare dipinta. Un no¬ 
do inestricabile, ricorda bazinianamen- 
te Pascal Bonitzer, lega trompe-l'-oeil e 
cinema: l’uno sfuma il quadro nella 
realtà, l’altro non potendo che costrin¬ 
gere la realtà in un’inquadratura rende 
l’immagine inevitabilmente parziale, 
rivelandola mendace nel momento 
stesso in cui gli aderisce con la più stre¬ 
nua fedeltà. La realtà fa velo a se stes¬ 
sa, il cinema non ha a che fare con lei 
se non come pittura automatica. 

È la parzialità del punto di vista ad in¬ 
nescare il conflitto, come spesso in 
Rohmer. Lei vede Céladon con una 
donna che in realtà frequenta solo per 
compiacere i genitori; pensando che 
facciano sul serio, lo lascia. La loro se¬ 
parazione è quella tra la “realtà” e la 
“finzione”. Tra la natura nello splendo¬ 
re della sua apparenza, e l’alienazione 
primordiale da essa che è il linguaggio. 
Astrée è la superfìcie del visibile (il 
punto di vista), il paesaggio bucolico 
(il suo volto sovrimpresso alle vallate 
durante l’intermezzo musical), la natu¬ 
ra “vera” che fa da sfondo al suo dolo¬ 
re. Céladon sta in mezzo a curatissimi 
giardini, a quadri e stanze (il castello 
della ninfa), si traveste da donna, si¬ 
mula un falso flirt: la “finzione”. 

Ma il travestimento, con cui Céladon 
si avvicina ad Astrée per convincerla 
con la verità del suo contatto fisico, è 
solo l’altra faccia del medaglione “iper¬ 
realista” in cui Astrée è ritratta con ve¬ 
rosimiglianza fotografica a dir poco 
perturbante (meglio: fittizia) per il 
XVII sec. La riconciliazione è necessa¬ 
ria, inevitabile, strutturale. La citata 
dialettica bonitzeriana si prolunga al¬ 
l’infinito: un druido ci rivela che i due 
si conobbero anni prima in una ceri¬ 
monia che riproduceva (come il dipin¬ 
to che il druido ci mostra nel frattem¬ 
po) Paride che dona la mela a Venere; 
ebbene, essendo questo rito rigorosa¬ 
mente inscenato da sole donne (Paride 
compreso), Céladon si travestì da ra¬ 
gazza per poter impersonare Paride. 
Insomma: il quadro (di Paride e Vene¬ 
re) viene inscenato nella realtà trave¬ 


stendo la realtà non da finzione bensì 
da quello che effettivamente è: Céladon 
si traveste da donna per poter indossa¬ 
re panni maschili, i suoi. I due piani 
sono metafìsicamente inestricabili. 

Cosa riunirà i due? Cosa farà riabbrac¬ 
ciare realtà e finzione, natura e lin¬ 
guaggio? Saranno le radici stesse del¬ 
l’arte rohmeriana: lo spazio, la geome¬ 
tria, la parola. È la parola (che nel film 
è, di nuovo, presa in un ibrido tra col¬ 
loquialità e artificio poetico, prosa e ri¬ 
ma, rispetto dell’opera originale e at- 
tualizzazione) a innescare la concate¬ 
nazione geometrica che sbalzerà Céla¬ 
don fuori dalla sua inerzia autodistrut¬ 
tiva. Si inanellano colloqui da Céladon 
alla ninfa, dalla ninfa a Leonida, da 
Leonida al druido, dal druido a Céla¬ 
don: solo così Céladon può rivedere 
Astrée. Ma soprattutto lo spazio, il 
tempietto all’amore che il druido fa 
costruire, in cui Astrée si riconoscerà 
in un dipinto. Un tempietto di legno 
in mezzo ai boschi in cui mallarmea- 
namente rien rìaura eu lieu que le lieu, 
come sottolinea una breve, stupenda 
scena in cui una folla di officianti sem¬ 
plicemente entra dentro il tempio ap¬ 
pena prima di una dissolvenza in nero. 
Rien n'aura eu lieu que le lieu : in effetti 
Rohmer qui si lascia più che mai an¬ 
dare alla geometria, alla scienza esatta 
delle traiettorie di sguardi e movimen¬ 
ti, incrociando (riconoscendoli come 
una cosa sola) senso drammaturgico e 
integrazione personaggio-ambiente. 
Dopo aver attraversato tutte le ma¬ 
schere artistiche (pittura, musica, poe¬ 
sia...) della Storia ( Perceval , La nobil- 
donna e il duca, Agente segreto...), ora 
torna alle radici stesse di essa, ovvero 
alla scissione tra natura e linguaggio, 
come già fece La marchesa von..., ma in 
modo meno sfumato, scavando più 
nettamente la scissione. Chiude il di¬ 
scorso sulle arti (e il film poi le convo¬ 
ca tutte) nello straordinario sermone 
del druido sul monoteismo che inglo¬ 
ba in sé il politeismo (il cinema anco¬ 
ra bazinianamente sintesi delle arti in¬ 
separabile dalla religione) e prosciuga 
tutto fino al confronto puro, frontale, 
tra una natura incontaminata e un gio¬ 
co di linee e vettori che vi si fondono 
alla perfezione, come la poesia inta¬ 
gliata nell’albero che Céladon lascia 
per Astrée. 

Il playboy canterino che schiamazza, 
saltella e corre per credersi libero, ha 
un bel dimenarsi: non si scappa dallo 
spazio. Le sue movenze scomposte e le 
fughe scoordinate sono re-inghiottite 
nella circolarità: quando scappa fuori 
dal tempietto, egli non scappa da nes¬ 
suna parte, ma si limita a correre intor¬ 
no alla pianta circolare dell’edificio. 
Crede di poter venir meno alla legge 
enunciata da Lycidas: l’amore è tal¬ 
mente grande che può cercare solo se 



Gli amori di Astrea e Céladon 


stesso, l’amante vede nell’amato se 
stesso e specularmente si scopre amato 
- davanti alla semplice grandezza di 
quest’inversione, cambiare mille don¬ 
ne come il menestrello è semplice- 
mente mancare il punto. Sarà ironica¬ 
mente lui a corteggiare il suo “più si¬ 
mile di quanto non creda”: Céladon en 
travesti. 

Ma nel frattempo Astrée e Céladon si 
ritrovano, parlando ognuno di sé in 
terza persona (ancora il “discorso iper- 
diretto” come nei “Racconti morali” 
tutti costruiti sull’intrecciarsi tra la 
prima persona e la terza del discorso): 
amante e amato sfumano l’uno nell’al¬ 
tro (Céladon non solo si finge donna 
ma indossa i vestiti di Astrée), l’amore 
cerca eternamente se stesso. 

Non c’è risposta migliore per chi accu¬ 
sa i vecchi grandi autori di autoreferen- 
zialità. 


Marco Grosoli 



LE CITTÀ DEL CINEMA 


Poi comincia la polvere 4i 

Orizzonti Doc 


I-Tube: un iake-reality show dal¬ 
la guerra d’Iraq 

Redacted (Brian De Palma, 2007) 

Ad un anno dalla proiezione di Inland 
Empire (2006) di David Lynch alla 
mostra di Venezia, Brian De Palma ha 
presentato il suo ultimo lavoro, Redac¬ 
ted, sugli stessi schermi. L’accostamen¬ 
to di questi due eventi è apparente¬ 
mente arbitrario, privo di pertinenza. 
Da una parte abbiamo una deriva, l’on¬ 
divaga macchina digitale di Lynch che 
comprime e dilata uno spazio sconnes¬ 
so fra il set cinematografico e l’incon¬ 
scio. Dall’altra, un’opera realizzata con 
“tecnica mista”, che fa del disordine vi¬ 
sivo di un diario filmato (molto vicino 
ad un reality show) il fulcro di una 
puntuale riflessione sulla nuova galas¬ 
sia multimedievale orbitante intorno 
alla guerra in Iraq. 

' Il film di De Palma è sì un film politi¬ 
co, un atto di denuncia. Che l’obietti¬ 
vo dell’autore sia però la violenza per¬ 
petrata dalla macchina da guerra ame¬ 
ricana sul popolo iracheno, non cer¬ 
cheremo di argomentarlo, né di confu¬ 
tarlo. La riflessione di Redacted è pri¬ 
ma di tutto quella sui media, sui sup¬ 
porti e, come sempre, più che mai, sul 
cinema. Può apparire curioso, se non 
paradossale, che siano stati due Auto¬ 
ri, di una generazione la cui voce sem¬ 
bra non risuonare più così forte nel ru¬ 
more del dibattito contemporaneo, ad 
aggiungere due tasselli fondamentali 
al percorso di assimilazione dei nuovi 
linguaggi nel film. Il merito di Inland 
Empire, come abbiamo già avuto occa¬ 
sione di rimarcare, stava nell’usare il 
digitale, forse per la prima volta nel ci¬ 
nema americano, consapevolmente e 
“ontologicamente”. La novità di Re¬ 


dacted, sta nel mostrare del linguaggio 
digitale e delle sue declinazioni, i limi¬ 
ti, le difformità, la parzialità. Redacted 
si presenta subito come un’opera origi¬ 
nale: diversi piani narrativi vengono 
sovrapposti e poi intrecciati, e al con¬ 
tempo differenti formati vengono al¬ 
ternati e amalgamati, dall’inizio alla 
fine, in un astutissimo gioco dialettico 
fra vero e falso. A succedersi sullo 
schermo sono in ordine sparso: un fal¬ 
so film-documentario francese, il cui 
lirismo patinato richiama direttamen¬ 
te un certo tipo di prodotto europeo¬ 
umanitario che potremmo vedere su 
Arte, o all 'Espace Saint-Michel di Pari¬ 
gi, il video-diario di un militare ame¬ 
ricano col sogno di essere cineasta, le 
immagini in pellicola “oggettive” sul 
contesto in cui muove il conflitto, ed 
alcuni filmati online e televisivi. Due 
considerazioni: in primo luogo, il ca¬ 
rattere eterogeneo di questo film, ri¬ 
chiama da vicino le opere del primo 
De Palma, quello sperimentale e irri¬ 
verente di Greetings (1968) o HiMom! 
(1.970). In secondo luogo, la varietà di 
media prediletta dall’autore, persegui¬ 
ta con grande coerenza e distacco a fi¬ 
ni critici e rivendicatori, ci mostra per 
contrasto tutta la pochezza di un cer¬ 
to cinema di denuncia in gran voga in 
America, che ha come capofila il fiac¬ 
co, sempre più blando Michael Moore 
(si pensi a Fahrenheit 9/11, 2004, ma 
soprattutto all’ultimo Sidio, 2007) ap¬ 
piattito su un uso dei linguaggi media¬ 
tici banale, quando non addirittura 
compiaciuto e conformista. Redacted 
svela invece la smaccata autoconsape¬ 
volezza dell’intero baraccone america¬ 
no in Medio Oriente. Se la linea nar¬ 
rativa principale tracciata dai perso¬ 
naggi risulta parallela a quella di Vitti¬ 
me di Guerra (1989), ciò che cambia è 


proprio la consapevolezza dei prota¬ 
gonisti: non vi è una reale partecipa¬ 
zione, cade ogni conflitto morale e 
primordiale, la violenza sessuale, la 
brutalità in sé, viene vissuta come in 
un reality. Paradosso dei paradossi: De 
Palma ci svela come non vi sia nulla di 
più fìnto e “spettacolare” della realtà, 
quando questa viene riportata sullo 
schermo. Al contempo, il regista ci 
mostra come il formato amatoriale per 
eccellenza, quello della realtà nuda e 
cruda, dei filmati sui telefonini, di 
quelli caricati su YouTube, sia il più in¬ 
gannevole in assoluto. 

Redigibile, plasmabile, deformabile (si 
pensi alla quantità di informazioni di¬ 
storte piovuta in rete dall’Iraq: le false 
esecuzioni, le false rivendicazioni), 
soggettivo e parziale esattamente come 
la pellicola, forse ancora di più data la 
sua natura non foto-chimica e imma¬ 
teriale, il digitale gode comunque pres¬ 
so il pubblico di un’aura di realismo e 
di naturalezza, di un’oggettività rara¬ 
mente messa in discussione. De Palma 
con un colpo di mano, o meglio con un 
colpo d’autore, con la sua presenza im¬ 
manente su tutto il film, percepibile 
persino in un sottile quanto spietato 
gusto voyeuristico nel filmare il clou del¬ 
la violenza sessuale, ci mostra come 
dietro alla macchina ci sia sempre e co¬ 
munque un Autore. Un autore che sce¬ 
glie, che redige, che omette e mostra, 
con compiacimento o indignazione, i 
dettagli di un massacro. Redacted è per¬ 
ciò, più di ogni suo predecessore, un 
film consapevole delle regole del gioco 
mediatico, americano sullbscenità del 
conflitto iracheno. Il film dice chia¬ 
ramente quanto suggerito da Sla- 
voj Zìfck in Welcome to thè Desert of thè 
American (sub)cultureR: la teatralità 
delle umilianti torture inflitte dalle 
forze di occupazione in Iraq, non sa¬ 
rebbe altro che un’“iniziazione” al lato 
osceno della cultura americana, un 
“supplemento necessario” e nascosto ai 
valori “democratici” d’oltreoceano. 

Maurizio Buquicchio 


1. Slavoj Zizek, Welcome to thè Desert of thè Ameri¬ 
can (subculture! An Essay onAbu Ghraìb and Reta¬ 
te! Topics, trad. it. di Lorenzo Chiesa, Verona, 
Ombre Corte, 2005. 


Siamo io e te appoggiati su queste sedie 
io e te su queste sedie ad aspettare... 

Massimo Volume, 
Il tempo scorre lungo i bordi, 1995 

Il capolavoro di Hartmut Bitomsky, 
blasonato documentarista docente al 
California Institute ed attuale diretto¬ 
re della DFFB (Deutsche Film und 
Fernsehakademie Berlin), è andato in 
programma agli orizzonti (Doc) del 
Lido: Dust (Staub, 2007). Difficile ri¬ 
correre ad una scrittura “ecfrastica” per 
un film, scusate il paradosso, che va so¬ 
prattutto visto. Secondo cartella stam¬ 
pa si tratta di uno “studio analitico del¬ 
la polvere”. Le radiose immagini di Bi- 
tosmky, magnificamente montate, a 
tratti sontuose e visionarie come un 
Godfrey Reggio, affrontano l’infilma- 
bile inseguendo la fascinazione di una 
presenza discreta quanto ineludibile, e 
traghettano in maniera “bachelardia- 
na” lo spettatore attraverso le varie 
possibili declinazioni di un elemento 
che si svela nel fascio di luce che solca 
una stanza in penombra ed influenza il 
clima, l’andamento della radioattività e 
la salute umana. 

Polvere. Dal “gatto”, il grumo di polve¬ 
re che si nasconde sotto il mobile, alla 
materia residuale che formano i soli 
esplodendo. La polvere che è stata 
consegnata al nostro corpo, ed a cui 
siamo destinati, tornerà a rutilare nel 
vuoto assoluto da cui proviene in atte¬ 
sa del prossimo Big Bang. Il film inse¬ 
gue il filo conduttore della polvere e 
della sua onnipresenza mostrando una 
progressione socio-tecnologica ed an¬ 
tropologica attraverso vari siparietti 
tragicomici. Come la maniaca della 
pulizia che si prodiga per vivere in un 
ambiente completamente asettico, pa¬ 
tetica incarnazione di una fatica di Si¬ 
sifo rivolta contro agenti elementari 
destinati a sopraffare l’effimera soler¬ 
zia umana. Seguono gli studiosi della 
polvere che ne analizzano la composi¬ 
zione, ricostruiscono il passato che 
nella polvere lascia tracce, preservano 
dalla polvere l’andamento di compli¬ 
cati processi industriali, o impediscono 
a minuscoli detriti velenosi di raggiun¬ 
gere i polmoni dei lavoratori oppure, 
nel caso dei creatori di filtri per le ore¬ 
ficerie, impediscono ad un certo pulvi¬ 
scolo di raggiungere... le tasche dei la¬ 
voratori! Ci sono gli ingegneri infor¬ 
matici, che lavorano in stanze affonda¬ 
te nel puro bianco per creare il cuore 
interno, ossia il cervello, di un compu¬ 
ter in un ambiente impermeabile a 
tutto, cioè alla polvere. Abbiamo an¬ 
che, immancabilmente, l’artista della 
polvere che ne incastona l’arruffio in 
cristalli di plastica, ricavandone scara- 



Redacted 




42 



The Darjeeling Limited 


bocchi ibernati, veri e propri fossili di 
una civiltà futura... 

Non a caso, sussurra la discreta voce 
narrante del film, questa fascinazione 
per la fotogenia dell’infinitesimale na¬ 
sce dalla fatale passione dello sguardo 
del regista per i sublimi mubnelli di 
polvere della Carovana dei Mormoni 
( Wagon Master, John Ford, 1950). Ri¬ 
mare l’impossibile: la serpe che il ven¬ 
to disegna sulle Dune o l’aria satura di 
polvere che nella tempesta martella e 
devasta. Si ricordano, tramite una ri¬ 
gorosa ricognizione delle fonti foto¬ 
grafiche, i disastri dell’America rurale 
degli anni Trenta causati dai terribili 
tornado che strappavano la terra colti¬ 
vabile dalla superficie appena arata dei 
campi. La polvere può dunque morde¬ 
re o contaminare, se radioattiva. Ed al¬ 
lora la polvere va gestita, smaltita. Il 
modo con cui ce ne occupiamo descri¬ 
ve lo stato d’evoluzione della nostra ci¬ 
viltà tecnica. Difatti è la polvere a de¬ 
terminare il declino della macchina, è 
l’usura che scorre parallela all’awentu- 
ra di un utensile ed il corredo luttuoso 
degli ambienti della società industriale 
che si manifesta appieno negli spazi 
disabitati delle sue fabbriche in disuso 
(mentre scorreva il film gli sovrappo¬ 
nevo il ricordo insistente della bellissi¬ 
ma mostra di fotografie Sinai Hotels di 
Sabine Haubitz e Stefanie Zoche, cu¬ 
rata da Paolo Barbaro per lo scorso Fe¬ 
stival d’Architettura di Parma: farao¬ 
nici alberghi edificati nel niente e non 
terminati, popolati da ombre e ghiri¬ 
gori disegnati dalla polvere su superfi- 
ci irte di armature ferrose, sfida del 
convesso contro la polvere che diligen¬ 
temente curva, smussa, trafora, ren¬ 
dendo poroso). 

La polvere tende un agguato all’effigie 
cinematografica, aderisce alla superfi¬ 
cie emulsionata ed unta di grasso della 
pellicola che scorre verso l’otturatore, 
come ben sa il proiezionista, offenden¬ 
done la performatività e l’esultanza 
schermica. Diventa patina, come nelle 
opere d’arte a cui la patina conferisce 
una misteriosa ed imparagonabile gra¬ 
zia (tant’è vero che la statua o il dipin¬ 
to ripuliti appaiono meno “veri” delle 
copie eventualmente derivate). Il pit¬ 
tore Protogene combatteva la “defigu¬ 
razione” dell’opera d’arte dipingendo 
quattro quadri perfettamente identici 
uno sotto l’altro 1 . La polvere è un Pro¬ 
togene ben più accorto che pone un 
velo sulle novecentesche immagini 
tecniche che gli abbiamo consegnato, e 
vi imprime segni e cicatrici attuando¬ 
ne una solenne trasfigurazione, ricor¬ 
dandoci che niente, del visibile o del 
vivibile, sfugge alla polvere... 

Davide Gherardi 

Note 

1. Manlio Brusatin, Stona delle immagini, Torino, 
Einaudi, 1989, p. 114. 


Stile di famiglia 

The Darjeeling Limited (Wes Ander¬ 
son, 2007) 

The Darjeeling Limited (2007), l’ultimo 
film del regista Wes Anderson, pre¬ 
sentato alla LXIV Mostra di Venezia 
con un’immeritata, tiepida accoglien¬ 
za, è un viaggio in un’India, se possibi¬ 
le, più colorata di quanto non lo sia 
nella realtà. I tre fratelli Whitman, al¬ 
lampanati, annoiati e ricchi come lo 
erano i fratelli Tenenbaum (J Tenen- 
baum , 2002), salgono su un treno per 
cercare di ritrovarsi spiritualmente sia 
come individui sia come fratelli. I tre 
non si vedono dalla morte del padre, 
avvenuta un anno prima. Peter 
(Adrien Brody) fògge dalla moglie in¬ 
cinta, Francis (Owen Wilson), il fra¬ 
tello maggiore e organizzatore del 
viaggio, è convalescente dopo un inch 
dente non proprio casuale e Jack (Ja- 
son Schwartzman) ha il cuore spezza¬ 
to - la sua storia è raccontata nel ro¬ 
mantico cortometraggio-prologo del 
film, Hotel Chevalier. Jack ha trascorso 
gli ultimi mesi nella sfarzosa stanza di 
un elegante albergo parigino a leccarsi 
le ferite per un amore forse finito, o al¬ 
meno irrimediabilmente intossicato. 

Il treno, Darljeeling Limited appunto, 
porta simbolicamente i tre fratelli al¬ 
l’interno di problematiche irrisolte con 
il padre scomparso e con la madre, me¬ 
ta ultima del viaggio che assume toni 
surreali e mistici, divertenti e dramma¬ 
tici al tempo stesso. 

Anderson prosegue il suo percorso al¬ 
l’interno di intricate dinamiche fami¬ 
liari e di relazioni parentali caotiche 
che ha inizio con l’adolescenza non 
comune di Max Rscher in Rushmore 
(1998), segue con la saga dei Tenen¬ 
baum e con le avventure di Steve Zis- 
sou {Le avventure acquatiche di Steve 
Zissou, The Life Acquatic With Steve 
Zissou, 2004), padre e marito incapace 
di assumersi ogni responsabilità. Oltre 
alla tematica ricorrente dei difficili 
rapporti parentali, il regista si è distin¬ 
to, fin da Rushomore, per un’attenzione, 
quasi maniacale, al guardaroba dei suoi 
personaggi, agli spazi in cui si muovo¬ 
no, agli oggetti che li accompagnano. 
Ogni dettaglio diventa lo strumento 
per ricostruire l’identità del protagoni¬ 
sta malinconico, stralunato e vanesio. 

Il look di Margot (Gwyneth Paltrow) 
ne I Tenenbaum, un vestito a righe La- 
coste e una giacca di visone di Fendi, 
disegnata dal regista assieme alla mai¬ 
son italiana, diventa il simbolo di un 
modo di essere, di un’attitudine a un 
genere musicale, letterario, filosofico 
che rappresenta 0 regista e diventa ele¬ 
mento di identificazione per lo spetta¬ 
tore. Vale lo stesso per lo stile retro di 
Chas (Ben Stiller), con impeccabile 
tuta vintage Adidas, identica a quelle 
dei suoi figli. 


Le sneakers bianche Adidas con ban¬ 
de blu acquamarina e lacci gialli mo¬ 
dello “Zissou” indossate da Bill Mur¬ 
ray e dalla sua ciurma in Le Avventure 
Acquatiche di Steve Zissou, hanno scate¬ 
nato in rete una lunga quanto inutile 
ricerca da parte dei cultori del feticcio. 
Il modello, infatti, non è mai esistito 
sul mercato, ma è stato creato da An¬ 
derson esclusivamente per il film. Tan¬ 
to spasmodico è stato negli ultimi an¬ 
ni il desiderio di possesso di quelle 
scarpe, che qualcuno ha pensato di 
pubblicare anche le istruzioni per ela¬ 
borare, in maniera casalinga, un mo¬ 
dello Adidas quanto più possibile si¬ 
mile all’originale “Adidas-Zissou”. 

Ma è proprio The Darljeeelìng Limited 
ad appagare le vittime del feticcio ar¬ 
ricchendo il già elaboratissimo tripu¬ 
dio di colori (si pensi alle decorazioni 
zoomorfe realizzate negli scompartì 
del treno) di una preziosa collabora¬ 
zione con Marc Jacobs, designer del 
marchio Luis Vuitton. 

Il vero e proprio viaggio spirituale per 
i tre fratelli comincia quando vengono 
banditi dal treno sul quale viaggiano a 
causa del loro comportamento disordi¬ 
nato (dipendenza da analgesici, sedati¬ 
vi e sciroppi per la tosse e un’inaspet¬ 
tata fuga del serpente velenoso acqui¬ 
stato da Peter). I Whitman si ritrova¬ 
no improvvisamente appiedati, nel 
cuore dell’India, con il fardello dei lo¬ 
ro problemi personali, e materiali; a se¬ 
guirli nelle loro peregrinazioni c’è in¬ 
fatti un intero set di undici anacroni¬ 
stiche valigie (bardi, borse, borsoni e 
tracolle), vero simbolo familiare del 
passato da rielaborare, firmato Luis 
Vuitton. Il set è realizzato in cuoio na¬ 
turale e ornato con stampe di giraffe, 
rinoceronti, antilopi, zebre e palme, un 
disegno infantile creato dal fratello del 


regista, Eric Anderson, già autore dei 
disegni per I Tenenbaum. Tutte le vali¬ 
gie sono caratterizzate dalle lettere 
JWL, iniziali del padre dei tre fratelli, 
e sono la pesante, ingombrante e inu¬ 
tile eredità lasciata dal genitore. Anche 
i completi indossati dai fratelli, in di¬ 
verse tonalità di grigio e abbinati a tre 
colori diversi di camicie, beige per 
Francis, bianco per Peter e nero per 
Jack, sono firmati Marc Jacobs. 

Lo stilista non è però l’unico autore 
dei costumi del film: la costumista di 
The Darjeeling Limited è infatti l’italia¬ 
na Milena Canonero, già collaboratri¬ 
ce di Anderson ne Le Avventure Ac¬ 
quatiche di Steve Zissou, e premio 
Oscar per i costumi di celebri film 
quali Momenti di gloria {Chariots ofFi- 
re, 1981) di Hugh Hudson, Barry 
Lyndon (1975) di Stanley Kubrick e 
del più recente Marie Antoinette 
(2006) di Sofia Coppola. I colori delle 
uniformi dello staff del treno, quei to¬ 
ni di blu, turchese e verde acido, dise¬ 
gnati dalla Canonero, evocano i colori 
dei vagoni, ma anche i colori delle piu¬ 
me di pavone legate a un rituale al 
quali i tre Whitman si sottopongono. 
L’insistenza sul dettaglio ricercato fino 
all’ossessione, così come la perseveran¬ 
za nella tematica del conflitto interio¬ 
re inserito all’interno del nucleo fami¬ 
liare, fanno del regista un autore con¬ 
siderato da molti ripetitivo. Tuttavia 
l’antieroe di Anderson segue un per¬ 
corso in continua crescita, segnata sì 
da un quasi grottesco perfezionismo 
perlopiù griffato, ma anche da una 
malinconica disillusione aderente al¬ 
l’attitudine paranoica dell’uomo con¬ 
temporaneo. 

Sara Martin 






LE CITTÀ DEL CINEMA 


XLIII Mostra Intemazionale del 
Nuovo Cinema di Pesaro 

Pesaro, 24 giugno-2 luglio 2007 

Le piccole Italie nascoste nel 
nuovo mondo. Il cinema italoa- 
mericano contemporaneo 

Nella perenne ricerca di spunti storio¬ 
grafici e filmografie sconosciute che ne 
caratterizza l’identità, il festival di Pe¬ 
saro ha quest’anno operato una scelta 
singolare, e opportuna: quella di spo¬ 
stare l’attenzione su una retrospettiva 
puntuale e su un lavoro di ricerca origi¬ 
nale. Si tratta di una svolta importante: 
sappiamo bene come Pesaro abbia nel 
suo DNA il rapporto, consustanziale, 
con la ricerca universitaria, e come an¬ 
che nel passato svariati volumi colletti¬ 
vi abbiano raggiunto lo status di opere 
miliari per la storia e la teoria del cine¬ 
ma. Non si può negare, tuttavia, che - 
per le tante cause che non ce tempo di 
ribadire - negli ultimi anni la parte del 
leone da questo punto di vista l’abbiano 
fatta le retrospettive sul cinema italia¬ 
no. Anche questa volta, del resto, l’ope¬ 
ra omnia comenciniana ha ricevuto 
l’attenzione che meritava, con la fatica 
editoriale di un bel volume curato da 
Adriano Apra, cui va aggiunto - da 
parte dello stesso studioso - un altro li¬ 
bro sul Comencini critico e giornalista. 
La sorpresa, tuttavia, spetta proprio a 
Quei bravi ragazzi, sezione della Mo¬ 
stra dedicata al cinema italoamericano 
contemporaneo. Composta da film in 
gran parte provenienti dall’alveo degli 
indipendenti, quando non degli ultra¬ 
indipendenti, la scelta filmografica ha 
potuto illustrare alcuni dei temi più 
importanti e caratterizzanti; essi sono 
poi stati sviluppati all’interno di una 
caotica ma esuberante tavola rotonda, e 
soprattutto depositati a futura memo¬ 
ria nel volume di cui vorremmo qui 
parlare: Quei bravi ragazzi. Il cinema 
italoamericano contemporaneo, curato da 
Giuliana Muscio e Giovanni Spagno¬ 
letti (Venezia, Marsilio, 2007). Si trat¬ 
ta di un approdo scientifico davvero se¬ 
rio e lodevole, dove - grazie alla lungi¬ 
miranza dei curatori - non si è confi¬ 
nato il cinema a se stesso e alle sue di¬ 
namiche linguistico/autoriali (approc¬ 
cio, come noto, poco apprezzato dalla 
curatrice), ma lo si è messo in relazione 
con la storia dell’emigrazione italiana 
in America, con le forme del teatro e 
dello spettacolo dei nostri connaziona¬ 
li d’oltreoceano, e con la televisione se¬ 
riale. Da Farfariello ai Sopranos, il li¬ 
bro non finisce per fortuna con l’essere 
un lungo elenco di luoghi e emergenze 
della cultura italiana in America, inda¬ 
gando anzi i crocevia artistici, le figure 
di maggior o minor importanza locale, 
i rapporti con le fasi dell’emigrazione. 


Muscio, nell’introduzione, ne indivi¬ 
dua cinque, ognuno dei quali analizza¬ 
bile attraverso i prodotti artistici e ci¬ 
nematografici depoca. Per noi studiosi 
di cinema un po’ impreparati, tutta 
questa parte, così come la sezione de¬ 
dicata alla storia (e affidata a fior di 
studiosi statunitensi), rappresenta uno 
spunto di riflessione inedito, a comin¬ 
ciare dalla specificità dell’immigrato 
italiano in America, che soffre del raz¬ 
zismo degli italiani (in partenza, in 
quanto meridionale) e dei bianchi Wa- 
sp (in arrivo), secondo i metodi di sele¬ 
zione razziale narrati anche da Ema¬ 
nuele Crialese in Nuovomondo (2006). 
Sarà per questo che - a parte gli Au- 
teurs anni Settanta - assai poca biblio¬ 
grafìa esiste in Italia su questi artisti, e 
che gli stessi curatori hanno affidato 
molti dei saggi presenti nel volume a 
ricercatori americani. Tra i temi tratta¬ 
ti, i pregiudizi anti-italiani (Franzina, 
Luconi), gli scrittori italo-americani 
(Pettener), il teatro degli immigrati 
(Aleandri); o ancora: la New Hol¬ 
lywood tra nostalgia e tramonto etnico 
(Casillo, Mancino, Zagarrio), l’identità 
di genere (Camaiti Hostert, De Stefa¬ 
no), un intelligente saggio sul ciclo di 
Rocky (Reich) e persino approfondi¬ 
menti su musica, cibo e altri mezzi di 
espressione. Chiude il volume una ric¬ 
ca anagrafe del cinema italoamericano 
contemporaneo (Spera). 

Tornando a quanto si diceva, non era 
facile immaginare la quantità di scavi e 
di ricognizioni ancora da compiere in¬ 
torno al cinema italoamericano prima 
di questo appuntamento. Il volume, 
per fortuna, resterà, impedendo così 
che - finita la rassegna pesarese - ci si 
dimentichi del grande lavoro svolto. 
Ciò serva anche come spunto di rifles¬ 
sione intorno al ruolo che il sapere ci¬ 
nematografico prodotto dalla ricerca 
universitaria è capace di rivestire. For¬ 
se molti altri festival potrebbero gio¬ 
varsene se solo abbandonassero lo spi¬ 
rito anti-accademico e squisitamente 
mediatico che fi contraddistingue, in 
una delle annate più povere di idee fe¬ 
stivaliere che si ricordano da anni. 

Roy Menarini 

j Quei bravi ragazzi 

| li cinema italoamericano contemporaneo 



XXI II Cinema Ritrovato 2007 

Bologna, 30 giugno-7 luglio 2007 

“Dio ti vede, Stalin no”. Intervi¬ 
sta a Tatti Sanguineti 

La comunicazione politica in Italia at¬ 
traverso il cinema. I film dei comitati 
civici (1948-1953) 

In questi giorni lei ha presentato a II Ci¬ 
nema Ritrovato una rassegna di film 
prodotti dai comitati civici e provenienti 
dagli archivi della Fondazione Ugo Spi¬ 
rito e deiristituto Paolo V: sono film mol¬ 
to rari, di cui non si ha alcuna notizia, 
appartengono a una sorta di “fuori ora¬ 
rio” della visione e della comunicazione 
politica, per questo mi incuriosisce, in¬ 
nanzitutto, capire comi nata in lei la cu¬ 
riosità verso tali opere, cosa ha determi¬ 
nato il suo incontro con questo materiale 
audiovisivo, insomma da dove è nata 
questa ricerca? 

L’avventura della ricerca dei “comitati 
civici” è cominciata dalla semplice 
constatazione che questi film erano dei 
film perduti, rimossi, dimenticati... Ve¬ 
dendoih è facile capirne il perché: sono 
film di una grande virulenza ideologi¬ 
ca, sono film epocali, molto contestua¬ 
li, duri, tosti... Oltre a tale motivo un 
passo fondamentale per questo mio 
interesse è stata la stima e l’amicizia di 
Turi Vasile. Turi Vasile è stato uno dei 
più importanti produttori di area cat¬ 
tolica, ha fatto molti film: come regista 
ha girato Gambe d'oro (1958) conTotò, 
mentre come produttore ha realizzato 
film significativi quali Roma (1972) di 
Federico Fellini, I vinti (1952) di Mi¬ 
chelangelo Antonioni, Io la conoscevo 
bene (1965) di Antonio Pietrangeli e 
altri. Vasile è stato il cervello di questi 
comitati civici, è un uomo di immen¬ 
surabile intelligenza, di grande spre¬ 
giudicatezza e fantasia: con Leo Lon¬ 
ganesi ha inventato quel famoso mani¬ 
festo dove si vedono due conigli con 
sotto scritto “essi non votano”, e un al¬ 
tro manifesto dove c’è scritto “nell’urna 
Dio ti vede, Stalin no”, slogan terribile 
ma geniale. Questi film dei comitati 
civici sono scanditi in diverse epoche e 
servono ad affrontare delle battaglie 
contingenti, dei tornanti della vita po- 
litico-elettorale-parlamentare italiana. 
Sono caratterizzati dal fatto di essere 
prodotti da una piccola squadra com¬ 
posta da Turi Vasile e Marcello Baldi e 
sono dei film spesso di montaggio, di 
repertorio: c’è un insieme di footage, di 
trovate, di grammatica quasi elemen¬ 
tare, di una forza comunicativa stu¬ 
penda e terribile. 

Ho cominciato a cercarli e qualcuno 
che ha avuto modo di vederli ha detto 
che sono degli incubi. È vero, questi 
film, visti oggi, in un momento in cui 


c’è una recrudescenza, un ritorno del 
conflitto tra la cultura laica e quella 
cattolica, possono apparire come delle 
immagini che ritornano, come un re¬ 
venant inatteso che ci visita di notte. 

Come noto, quelli in questionefurono an¬ 
ni molto difficili, si votò per eleggere il 
primo Parlamento dell'Italia Repubbli¬ 
cana e questo fece accendere uriardente 
campagna elettorale. Si venne a creare 
una lotta murale a colpi di manifesti, il 
più delle volte attaccati sopra a quelli del¬ 
le parti antagoniste: ai tempi, infatti, 
non vigevano alcune leggi in tutela degli 
spazi d’affissione. 

Mi chiedo, allora, che canali di diffusione 
sfruttavano questi documenti audiovisivi 
che lei presenta in occasione de II Cinema 
Ritrovato? La comunicazione politica di 
fine anni Quaranta, non regolamentata 
da precetti che ne tutelassero l’equità infor¬ 
mativa, aveva difficoltà dì circolazione? 

I comitati civici nascono come una 
struttura totalmente autarchica, auto¬ 
gestita, che impara a diffidare del mon¬ 
do dello Stato, perché questo mondo è 
inquinato, popolato, abitato dai comu¬ 
nisti. In Italia la presenza dei militanti 
comunisti è diffusissima e l’organizza¬ 
zione dei comitati civici impara a fare 
da sé, a diffidare, a usare canali alterna¬ 
tivi, scoprendo che il materiale pubbli¬ 
citario, i manifesti, i volantini inviati 
tramite le poste italiane rischiavano di 
non arrivare a destinazione. 

Ecco perché imparano a servirsi di 
mezzi propri, a camuffarsi, a nascon¬ 
dersi, a truccare le carte. E anche attra¬ 
verso questo tipo di trucchi, di pruden¬ 
ze di capacità di agire in autonomia 
che furono vinte le elezioni del 1948. 

La comunicazione politica di quegli anni 
era prevalentemente articolata su slogan 
cartacei o radiofonici, a cui si aggiunsero 
quelli dei manifesti infissi sui muri della 
città, che implicavano una ricezione in 
un certo senso passiva e quasi casuale del 
passante che si trovava, senza volerlo, di 
fronte alle locandine. Per quanto riguar¬ 
da invece lafruizione dei video di propa¬ 
ganda essi erano pensati per un certo tipo 
dì pubblico? Dove venivano proiettati? 

Questi film vengono fatti per essere 
mostrati prima e dopo i comizi, fanno 
parte di quel piccolo campo turrito e 
protetto costituito dagli spazi elettora¬ 
li. Il luogo a cui sono destinati è quel¬ 
lo del palco dell’oratore : i film vengono 
proiettati a ridosso dei comizi, sono 
materiali di accompagnamento da 
mostrare nelle sezioni dei democristia¬ 
ni, sono dei documenti che “vanno as¬ 
sieme”, che parlano prima e dopo il 
comiziante, che spiegano, aggiungono, 
convincono, che hanno la forza sedut- 
tiva, quella tipica delle immagini, delle 


43 




LE CITTÀ DEL CINEMA 


44 


attrazioni, del montaggio, àeMlexem- 
plum, della forza di captazione del ci¬ 
nematografo. 

In un'intervista da lei realizzata Turi 
Vasile diceva: “eravamo tutti seguaci di 
Méliès e non certamente di Lumière. I 
nostri manifesti sono tutti basati sull'im- 
maginario". E una dichiarazione che ri¬ 
vela una precisa presa di posizione. 

Uno degli slogan di Turi Vasile era 
proprio che il cinema deve rifarsi non 
tanto all’evidènza del fatto reale, ma al¬ 
l’evocazione fantastica, al trucco, alla 
testa tagliata: tutte caratteristiche esal¬ 
tate da Méliès. I civici si servono di 
questo tipo di “trucchistica” da pionie¬ 
ri, un po’ elementare, un po’ semplicio¬ 
na, d’altra parte la Democrazia Cristia¬ 
na era consapevole che nel 1947-48 il 
pubblico era costituito da una buona 
percentuale di analfabeti che si bevono 
tutto quello che viene detto loro e che 
costituiscono una frangia, uno zoccolo, 
una gleba di uomini semplici che han¬ 
no bisogno della forza delle immagini. 
Ecco perché questi film erano accom¬ 
pagnati da un corredo di immagini, di 
cartelloni pubblicitari, di carte dise¬ 
gnate da Jacovitti, in cui baffone Stalin 
veniva ritratto con mille vezzi, con 
scherzi, con trucchi grafici, con un ar¬ 
senale di trovate fantastiche. 

Lo slogan di cui parlavamo prima era di¬ 
chiarato esplìcitamente già nel ’48 da Va¬ 
sile come una sorta dipoetica interna alla 
propaganda, di filosofia della comunica¬ 
zione o è una definizione che lui ha dato 
a posteriori rivedendo oggi quei lavori? 

Fa parte della filosofia dell’intelligenza 
di questo corregionale di Pirandello: 
Turi Vasile ritiene, appunto, che il ci¬ 
nema sia fatto per far ridere e piange¬ 
re, che il cinema sia qualcosa che deve 
agire sul cervello, sulla fantasia. Fa par¬ 
te della sua politica programmatica, 
della sua teoria del cinema. 

Ma questa dichiarazione, che trovo par¬ 
ticolarmente sottile, non potrebbe togliere 
attendibilità e credibilità agli intenti del¬ 
la DC, proponendo l’informazione come 
un’arte suggestivamente immaginativa? 
In un certo senso, schierandosi dalla parte 
di Méliès, non si finisce per dichiarare 
proprio quello che i democristiani critica¬ 
no ai comunisti? In Strategia della 
menzogna si denuncia la retorica di si¬ 
nistra fatta di furbi agitatori menzogne¬ 
ri da smascherare e utili idioti da redìme¬ 
re, eppure gli stessi fautori dei comitati ci¬ 
vici si servono dei trucchi falsità-mani¬ 
polazioni) per costruire le loro verità. Mi 
sembra un po’ un controsenso, senza scen¬ 
dere nella semantica dei trucchi. 

Loro pensano che il cinema di propa¬ 
ganda debba testarsi sulla base di do¬ 


cumenti di realtà. L’ontologia realisti- 
ca-fenomenologica del cinema è fuori 
discussione, ma a sorpresa bisogna im¬ 
mettere questo quoziente, questa zona, 
questa area di fantasia, di gioco delle 
carte. 

Cosa fa sì che questi materiali siano desti¬ 
nati a sparire? L'aurea cinematografica 
qui viene relegata a un circuito specifico. 

Il cinema elettorale, il cinema di pro¬ 
paganda è come lo yogurt, ha una sca¬ 
denza stampigliata sopra. È un cinema 
deperibile che il giorno dopo che si è 
votato non serve più perché passata la 
festa viene gabbato il santo e comincia 
un altro momento, per cui ci vogliono 
altri strumenti, discorsi, immagini, 
fantasie, cinegiornali. 

A che stato è la sua ricerca sui film dei co¬ 
mitati civici? 

Ne abbiamo trovati 24 su 27: sono una 
catena di film dispersa, ne abbiamo 
trovati alcuni a casa di componenti del¬ 
la DC, di personaggi storici che furono 
coinvolti in questo piano di riparazio¬ 
ne. Attraverso una ricerca non sempli¬ 
ce perché questi film sono un po’ come 
degli avi dismessi, dei cappotti vecchi 
che non si possono più indossare, fan¬ 
no parte del nostro passato, sono degli 
incubi (c’è chi ne è fiero e chi se ne ver¬ 
gogna) che stiamo riscoprendo. 

Abbiamo parlato della loro utilità nel 
1948, ma qual è il loro destino oggi? 

Nessun destino, non si può destinare 
nulla perché il sistema televisivo italia¬ 
no è talmente precario, governato dal- 
l’imbecillità e dalla corruzione che è 
molto difficile pianificare la sopravvi¬ 
venza del proprio lavoro, c’è un muro 
contro cui ci si può solo rompere la te¬ 
sta. Comunque, aldilà della stupidità e 
corruzione dominanti, questi sono 
film scomodi, ingombranti, sono mili¬ 
tanti che hanno già preso e dato la lo¬ 
ro razione di botte. 

Per questo veniamo a II Cinema Ritro¬ 
vato, per conoscere delle persone che ci 
mostrino delle strade e che ci facciano 
vedere film mai visti. 

Angelita Fiore 


La musica per film. Intervista a 
Marco Dalpane 


Quest’anno II Cinema Ritrovato di 
Bologna ha dedicato almeno due si¬ 
gnificativi momenti alla musica per il 
cinema. 

Il musicista Timothy Brock ha presen¬ 
tato le musiche composte da Chaplìn 
al pianoforte per film come Limelight 
(1952) e provenienti da alcune regi¬ 
strazioni effettuate nella casa del regi¬ 
sta. Queste, recuperate dalla Associa- 
tion Chaplin di Parigi, venivano ado¬ 
perate per essere trascritte in partiture 
da utilizzare poi per le colonne sonore 
dei film di Chaplin. Alcune di esse so¬ 
no risultate totalmente inedite e sono 
state tradotte in note da Brock, che ha 
attinto alle registrazioni anche per 
creare “un nuovo accompagnamento 
musicale per il film A Woman in Paris". 
Al seminario “A chi serve la storia del 
cinema? Come sviluppare un progetto 
di educazione all’immagine per il pub¬ 
blico più giovane”, svoltosi durante il 
festival e dedicato agli esercenti euro¬ 
pei 1 , il direttore della Cineteca di Bolo¬ 
gna Gian Luca Farinelli ha dedicato il 
suo intervento al rapporto tra musica e 
cinema e all’importanza dell’accompa¬ 
gnamento musicale per i film muti. 
Abbiamo l’opportunità di parlare di 
questo e della musica per il cinema con 
Marco Dalpane 2 , pianista accompa¬ 
gnatore per la programmazione ordi¬ 
naria della Cineteca di Bologna, oltre 
che per il festival, nonché compositore 
e direttore d’orchestra di musiche per 
film come Die Bergkatze (1921) di 
Ernst Lubitsch, contenuto nel cofa¬ 
netto Ernst Lubitsch Collectìon (6 dvd 
Transit Film-Murnau Stiftung), che 
ha vinto il premio come miglior DVD 
2006/2007 all’interno del Cinema Ri¬ 
trovato DVD Awards. 


Qual è la differenza fra la musica che 
quasi quotidianamente componi per le 
proiezioni e la musica che hai composto, 
ad esempio, per ilfilm dì Lubitsch? 

Nel primo caso siamo in presenza di 
un’improvvisazione, di una composi¬ 
zione istantanea che è il risultato di 
una serie di conoscenze acquisite come 
la memoria, il bagaglio di formule mu¬ 
sicali, la tecnica dello strumento, ecc. 
che precipitano in musica nel momen¬ 
to in cui s’instaura un rapporto con le 
immagini. 

Nel secondo caso la composizione di¬ 
venta un atto più mediato, riflesso di 
elaborazioni successive che possono 
portare anche ad un allontanamento 
dal lessico più usuale del musicista, ad 
una ricerca di elementi nuovi, ad una 
maggiore complessità formale e ad 
un’articolazione più precisa. Il lavoro 
risulta in questo caso più lungo: per 
quanto riguarda Die Bergkatze’ la pri¬ 
ma stesura è durata poche settimane, 
con una elaborazione successiva di cir¬ 
ca tre mesi per mettere a punto tutti i 
particolari. 

Abbiamo assistito durante il festival alla 
proiezione del film greco O Magos Tis 
Athinas (Achilleas Madras, 1922- 
1931), che comprende una serie di episodi, 
abbastanza scollegati tra loro, riguardan¬ 
ti l'irresistibile fascino sulle donne di un 
mago violinista. Come ti poni la prima 
volta difronte ad un film come questo? 

La frammentarietà di questo film mi 
ha posto la questione di restituire i 
nessi logici che erano venuti meno a 
causa di un problema di conservazio¬ 
ne. Ciò accade abbastanza spesso con i 
film delle origini e si presume che il 
musicista abbia abbastanza esperienza 
per decifrare tutto di un film - dal rit¬ 
mo ai tempi di montaggio, dalla reci¬ 
tazione allo stile di un’epoca - in mo¬ 
do da colmare o rendere superabili 



Marco Dalpane e l’Orchestra Musican nel Buio 





LE CITTA DEL CINEMA 


certe difficoltà di lettura. Per questo 
motivo io preferisco vedere almeno 
una volta il film prima dell’esecuzione 
dal vivo. Ma spesso non è possibile far¬ 
lo perché durante i festival la copia ar¬ 
riva a ridosso della proiezione. 

Gianluca Farinelli ha dedicato il suo in¬ 
tervento durante il seminario per gli eser¬ 
centi europei all'importanza dell'accom- 
pagnamento musicale dei film. Credi che 
sarebbe un modo per avvicinare il pub¬ 
blico più giovane al cinema muto utiliz¬ 
zare i suoni di oggi nell'accompagna¬ 
mento ? 

Per attirare i giovani verso il cinema 
muto credo sia necessario introdurli a 
ciò che stanno per vedere, parlare del 
film e del linguaggio cinematografico, 
non tanto utilizzare strumentalmente 
la musica per attrarli. Ciò detto, alcuni 
film si prestano sicuramente meglio di 
altri all’uso di linguaggi musicali mo¬ 
derni: uno fra tutti è, ad esempio, Me¬ 
tropolis (1927) di Fritz Lang, che con il 
suo carattere modernista e, al centro, 
un’idea utopica del futuro può prestar¬ 
si all’utilizzo di suoni contemporanei 4 . 
Il rischio è però che un loop elettroni¬ 
co imponga il suo carattere “moderno” 
a non importa quale film. La musica 
non è un linguaggio universale; tutto 
appartiene a un contesto. Gli accosta¬ 
menti di stili lontani e diversi tra loro 
devono partire da una profonda consa¬ 
pevolezza della cultura e della storia 
del cinema e della musica. 

Non credo quindi che sia necessario, 
per allargare il pubblico, accompagna¬ 
re i film con sonorità popolari tra i 
giovani, si rischierebbe un appiatti¬ 
mento e forse la perdita del pubblico 
che ora popola i festival dedicati al ci¬ 
nema muto. Nella scena musicale la 
questione della pluralità dei linguaggi 
è centrale da almeno trent’anni e non 
può essere risolta con semplici dichia¬ 
razioni d’intenti o con una program¬ 
matica adesione a uno stile piuttosto 
che a un altro. 

Serena Aldi 


Note 

1 La pubblicazione degli atti è prevista per la pri¬ 
mavera del 2008. 

2 Per ulteriori notizie si veda il sito 
http://www.marcodalpane.com. 

3 La composizione della musica e la prima regi¬ 
strazione sono del 2000. 

4 Lo stesso Dalpane ha composto per Metropolis 
una colonna sonora utilizzando suoni elettronici. 


XII Pusan International Film 
Festival (PIFF) 

Pusan, 4-12 ottobre 2007 

Asia: le nuove correnti vengono 
da Sud Est 


Vi sono dei festival che rimangono 
impressi nella memoria come occasio¬ 
ni di un’epifania, lo svelamento di 
un’opera la cui eccellenza lascia varie 
spanne indietro tutto il resto che s’è in 
tal occasione visionato e che annuncia 
un talento così vivido che se già im¬ 
pazienti di rivisitarne le doti in film a 
venire. La XII edizione del Festival 
Internazionale di Pusan, principale 
vetrina cinematografica del continen¬ 
te asiatico, rimarrà certo memorabile 
per la rivelazione di un’opera di cui si 
sentirà ancora molto parlare nei mesi 
a venire, in vista del suo ingresso nel 
circuito festivaliero europeo ad inizio 
2008 (prima tappa a gennaio in con¬ 
corso all’International Film Festival 
Rotterdam), Wonderful Town (2007) 
di Aditya Assarat. Un film invero e 
quasi tautologicamente meraviglioso, 
costruito su una ricerca espressivo- 
formale intesa a captare l’atmosfera di 
un luogo, il suo fascino, il suo mistero, 
la sua minaccia ben al di là del narra¬ 
tivo e del verbale: la condensazione 
dello spirito, dell’anima di un abitato e 
degli spazi limitrofi attraverso suoni e 
immagini la cui sublime bellezza non 
è mero compiacimento estetico, ma 
tessitura di una trama d’immagini che 
riproduce quasi matericamente la pe¬ 
sante umidità dell’aria, la sonnolenta 
quiete di una città che ha vissuto tem¬ 
pi migliori e una sensualità diffusa che 
s’insinua tra inquadratura e inquadra¬ 
tura e prorompe in flutti che avvilup¬ 
pano allorché la camera prende a 
muoversi. Giustissimo che questo pri¬ 
mo lungometraggio di un cineasta già 
molto apprezzato e premiato per i 
suoi lavori di cortometraggio e che si 
profila come, finalmente!, seconda 
grande firma di un vero cinema d’au¬ 
tore tailandese dopo Apichatpong 
Weerasethakul, abbia quindi vinto 
uno dei tre eguali New Currents 
Award della competizione per opere 
prime e seconde asiatiche. 
Condivisibile pure la scelta del premio 
per Flower in thè Pocket (2007) del ci¬ 
nese di Malaysia Liew Seng Tat, an¬ 
ch’egli già noto nel circuito festivalie¬ 
ro per una serie di corti che già sfode¬ 
ravano l’ironia pungente e sfrontata, 
ma mai volgare che si ritrova in que¬ 
sta cronaca d’infanzia all’insegna del¬ 
l’assenza parentale in parallelo alla 
cronaca di una paternità dimenticata 
che deve a sua volta sormontare un 
abbandono per ritrovarsi. Meno sod¬ 
disfacente, seppure davvero non mal- 



Flower in thè Pocket 



The Red Avm 



45 




r 


46 


LE CITTÀ DEL CINEMA 


vagio, il terzo vincitore, il cinese Life 
Track ( Guedo , 2007) di Jin Guang Hao 
che convince di più allorché si dilunga 
in una cronaca documentaria del quo¬ 
tidiano di un individuo nato senza 
braccia, mostrandoci come con de¬ 
strezza sormonti con l’utilizzo dei pie¬ 
di gli ostacoli ordinari della sua disabi¬ 
lità, ma che s’impantana in un costrut¬ 
to narrativo dalla significazione pesan¬ 
te, con tanto d’irrisolto trauma infan¬ 
tile per il protagonista e affrancamento 
di una figura femminile, clandestina 
nordcoreana, sordomuta e per di più 
sospetta di propagare il virus della 
SARS! Davvero troppo se si aggiunge 
poi che il film paga il supporto pro¬ 
duttivo di un altro coreano di Cina, 
Zhang Lu (regista di Grain in Ear, 
Mang Zhong, 2005, vincitore a Pusan 
2006, e di Desert Dream , Hyazgar, vi¬ 
sto in concorso a Berlino 2007) con 
strizzatine d’occhio stilistiche (si veda 
la sequenza che riproduce pedissequa¬ 
mente il finale di Grain in Ear) di con¬ 
gruità discutibile. 

La giuria presieduta dall’iraniano Da- 
riush Mehrjui e che includeva pure 
Cristian Mungiu e Lee Chang-dong 
ha comunque segnalato pure tre degli 
altri undici titoli in competizione, 
dando giusta e visibile conferma del¬ 
l’ottima levatura della selezione e po¬ 
nendo l’accento sulla vitalità e libertà 
d’espressione iniettate nelle cinemato¬ 
grafie d’Asia dall’utilizzo del digitale. 
Per contro, la giuria Rpresci ha prefe¬ 
rito per il suo riconoscimento un film 
girato in 35mm che vantava il timbro 
d’approvazione dell’Ufficio centrale 
del Cinema di Pechino, The Red Awn 
(Hongse Kanbaiyin, 2007) di Cai 
Shangjun. Niente di più inoffensivo e 
conservatore di un drammone ben re¬ 
citato, di solida scrittura e messinscena 
incentrato sull’(apparentemente) im¬ 
possibile riconciliazione tra padre e fi¬ 
glio divisi da uno strappo che suppor¬ 
ta l’abusata dicotomia tra una campa¬ 
gna ricettacolo dei buoni, sani valori 
tradizionali cinesi ed una città mere¬ 
trice ammorbata dal flusso del danaro 
e dalla modernizzazione-occidentaliz¬ 
zazione. Sconcertante, per davvero, 
quindi che la giuria dei critici interna¬ 
zionali abbia sostenuto una lavoro di 
levigata confezione, ma la cui proposta 
di cinema era la meno nuova tanto lin¬ 
guisticamente quanto a livello di signi¬ 
ficazione profonda di tutto il concorso. 
Meglio, molto meglio, le segnalazioni 
di merito della giuria per il vibrante 
Tribù del filippino Jim Libiran, che as¬ 
sembla un livido spaccato dei bas¬ 
sifondi di Manila attraverso i fram¬ 
menti di ventiquattrore nella vita di 
un quartiere segnato dai conflitti tra 
gang di strada, per l’etereo God Man 
Dog (Liu lang shen gao ren, 2007) della 
taiwanese Chen Singing, che scruta la 


XXVI Le Giornate del Cinema 
Muto 

Pordenone, 6-13 ottobre 2007 

Inedita Starevic 

In esclusiva per la XXVI edizione di 
Le Giornate del cinema muto, dalla Col¬ 
lezione di Léona Béatrice Martin Sta- 
rewitch (che conserva e restaura i film 
del nonno), a Pordenone si è tenuta 
un’inedita rassegna dell’opera di Ladi- 
slav Starevié. Grazie ad una selezione 
ragionata (che, sorprendentemente, 
propone tutte copie in 35mm), il Fe¬ 
stival ha restituito Starevié, se non al 
titolo di maestro assoluto dell’anima¬ 
zione russa, almeno al pantheon dei 
pionieri dell’animazione su scala euro¬ 
pea. Come i suoi contemporanei padri 
dell’effetto 3D (Méliès, Blackton, 
Cohl, de Chomon), Starevié (1882- 
1965) inizia, però, con un genere di¬ 
verso, e cioè con i film dal vero. Oriun¬ 
do polacco di Lituania, emigra in Rus¬ 
sia, dove lavora come impiegato, fino 
al 1911, anno in cui l’impresario 
ChanìSonkov lo assume, per sfruttarne 
il talento di fotografo (in specie per l’e¬ 
sposizione multipla) e di scenografo 
(addetto soprattutto ai costumi da ma- 
squerade). Promosso alla regia, Starevié 
si scopre inadatto al lavoro con l’atto¬ 
re. Perciò si specializza piuttosto nel 
film a passo uno, dove dirige coleotte¬ 
ri, cicale e scarabei e rane in plastilina 1 , 
che conforma al gusto coevo, umaniz¬ 
zandoli e travestendoli. Nel suo labo¬ 
ratorio, fabbrica fino a 500 maschere 
(da ripresa a mezzobusto) per ciascuna 
bambola e filma due metri di pellicola 
all’ora, ammesso che nella scena appaia 
un unico personaggio; per i primissimi 
piani, trucca invece le bambole come 
vere e proprie attrici viventi 2 . In La 
vendetta del cameraman (Mest’ kinema- 
tograficeskogo operatora, 1911), la cicala 
operatore di pipe-show, a tempo perso, 
anche pittore bohèmienne (con il cap¬ 
pello a tesa larga, tipico dei simbolisti) 
agita il quieto vivere di una serena 
coppia borghese di scarafaggi. In II 
Natale degli insetti (Roidestvo obitatelei 
lesa, 1911), una bambola di porcellana 
sogna 0 leggendario Ded’moroza (alias 
Babbo Natale) mentre tramuta insetti 
in aiutanti. Di ceto poverissimo, Stare¬ 
vié, nel 1917, accetta il compromesso 
con Chanzonkov, e si trasferisce agli 
studi secessionisti di Jalta. Sull’onda 
dell’esodo bianco, nel 1920, si stabilisce 
infine a Parigi. Qui si apparta nella vil¬ 
la di Fontenais-sous-bois, con la mo¬ 
glie Anja (che cuce i costumi per le 
animazioni) e la figlia Nina (Nina 
Star) vera e propria attrice del periodo 
parigino, e la seconda figlia Irina, sua 
assistente, aiutante e sceneggiatrice. 
Saltando a piè pari gli sconvolgimenti 
russi del ’17-’20, e isolandosi, parimen¬ 


ricerca di spiritualità di un manipolo 
di personaggi di diversa estrazione et¬ 
nica e sociale nel sincretico e spurio 
paesaggio religioso della Taiwan d’og¬ 
gi, e per il sensibile film al femminile 
Asyl (2007) del giapponese Kumasaka 
Izuru. 

Da segnalare in negativo sono, per 
contro, le nuove proposte coreane, le 
cui debolezze danno da pensare. Milky 
Way Liberation Front (Eunha-haebang- 
jeonseon, 2007) di Yoon Seong-ho 
(opera prima) e My Song Is... (Na-eui 
Norae-neun..., 2007) di Ahn Seul-ki 
(secondo film) non solo erano le due 
opere più sbilanciate e acerbe della 
competizione, ma condividevano pure 
un repertorio tematico - quello che fa 
leva su giovani che vogliono fare cine¬ 
ma, le loro difficoltà nel realizzare i 
propri film e i loro problemi di cuore - 
sintomatico di un ripiegamento ombe¬ 
licale nelle nuovissime leve del cinema 
di Seoul e dintorni. Il successo interno 
e internazionale del nuovo cinema co¬ 
reano ha fomentato una sentita cultu¬ 
ra cinefila, tinta pure di questionabili 
venature di rivalsa nazionalistica, por¬ 
tando sempre più giovani a tentare la 
strada del cinema: ma questi giovani 
hanno qualcosa da raccontare al di là 
delle esperienze/peripezie proprie (o 
di proiezioni finzionali) nel tentativo 
di mettere in piedi un film o di farsi 
una fidanzata? Il cinema coreano dei 
tardi anni Novanta e d’inizio decennio 
ha costruito la sua grandezza su una 
decostruzione spesso distopica del pa¬ 
norama culturale e politico della Corea 
del Sud contemporanea; oggi, assistia¬ 
mo invece ad un riflusso in debito 
d’osservazione/critica del reale (o, an¬ 
cor peggio, di un qualsivoglia altro da 
sé) di cui i film di Yoon e Ahn sono so¬ 
lo i più recenti esempi. Che si possa 
definitivamente apporre la parola fine 
ad un’importante stagione del recente 
cinema mondiale? 

Paolo Bertolin 


ti, dall’ambiente francese (di cui non 
assimila la lingua, quasi abolendo la 
didascalia), Starevié riprende qui la 
sua fabbricazione di sculture lignee, 
articolate e ricoperte di pelle di camo¬ 
scio (adattate al corpo dell’insetto o 
dell’animale antropomorfo). Tuttavia, 
pur mantenendo i tratti arcaicizzanti 
delle byline russe, Starevié immette 
ora nel suo repertorio nuovi personag¬ 
gi: ecco che appaiono les marionettes 
(bambole di porcellana, a molla* sol¬ 
datini di piombo). I corti del periodo 
francese testimoniano così di un ori¬ 
ginale amalgama di culture. All’inter¬ 
no del melodramma inscenato dalla 
marionetta dagli occhi di vetro (tipi¬ 
camente occidentale), s’innesta lo 
sguardo e la mimica della scuola russa 
del Teatro d’Arte di Mosca. “Queste 
bambole hanno una testa talmente 
grande, che potrò mostrarle in primis¬ 
simo piano. Attori siffatti possono re¬ 
citare con gli occhi in modo che i loro 
pensieri siano chiari allo spettatore” 3 . 
In Lo spaventapasseri [L'Epouvantail, 
1921), demoniaci mostriciattoli in 
plastilina (frutto di un delirio etilista 
in stagione di vendemmia) giocano 
d’azzardo con un muìik, cui rubano 
l’anima, barando tramite una com¬ 
plessa rete di sguardi. In questo primo 
periodo francese, si avvertono forti re¬ 
miniscenze slave, che, a lato dei tratti 
più evidenti (gli scorci innevati con le 
isbe), rimandano sottilmente perfino 
agli eventi della rivoluzione russa. Co¬ 
sì in Le rane chiedono un re (Les Gre- 
nouilles qui demandent un roi, 1922), si 
narra la catastrofica e sanguinosa pa¬ 
rabola politica che investe un fanto¬ 
matico regno di rane antropomorfe a 
partire dai moti “per la democrazia”, 
attraverso la fase del re buono, che 
però è un tronco inerte, e, non gover¬ 
nando, provoca infine l’anarchia, seda¬ 
ta dal “re cattivo”, ossia una cicogna 
che divora il suo stesso popolo. 

Dunja Dogo 


Note 

1. Natalja Nusinova, Kogda my v Rossiju vernjom- 
sja... y Mosca, NIIK, 2003, p. 261. 

2. Ladislav Stareviò dt. in Ibidem , p. 262. 

3. Ladislav Starevié dt. in Ibidem , p. 261 (tradu¬ 
zione mia). 


LE CITTA DEL CINEMA 


L’interazione tra narrazione e spa¬ 
zio in un film di fine Ottocento 


Una fortuita scoperta in un negozio di 
antiquariato, compiuta dai direttori 
della Lobster Films di Parigi, ha ripor¬ 
tato alla luce, nel marzo 2007, i nega¬ 
tivi di alcuni filmati realizzati in Me- 
dioriente attorno all’anno 1897 e, in 
buona parte, ispirati ad episodi della 
Bibbia. Alcuni di essi sono stati inseri¬ 
ti con il titolo di Bìble Lands Films nel 
programma delle Giornate del Cine¬ 
ma Muto, tornato nel Teatro Verdi di 
Pordenone dopo gli anni del forzato 
esilio di Sacile. 

Tra questi film ritrovati fortunosa¬ 
mente ce n’è uno, Saint Joseph Repoussé 
de Bethleem , che ci ha colpito partico¬ 
larmente, perché solleva alcuni inter¬ 
rogativi sulla relazione tra cinema del¬ 
le origini, narrazione e spazio. Esso, 
nonostante la brevità, sviluppa una 
narrazione lineare ed è privo di quelle 
attrazioni dal forte impatto visivo che 
costituiscono, in buona parte, il fulcro 
del cinema delle origini. Il rapporto di 
causa ed effetto che lega gli eventi rap¬ 
presentati è chiaro: alcuni personaggi 
in cammino (evidentemente il santo 
del titolo ed i suoi accompagnatori) 
giungono di fronte al portone di una 
casa, bussano, il custode o proprietario 
apre il portone e, dopo una breve con¬ 
versazione, li caccia in malo modo; i 
viandanti, perciò, si allontanano dalla 
casa riprendendo il loro cammino. 
Come sviluppa la narrazione l’autore 
del filmato, in un periodo in cui la 
scansione delle inquadrature ed il 
montaggio sono opzioni di là da veni¬ 
re? Tale autore (alcuni indizi fanno 
pensare a Albert Kirchner, in arte 
Lèar) architetta una sola inquadratura 
valorizzando in chiave narrativa lo spa¬ 
zio in profondità e lo spazio laterale. 
Questo processo di accumulazione 
narrativa su una singola inquadratura 
diventerà usuale negli anni successivi, 
fino a quando il montaggio e quello 
che Noèl Burch ha definito il Modo di 
Rappresentazione Istituzionale 1 di¬ 
venteranno predominanti. 

Sullo schermo scorgiamo i viandanti 
che dalla zona centrale dello sfondo, 
camminando su una strada, si avvici¬ 
nano verso il primo piano: il movi¬ 
mento in avanti ci suggerisce il loro 
lungo cammino e va inscritto in quella 
valenza narrativa della profondità di 
spazio cui abbiamo accennato (si badi 
bene: parliamo della profondità di spa¬ 
zio, e non della profondità di campo). 
Tuttavia, un grande problema si pre¬ 
sentò agli autori della pellicola nel mo¬ 
mento in cui fu adottata una soluzione 
del genere: come indirizzare l’occhio 
degli spettatori verso dei personaggi 
che appaiono, inizialmente, in lonta¬ 


nanza e dunque piccoli? La risposta a 
questa domanda ci permette di capire 
come tanto la scelta del luogo delle ri¬ 
prese quanto la disposizione degli at¬ 
tori al suo interno testimonino una ac¬ 
curata pianificazione. Sono, infatti, al¬ 
meno tre i fattori che guidano il nostro 
occhio verso i viandanti: 
la strada dove essi si muovono è retti¬ 
linea e taglia centralmente l’inquadra¬ 
tura; 

il muro di cinta della casa verso cui i 
viandanti si stanno recando (la casa è 
posizionata nella parte sinistra dell’in¬ 
quadratura) costeggia la strada, facen¬ 
do sì che le Enee che ne tracciano le 
estremità convergano verso l’area cen¬ 
trale dello sfondo; 

un bambino collocato nell’area più vi¬ 
cina allo spettatore, indicativamente 
nella parte centrale dell’inquadratura, 
non essendo rivolto verso la macchina 
da presa e non svolgendo un’azione di 
rilievo, spinge la nostra attenzione al¬ 
trove, con la conseguenza di dare mag¬ 
giore peso visivo ai personaggi che si 
muovono in lontananza. 

Una volta che il santo ed i suoi accom¬ 
pagnatori hanno risalito la strada, vie¬ 
ne sfruttato lo spazio laterale per por¬ 
tare avanti la narrazione: essi si sposta¬ 
no prima sul lato sinistro dell’inqua¬ 
dratura, dove si trova il portone della 
casa, poi sul lato destro quando ripren¬ 
dono il cammino. Dato che, nello svol¬ 
gimento di questi eventi, l’inquadratu¬ 
ra non è più centrata, forse la presenza 
del bambino serviva anche a mantene¬ 
re un bilanciamento visivo (d’altronde, 
la sua presenza, che sia involontaria o 
meno, può acquisire anche un valore 
concettuale, mettendo in mostra egli 
una quotidianità ordinaria - ed un 
senso di appartenenza al luogo rappre¬ 
sentato - che i viaggiatori, data la loro 
transitorietà, non possono vantare). 
Sottolineiamo anche che, se la memo¬ 
ria non ci inganna, i personaggi vengo¬ 
no fatti uscire di campo, evidentemen¬ 
te per suggerire il proseguimento del 
loro cammino; anche lo spazio fuori 
campo, quindi, sembra essere stato 
preso in considerazione con una fina¬ 
lità narrativa ben precisa. 

Roberto Vezzani 


Note 

1. Facciamo naturalmente riferimento a Noèl 
Burch, Il lucernario dell'infinito. Nascita del lin- 
guaggio cinematografico , Parma, Pratiche Editrice, 
1994. 



Mesi’ kinematograficeskogo operatora 



Le pellicole dei Bìble Lands Films 


47 





LE CITTA DEL CINEMA 


48 


II Cinema - Festa Intemaziona¬ 
le di Roma 

Roma, 18-27 ottobre 2007 

Riflessi in uno specchio oscuro 

Onora il padre e la madre (Before thè 
DeviiKnows Youre Dead, Sidney Lu- 
met, 2007) 

Alcune volte il cinema lo guarda, altre 
volte fa in modo che ci guardi. In un 
caso o nell’altro il Male abita le imma¬ 
gini dell’ultimo film di Sidney Lumet, 
rendendole di volta in volta irresistibi¬ 
li o intollerabili. Before thè Devii 
Knows You’re Dead si infila sotto la pel¬ 
le e appanna nel ricordo gli altri film 
che hai visto nella stessa giornata. I fe¬ 
stival funzionano anche così: schiac¬ 
ciano un film sull’altro, fanno sbiadire 
certe immagini e te ne imprimono al¬ 
tre negli occhi e nel cuore. La sera non 
hai quasi più voglia di vedere il film 
che aspettavi con ansia, il tuo buio lo 
hai già incontrato di giorno alla proie¬ 
zione di Before thè Devii Knows You’re 
Dead, e ti senti satollo e appagato. Le 
sue immagini ti riattraversano, ritorna¬ 
no. La lucidità vacilla come lo sguardo 
drogato di Philip Seymour Hoffman e 
a quel punto ti perdi davvero nel buio. 
Una volta si sarebbe detto che stavi al¬ 
largando i confini della coscienza. Ora 
invece senti che sei soltanto nel ventre 
oscuro dell’Auditorium del Festival di 
Roma. Before thè Devii Knows You’re 
Dead prende in prestito il titolo da un 
vecchio adagio irlandese {May you he 
in heaven half an hour before thè Devii 
knows you’re dead), che accompagna il 
disfacimento morale-economico di 
una “buona” famiglia americana e che 
rammenta allo spettatore che il tempo 
è in ogni caso dalla parte del male. 
Perché il tempo misura, col suo scorre¬ 
re inesorabile, la dimensione del limite 
terreno, sancendo con forza l’inappel¬ 
labile finitudine dell’essere umano 
contro la ciclicità eterna della condi¬ 
zione infernale, per cui ciò che accade 
a uno dei fratelli Hans è già accaduto 
all’altro ed è destinato ad accadere di 
nuovo e di nuovo. La destrutturazione 
temporale impiegata da Lumet, il 
montaggio di molteplici sguardi, che 
sono poi lo stesso sguardo, non sono 
mero mestiere. Ma procediamo con 
ordine. Andy e Hank sono fratelli, di¬ 
versamente infelici e diversamente di¬ 
sperati. Per potere fare fronte a impel¬ 
lenti problemi finanziari - Andy ha at¬ 
tinto dalle casse della sua società i sol¬ 
di per drogarsi e per mantenere uno 
stile di vita elevato, Hank è sempre in 
ritardo sui pagamenti degli alimenti e 
vorrebbe iscrivere la figlia ad un’esclu¬ 
siva scuola privata - i due escogitano 
di rapinare la gioielleria dei genitori la 
mattina presto, quando in negozio ce 


soltanto la commessa addetta all’aper¬ 
tura. Il piano approssimativo ed ele¬ 
mentare, progettato da Andy e “assol¬ 
to” da Hank, fallisce drammaticamen¬ 
te, innescando una spirale di violentis¬ 
sime e tragiche conseguenze. Before thè 
Devii Knows Youre Dead genera così 
due ore di dramma scespiriano non di¬ 
chiarato, immergendo paesaggi e pro¬ 
tagonisti in una tragedia immensa. La 
follia implacabile dei personaggi e del¬ 
la storia diegetica converge con la sua 
struttura: Lumet inscena in accordo a 
quello che inscena. Una regia che 
guarda e riguarda, mai stanca e remis¬ 
siva nei confronti della materia. 
Grammatica e contenuto cortocircui¬ 
tano insieme alle menti e alle azioni 
dei personaggi. Lumet costruisce e ri¬ 
costruisce all’infinito la rapina dei fra¬ 
telli Hanson attraverso i momenti che 
l’hanno preceduta e attraverso le ore 
immediatamente successive, restituen¬ 
do più punti di vista e ricomponendo i 
pezzi senza catarsi. Lumet, come il 
Kubrick di Rapina a mano armata ( The 
Killing, 1955), dirige senza partecipa¬ 
zione la distruzione delle illusioni dei 
suoi personaggi. Before thè Devii 
Knows You’re Dead mutua l’epica grot¬ 
tesca dei Soldi Sporchi {A Simple Pian, 
1998) di Sam Raimi, caposaldo recen¬ 
te di quel genere in cui ogni azione te¬ 
sa a nascondere un defitto non può che 
provocare una catena di conseguenze 
sempre peggiori. Sidney Lumet non 
emette un giudizio morale, limitando¬ 
si a mostrare gli avvenimenti dalla par¬ 
te di ciascun personaggio, lasciando al¬ 
lo spettatore-giurato l’onere della sen¬ 
tenza e della conclusione. Before thè 
Devii Knows Youre Dead, che esce in 
Italia con il curioso titolo (si fa per di¬ 
re) Onora il padre e la madre, come tut¬ 
to il suo cinema è caratterizzato da 
un’abile commistione di autorialità e 
mainstream\ l’uomo ancora una volta è 
sopraffatto da eventi più grandi di lui, 
bigger than life, come accadeva nella 
rapina di Quel pomerìggio di un giorno 
da cani (Dog Day Aftemoon, 1975) o 
sulla Collina del disonore {The Hill, 
1965). La scenografia urbana è irrico¬ 
noscibile e proprio questa incoerenza 
spaziale è l’indizio più evidente del di¬ 
sorientamento dei protagonisti. La 
città perde la sua logica topografica 
per diventare specchio dell’interiorità 
turbata e malata del personaggio inter¬ 
pretato da Hoffman. Andy, più di ogni 
altro nel film, lascia emergere il “pri¬ 
ma” della famiglia Hanson, che ha 
messo radici ed è pronto ad esplodere. 
La sua capacità percettiva, alterata dal¬ 
la cocaina sparata direttamente in ve¬ 
na, intensifica l’esperienza di uno spa¬ 
zio labirintico e surreale su cui plana¬ 
re, dentro il quale muoversi quasi al¬ 
leggerito dalla pesante corporeità. La 
figura archetipica del labirinto viene 


ribadita e confermata dalle scenogra¬ 
fie: i corridoi dell’ufficio di Andy, del 
suo appartamento, dell’ospedale in cui 
madre e figlio verranno ricoverati, 
tracciano il percorso rituale del suo 
personaggio. Il labirinto è la materia¬ 
lizzazione del luogo in cui ci si può 
smarrire, dove la via si frantuma e si 
biforca nascondendo l’inganno, è 
esemplificazione iconografica dell’av- 
venuta perdita del centro, è erranza 
senza direzioni. Before thè Devii Knows 
You’re Dead è un elogio del disordine 
labirintico, che scopre il valore dell’in¬ 
terferenza, del caso e della disconti¬ 
nuità. Dissipando l’ombra del diavolo e 
della senilità, Sidney Lumet dirige un 
film sull’abisso domestico come non 
riesce ormai alla media del cinema sta¬ 
tunitense. Al contrario di Mystic River, 


in cui il nucleo familiare resta coeso 
ad ogni costo, in Before thè Devii 
Knows Youre Dead crolla in verticale e 
consuma l’esecuzione in seno alla fa¬ 
miglia. Il padre di Albert Fmney. rag¬ 
giungerà il figlio al centro del labirin¬ 
to, nel luogo sacro in cui si celebra il 
sacrifìcio. Il diavolo non ha corpo. Il 
diavolo, piuttosto, è in corpo. Nel figlio 
che “uccide” la madre, nel padre che 
soffoca il figlio. Nessuna esitazione, 
nessuna pausa pietosa di fronte all’a¬ 
more. 

Marzia Gandolfì 



Onora il padre e la madre 



Onora il padre e la madre 








LE CITTA DEL CENEMA 


VII Science + Fiction - Festival 
Intemazionale della Fantascienza 

Trieste, 12-18 novembre 2007 

Effetti speciali, mozzarelle e 
“cattiveria” spagnola 

La Hora Fria (Elio Quiroga, 2006) 
Cronocrimenes (Nacho Vigalondo, 
2007) 

Anche quest’anno si è tenuta, con rin¬ 
novato successo, la manifestazione de¬ 
dicata all’esplorazione dei mondi del 
fantastico, organizzata dal centro ri¬ 
cerche e sperimentazioni cinemato¬ 
grafiche del capoluogo giuliano La 
Cappella Underground. Il Scien- 
ce+Rction festival, dal 2005 membro 
dell’European Fantastic Rim Festivals 
Federation, consorzio che riunisce le 
principali rassegne del genere nell’UE, 
si è contraddistinto nella sua settima 
edizione per una consistente presenza 
di pubblico a dimostrazione dell’ormai 
piena maturità raggiunta dalla ker¬ 
messe. 

Ad aprire il palinsesto, Metropoli 
(1927) di Fritz Lang presentato, con 
accompagnamento musicale dal vivo, 
nella versione restaurata del 2001. Ma 
non è stato questo il solo omaggio alla 
produzione di genere sci-fi degli albo¬ 
ri della cinematografia: merita, infatti, 
di essere citata la proiezione di un al¬ 
tro film muto, Adita (1924) di Yakov 
Protazanov, considerato il primo Ko¬ 
lossal sovietico di fantascienza. Un’a¬ 
stronave conduce su Marte due intre¬ 
pidi sovietici, Gusev, un soldato della 
Rivoluzione d’Ottobre, e l’ingegnere 
Los, i quali vi scoprono un mondo abi¬ 
tato da umanoidi tiranneggiati dalla 
bella regina Aelita e da un’oligarchia di 
anziani. Decidono, allora, di porsi alla 
testa del popolo del pianeta allo scopo 
di rovesciare la classe dominante mar¬ 
ziana. Il film, curioso tentativo di 
esportare a livello interplanetario i 
principi della rivoluzione comunista, è 
stato presentato in una nuova sezione, 
Marx Attacks!, la quale prende il via 
proprio con questa edizione del festi¬ 
val e che, in occasione del cinquante¬ 
nario dell’impresa dello Sputnik, inau¬ 
gura un ciclo dedicato alla Science fic- 
tion prodotta nei paesi dell’Europa 
dell’est. A comporre quella che si rive- 
ila essere una delle monografìe di gene 
re più complete mai realizzate, le pelli 
cole recentemente presentate all’Ame- 
rican Cinematheque di Los Angeles, 
in una retrospettiva intitolata From 
The Tsars To The Stare: A Journey Th- 
rough Russimi Fantastic Cinema, più il 
significativo apporto dello storico fon- 
do di pellicole dell’Associazione Italia- 
URSS conservato presso la Cineteca 
di Bologna. 


Altra sezione dedicata è Voyage Fanta- 
stique , che dopo l’omaggio a Jules Ver- 
ne nel 2005, e la retrospettiva Nouvel- 
le Vague e Science Fiction del 2006, si 
è rivolta quest’anno agli incroci tra il 
cinema di fantascienza francese e il 
mondo del fumetto, presentando film 
di animazione della portata de II pia¬ 
neta selvaggio {La Planète sauvage, 
René Laloux, 1973). Ospite d’eccezio¬ 
ne Jean Giraud, in arte Moebius, gran¬ 
de artista del fumetto, coinvolto anche 
nella realizzazione di capolavori sci-fi 
come Alien (Ridley Scott, 1979) e II 
quinto elemento {Le Cinquème element, 
Lue Besson, 1997). 

Momento centrale della manifestazio¬ 
ne rimane, però, la sezione Neon, in vi¬ 
sta dell’assegnazione del premio Aste¬ 
roide, destinato al miglior lungome¬ 
traggio in concorso. Iniziato nel 2004 
e dedicato ai talenti emergenti, nelle 
passate edizioni il concorso è stato ric¬ 
chissimo di film a medio e basso costo, 
mentre quest’anno ha presentato 
un’ampia selezione di opere firmate da 
giovani registi che hanno potuto con¬ 
tare su budget piuttosto consistenti, 
sintomo, forse, di una riconquistata fi¬ 
ducia delle case di produzione verso il 
genere sci-fi. Esempi di questa nuova 
tendenza il noir iper-tecnologico fran¬ 
cese Chrysalis (Julien Leclercq, 2007), 
il russo The Sword Bearer {Mechenosets, 
Philipp Yankovsky, 2006), il wu-xia- 
pian finlandese che ricostruisce su at¬ 
mosfere orientali il poema epico nor¬ 
dico “Kalevala” Jadesoturi (Antti-Jussi 
Annida, 2006), e lo spagnolo La Hora 
Fria (2006) di Elio Quiroga, prodotto 
ambizioso, sebbene non pienamente 
riuscito, in cui i notevoli effetti specia¬ 
li sono abilmente distribuiti, senza gli 
abusi e gli sfoggi gratuiti presenti in 
molte delle altre pellicole in concorso. 
Nel film, otto superstiti di una generi¬ 
ca guerra definitiva vivono rinchiusi in 
un labirintico complesso sotterraneo, 
circondati da aree contaminate abitate 
da esseri mutanti, ed entità di ancor 
più oscura provenienza che vengono a 
dare loro la caccia la notte, durante l’o¬ 
ra più fredda appunto, attratti dal ca¬ 
lore dei corpi. Tra le necessità più ele¬ 
mentari per la sopravvivenza e i peri¬ 
coli esterni, saranno piuttosto gli odi, 
le rivalità e le piccole e grandi meschi¬ 
nità degli stessi otto a dividere il grup¬ 
po condannandolo irrevocabilmente e 
con esso l’umanità intera. 

Nonostante questo diffuso, rinnovato 
interesse per l’effetto speciale delle 
produzioni sci-fi, la scelta del vincitore 
del concorso da parte della giuria è ri¬ 
caduta, invece, sul film che più di tutti 
se ne è tenuto lontano, premiato, anzi, 
proprio “per la sua capacità di dimo¬ 
strare che anche con un piccolo budget 
si possono raccontare delle storie 
straordinarie”. Si tratta di un’altra pel¬ 


licola spagnola, Cronocrimenes (2007) 
di Nacho Vigalondo, primo lungome¬ 
traggio del giovane regista che nel 
2005 è stato in corsa agli Oscar con il 
corto 7.35 de la manana. Héctor, nel 
giardino di casa, è improvvisamente 
attratto dalla figura di una bella ragaz¬ 
za in atteggiamento bizzarro. Incurio¬ 
sito, si mette a cercarla, ma una volta 
scovatala priva di conoscenza in un 
bosco adiacente, si trova a fuggire a sua 
volta da un misterioso uomo con il vi¬ 
so coperto da una bendatura rosa ed 
armato di un paio di forbici. Nella fo¬ 
ga trova riparo in un misterioso labo¬ 
ratorio dove un giovane scienziato, in¬ 
terpretato dallo stesso regista, si offre 
di aiutarlo nascondendolo in una sorta 
di cisterna che, però, trasporta il prota¬ 
gonista in un vero e proprio incubo 
temporale e lo rende, di volta in volta 
nel suo ripetersi, un uomo peggiore, 
dentro e fuori. Héctor, infatti, nel di¬ 
sperato tentativo di tornare alla nor¬ 
malità, si trova a compiere azioni sem¬ 
pre più orribili, mentre le brutture dei 
suoi crimini si riflettono sul suo stesso 
aspetto, permettendoci di capire, nel¬ 
l’intrico della vicenda, quale Héctor 
(numero 1, 2 o 3) stiamo osservando. 
Più vicino al genere fantastico di certe 
puntate di Ai confini della realtà che al¬ 


l’ambito fantascientifico vero e pro¬ 
prio, il film riesce a ricreare con pochi, 
semplici mezzi (la futuristica macchi¬ 
na del tempo è, nella realtà, un’appa¬ 
recchiatura per produrre mozzarelle) 
un’atmosfera angosciosa che conquista 
lo spettatore e lo trasporta assieme al 
protagonista, in un eterno ritorno la 
cui soluzione giungerà inaspettata. 
Vincitrice morale del festival è stata, 
però, la cinematografia spagnola tutta, 
distintasi nel corso della manifestazio¬ 
ne per originalità e voglia di osare, tan¬ 
to da meritarsi un’intera giornata ad 
essa dedicata, coronata dalla proiezio¬ 
ne notturna di Ree (2007) di Jaume 
Balagueró. Elemento comune dei film, 
nella loro pur notevole diversità, una 
dominante fatta di pessimismo ed 
egoismo. La “cattiveria” che li attraver¬ 
sa, anche se mai gratuita e sempre mo¬ 
tivata da necessità di vario tipo, la fa da 
padrona, e queste pellicole, bea lungi 
dal farsi portatrici di qualsiasi senti¬ 
mento di solidarietà, diventano le in¬ 
terpreti più puntuali della massima 
mors tua vita mea a fornire un ritratto 
impietosamente feroce della natura 
umana. 

Laura Sangalli 



Cronocrimenes 



La Hora Fria 

















LE CITTA DEL CINEMA 


XXV Torino Film Festival 

Torino, 23 novembre-1 dicembre 
2007 

Il cielo sopra Torino 

Secondo i tabloid locali il festival non 
è mai andato così bene: gli albergatori 
sono in festa, Wim è in festa. Rutelli 
accorre per apporre le mani e benedire 
la comunità giornalistica. Sottotitolo: 
“palombella rosa”. Tutti esultano sotto 
l’occhio di bue (ed anche un po’ porci¬ 
no) richiamato dalla presenza del pa¬ 
tron di questa nuova edizione festiva¬ 
liera: stirata, inamidata ed epurata. To¬ 
rino is calling. L’“edizione zero”, come 
l’hanno spericolatamente ribattezzata 
gli organizzatori, vorrebbe bruciare le 
tappe: di certo sorge da dibattute ce¬ 
neri. Quest’Araba Felice, che a noi è 
sembrata un po’ spelacchiata, si è mo¬ 
strata vagamente ostile verso quei 
molli esteti dei cinefili, progettata così 
com’è se si vuole “tonicamente”, ossia a 
godimento della cittadinza... (a chi 
interessa: si guardi la pregressa querelle 
sulle finalità e destinazioni della “visi¬ 
bilità mediatica” del festival, e del “ri¬ 
cambio generazionale” del suo CDA, 
in particolare l’articolo di Roberto 
Alonge “TFF e TST: Prof, Politici e 
Taxisti”, sapido scorcio che fotografa 
guelfi e ghibellini della città sabauda e 
non solo; da cui la replica di Franco 
Prono: “Polemiche (sanguinose). Cul¬ 
tura e assessori: solo ufficiali pagato¬ 
ri?” 1 . La direzione ha sbandierato cifre 
abbaglianti su incassi ed affluenza di 
pubblico. Ricapitolando: un festival 
concepito come rassegna culturale, un 
collettore di film “vincenti” apparsi in 
altri festival. Pingue, il botteghino. 
Due nuove sezioni: “La zona” e “Lo 
stato delle cose”. Meno anteprime e 
più prime. Tante, tante, tante confe¬ 
renze stampa. E la diligenza arriva a 
dovuta destinazione nello scenario 
cultural-pop allargato voluto da 
Chiamparino. 

A proposito di stelle di latta: mentre in 
quel di Petronia si facevano scintille, in 
montaggio parallelo “Chiampa” depu¬ 
rava l’assetto urbano dai cascami del¬ 
l’esperienza centrosocialista. Ma nes¬ 
suno ha battuto ciglio. Quella era 
un’altra sezione del festival: “La Zona 
Sgomberata”. Rimanendo in tema di 
guastatori vado a vedermi l’ultimo re¬ 
stauro di Maciste. Questa volta il for¬ 
zuto fascista è calato nella gabbia dei 
leoni 2 . Astuto Brignone. Tra-guarda 
pagane (di Pagano, Bartolomeo) esibi- 
zìonì attraverso le sbarre della gabbia, 
in modo da comporre una baziniana 
coalescenza di uomo ferino + fiera cìr- 
Ctìftòfc. Qf cinema è un ibrido tra ' 
\Verni ii-tllm . ( .i coloniali - 

'i con tw nt io* di 'ii 
gretti cortei Mod pie tu f \nonimo 


Pittaluga, produttore del film, non 
aveva colpa. Chi qualche colpa ce l’ha 
sono, a nostro avviso, i Marlene Kuntz, 
colti da anomala passione per la sono¬ 
rizzazione del cinema muto. I nostri 
eroi non hanno ancora ben inteso co¬ 
me produrre le loro eiezioni musicali 
in rapporto a un film muto: la loro 
concezione a tal proposito è quella di 
un pannello colorato (l’immagine 
schermica) sullo sfondo come bersa¬ 
glio di eroiche/erotiche improvvisa¬ 
zioni (che puntualmente seguono una 
prevedibile linea a zig-zag: climax/an¬ 
ticlimax, esplosione e poi rilascio). Per 
queste cose, intendo le esplosioni rock, 
meglio certi foschi documentari etno¬ 
grafici degli anni Venti che sanno me¬ 
no di “illuminotecnica” prestata alla 
rockstar in vena di concedersi svoglia¬ 
tamente nell’ambito della propria so¬ 
nica taumaturgia. 

Percorro l’angusta stradicciola battuta 
da maligne rasoiate di vento subalpi¬ 
no. Incombe dal cielo l’opprimente 
moloch antonelliano. Attratto dall’o¬ 
dore mangereccio cerco l’origine del 
segnale di fumo. Inseguo il tintinnare 
di posate. Infilo una porticina. Primo 
piano: mi ritrovo davanti a Nanni 
Moretti che mangia. Campo totale: 
locale decisamente “in”. Dettaglio: il 
menu propone cucina “fusion” o “nip- 
pomediterranea” (termine da aggiun¬ 
gere al “prontuario d’italiese”). Titoli 
di testa: Ecce Sushi. Volgo i tacchi. Per 
oggi il mio evento mondano è Alek- 
sandra (2007) di Aleksandr Sokurov. 
In un meriggio sovraesposto, tavoloz¬ 
za intinta dei colori della terra e della 
sabbia, si muove una donna anziana 
già in distacco dal mondo. Tra una ra¬ 
gnatela di sguardi maschili dell’eserci¬ 
to russo accampato nella Repubblica 
Cecena il suo corpo ed il suo volto di¬ 
ventano per ciascuno un simbolo di 
qualcosa d’altro da Sé, mentre il per¬ 
sonaggio vaga ramingo, disperso esi¬ 
stenzialmente, in cerca di una dialetti¬ 
ca immanente. Sullo sfondo le macerie 
del conflitto. In primo piano fram¬ 
menti di rapporti umani. Alexandra, 
interpretata dalla grande Gaiina Vish- 
neskaija (“ha un dono drammatico cu¬ 
stodito dentro di sé”, dice di lei il regi¬ 
sta) 3 , penetra in uno spazio, l’accam¬ 
pamento militare, bandito alle donne, 
riservato al soldato ed alla puttana. E 
la sua presenza si carica di un’ambi¬ 
guità sessuale livida, quasi intollerabi¬ 
le, di magnetismo inconsulto che gal¬ 
vanizza lo schermo. Misterioso trasfe¬ 
rimento di energia che solo pochi re¬ 
gisti riescono a compiere. 

Altre visioni, tra una flànerìe e l’altra. 
Nella sezione intitolata “Lo stato delle 
cose” viene presentato Viva (2006) di 
Anna Biller, omaggio a Russ Meyer ed 
al softcore anni Sessanta con pretese de- 
dinazioni femministe. Nella stessa se¬ 


zione spicca il bel documentario di Ju- 
lien Tempie dedicato a Joe Strummer: 
The Future is Unwritten (2007) ed il 
Godard più disfatto che disfattista 
proposto da Alain Fleischer. Difatti in 
Morceaux de conversations avec Jean- 
Luc Godard (2007) abbiamo un tricheur 
des images inedito, distante dall’astuto 
dosatore di Sé ammantato di malinco¬ 
nici riflessi che figurava in JLG/JLG. 
Autoportrait de Décembre (1995). Di¬ 
chiara Fleischer: “Abituato sempre a 
essere vincitore, in questa circostanza 
[Godard] appare quasi identificarsi 
nella vittima e alla fine risulta apparire 
come un vinto, un fallito”. 

Rientrano nelle altre iniziative del Fe¬ 
stival l’omaggio a Marco Ferreri, rievo¬ 
cato dalla presenza di Michel Piccoli, i 
duetti di Nanni Moretti con registi va¬ 
ri: Wim Wenders, Francesco Rosi, i 
fratelli Taviani... A preservazione di 
certi elementi di continuità c’è Joa- 
quim Jordà ed il nuovo lavoro di Yer- 
vant Gianikian e Angela Ricci Lucchi: 
Ghiro Ghiro Tondo (2007), ipnotico 
film-catalogo di giocattoli ormai de¬ 
composti, che può essere pienamente 
colto soltanto in relazione al lungo la¬ 
voro, di grande coesione e lucidità, dei 
due registi/sperimentatori. Chiamate¬ 
mi snob, o addirittura... cinefilo, ma 
per me la visione più bella è stata 
Razzie Dazzle. The Lost World (Ken 
Jacobs, 2006). Certo, si è trattato di 
un’esperienza non per tutti di cinema 
propriamente espanso, riallacciandoci 
alla tradizione tenuta a battesimo da 
Gene Youngblood. Film autopsia per 
un cinema stroboscopico: Razzie 
Dazzle è l’analisi e la rielaborazione 
grafica, a tratti affine all’arazzo o alla 
pittura informale, di un film Edison 
del 1903, il “dal vero” di una giostra. 
L’elaborazione viene interpolata da al¬ 
cune fotografie stereoscopiche tridi- 
mensionalizzate con un procedimento 
di sovrapposizione ad intermittenza. 
La figura di Ken Jacobs ha assunto 
un’importanza cruciale nel panorama 
artistico contemporaneo, non soltanto 
interessante perché si tratta di un arti¬ 
sta che lavora prevalentemente con 
film delle origini: la sua tecnica è al 
contempo coercitiva e maieutica. La 
ricompensa allo spettatore per questo 
long hard look avviene attraverso un 
percorso iniziatico, in questo caso reso 
ancora più duro da un possibile malin¬ 
teso: il film è stato proiettato nel silen¬ 
zio, sempre non silenzioso (sbuffi, fru- 
scii, russate), della sala, sebbene i titoli 
di coda annoverassero l’apporto di di¬ 
versi musicisti di rilievo. Ma va bene 
così, la proiezione in silenzio è prassi 
consueta per Jacobs che ha dichiarato: 
“When we talk about film we mostly 
consider thè movies. We mostly consi- 
der photoplay film theater with actors. 
There are a lot of other things where 


you meet up with thè problem of thè 
work and you surmount it and hope- 
fully you are rewarded with a new way 
of receiving pleasure” 4 . Bisogna preci¬ 
sare difatti che la proiezione cinema¬ 
tografica secondo Ken Jacobs è consu¬ 
stanziale all’esecuzione dal vivo. L’im¬ 
portanza di questo film è ponderabile 
nel momento in cui si pensa al cinema 
come all’ago di un compasso in equili¬ 
brio precario, sempre più lontano dal 
suo fulcro: “qualunque cosa dicano di 
se stessi i cineasti del cinema espanso, 
essi hanno il merito di averci sottratto 
all’abitudine (all’assuefazione) di esse¬ 
re condotti, sul sentiero delle emozio¬ 
ni, da registi-padroni che servendosi di 
un’arte illusionistica ci comandano 
quando ridere, piangere, commuoverci, 
indignarci” 5 . 

Davide Gherardi 


Note 

1. L’articolo di Roberto Alonge è reperibile pres¬ 
so Turin Dams Review. 

http://obelix.cisi.unito.it/turindamsreview/sezio 
ne.php?idart=15l&idsezione=22. La replica di 
Franco Prono si trova sullo stesso sito. 
http://obelix.cisi.unito.it/turindamsreview/sezio 
ne.php?idart=160&idsezione=22&idcat=2. 

2. Maciste nella gabbia dei leoni (Guido Brignone, 
1926). Copia restaurata dal Museo Nazionale del 
Cinema e dalla Cineteca di Bologna presso il la¬ 
boratorio “L’Immagine Ritrovata” di Bologna. 

3. Intervista di Aleksandr Sokurov riportata in 
Filmaker's. Daily Torino Film Festival, 27 novem¬ 
bre 2007, p. 2. 

4. Julie Hampton, “An interview with Ken Ja¬ 
cobs”, Millenium Film Journal, no. 32/33, Fall 
1998. Questa la traduzione fornita dalTUffico 
stampa del TFF: “Quando parliamo di cinema di 
solito pensiamo ai film. Nel senso di film con at¬ 
tori. Invece ci sono molti altri lavori in cui affron¬ 
ti dei problemi, li superi e sei ricompensato - si 
spera - con un nuovo modo di ricevere piacere”. 
Devo rilevare la non corretta traduzione del ter¬ 
mine photoplay , parola carica di una lunga storia 
teorica nel contesto americano. Letteralmente: 
“fotografìa animata”. 

5. Enzo Ungari, “Il cinema espanso”, in Schermo 
delle mie brame, Firenze, Vallecchi, 1978. 






Nuvole (parlanti) all’orizzonte 

Speciale Cinema e fumetto nel pano¬ 
rama contemporaneo 

A cura di Maurizio Buquicchio e Fe¬ 
derico Pagello 

Il presente speciale intende offrire una 
prospettiva teorica e analitica sul sem¬ 
pre più centrale rapporto fra cinema e 
fumetto nel panorama contempora¬ 
neo. Attraverso differenti approcci 
metodologici e la fecalizzazione su te¬ 
mi e tendenze specifiche, sarà possibi¬ 
le verificare la convergenza del lin¬ 
guaggio e delle strategie narrative del 
fumetto e del cinema americani, sia a 
livello maìnstream che indipendente. 
Per restringere il campo, daremo infat¬ 
ti risalto al prolifico cortocircuito veri¬ 
ficatosi negli ultimi anni a Hollywood 
fra due dei mezzi espressivi più popo¬ 
lari e caratteristici della cultura ameri¬ 
cana. Affiancando film tratti da fu¬ 
metti prodotti nel passato recente a 
nuovissime serie di comics ispirate a 
film e serie tv pubblicate negli ultimi 
mesi, verificheremo come lo scambio 
di stili, motivi e visioni fra i due im¬ 
maginari sia definitivamente reciproco 
ed “orizzontale”. 

Le traiettorie di influenza sono com¬ 
plesse e vanno in direzione sia di una 
sempre maggiore “cinematograficità” 
delle opere fumettistiche che di un ca¬ 
rattere “fumettistico” del cinema con¬ 
temporaneo, anche a causa di un con¬ 
tinuo interscambio di autori. Gli 
esempi potrebbero essere moltissimi: 
autori di fumetti che diventano registi 
(Frank Miller), sceneggiatori televisivi 
che scrivono fumetti (Josh Whedon: 
X-Men, J.M. Straczynski: Spider- 
Man ), sceneggiatori di fumetti che 
scrivono serie televisive (Bryan K. 
Vaùghan, autore del fumetto Y: The 
Last Man, i cui diritti sono stati acqui¬ 
stati da Time-Warner per un adatta¬ 
mento cinematografico, e da poco nel¬ 
lo staff creativo di Tosi), sceneggiatori 
che lavorano indifferentemente per il 
cinema, il fumetto e la televisione 
(Jeph Loeb: Voglia di vincere, Batman, 
Heroes), e un caso particolare ma em¬ 
blematico come quello dello scrittore 
Michael Chabon, vincitore di un pre¬ 
mio Pulitzer per un romanzo {Le av¬ 
venture di Kavalier e Clay ) in cui rein¬ 
venta un pezzo di Storia del fumetto e 
successivamente autore della sceneg¬ 
giatura dello Spider-Man 2 di Sam 
Raimi. Un aspetto particolare riguarda 
il peculiare e pressoché inedito incon¬ 
tro fra cinema indipendente america¬ 
no e fumetto underground. Se si esclu¬ 
dono isolati e poco discussi casi nella 
produzione degli ultimi anni (si veda il 
docu-film Grumb, prodotto da David 
Lynch e diretto da Terry Zwigoff nel 


1994), mai prima d’ora il cinema off- 
Hollywood aveva attinto così significa¬ 
tivamente all’immenso serbatoio di 
graphic novels, strisce e serie realizzate 
a partire dagli anni Settanta. 

I contributi ospitati nello speciale cer¬ 
cheranno di esplorare alcuni esempi di 
questa ricca produzione. Il primo in¬ 
tervento (“Capire il boom del cinefu- 
metto”, di Matteo Stefanelli) cerca di 
fornire uno sguardo d’insieme sul fe¬ 
nomeno, proponendosi di rispondere 
alle domande che si è costretti inevita¬ 
bilmente a porsi sulle sue origini. Gli 
altri articoli analizzano invece aspetti e 
testi specifici, scelti anche per rappre¬ 
sentare alcuni dei differenti motivi 
dell’interesse suscitato in noi dal rap¬ 
porto cinema-fumetto: costanti tema¬ 
tiche e strutturali (“Città di immagini 
e parole”, di Federico Pagello), sceneg¬ 
giatori di fumetti passati alla televisio¬ 
ne (“Deus ex Machina”, di Maurizio 
Buquicchio), importanti opere indi- 
pendenti da cui sono stati tratti film 
riusciti (“Lo splendore della vita di 
ogni giorno”, di Davide Gherardi), se¬ 
rie a fumetti ideate da registi cinema¬ 
tografici (“ 7Brothers e il debutto di 
Woo nel mondo dei comics”, di Stefa¬ 
no Baschiera). 

Major o indie, il fumetto rimane oggi 
in ogni caso un’arte “povera”, un setto¬ 
re dell’industria culturale ormai inevi¬ 
tabilmente di nicchia, ma questa appa¬ 
rente condizione di marginalità, invece 
di provocare la morte di un medium 
una volta di massa, sembra donargli 
una seconda giovinezza e un’inedita 
influenza sul resto del mediascape con¬ 
temporaneo, dominato da “freddi” lin¬ 
guaggi digitali. Il fumetto sembra pre¬ 
sentarsi in questo momento come un 
“fratello minore”, vitale e spregiudica¬ 
to, di un cinema sempre più high con- 
cept e mass-cult, disperatamente alla ri¬ 
cerca di nuove idee: questa apparente 
contrapposizione genera ancora un’ul¬ 
teriore, articolata, dialettica ricca di 
sorprese. 


51 





































SPECIALE 


Il boom del cinefumetto e i suoi 
confini 

Il successo del cinefumetto e i discorsi 
del boom 

L’intensa relazione tra cinema e fu¬ 
metto è al centro oggi di molti discor¬ 
si. Tra questi, alcuni si concentrano su 
un aspetto, in qualche misura centrale: 
il successo del cosiddetto “cinefumet¬ 
to” - o cinecomics - owero della cre¬ 
scente diffusione di film tratti o ispira¬ 
ti a comics e graphic novels. La circola¬ 
zione di questi discorsi, sia di matrice 
cinefila che fumettofìla, presenta una 
ripetuta serie di loop interpretativi che 
investono la riflessione teorica e la 
pratica critica, riducendo la spiegazio¬ 
ne a una ristretta serie di ipotesi. Mi 
pare quindi utile, prima di entrare nel 
merito della nostra analisi, ripercorrere 
rapidamente alcuni fra gli approcci 
praticati in questi discorsi, di cui - scu¬ 
sandomi per le imitabili semplifica¬ 
zioni - provo a riassumere gli assunti e 
i limiti principali: 

- da un lato proliferano gli sguardi sto¬ 
ricistici, che sostengono la “classicità” 
di tale rapporto, inquadrandolo in una 
tradizione intermediale sottoposta ad 
un generale (quanto generico) rinno¬ 
vamento. A dominare è un approccio 
evoluzionista, che lascia indiscussa la 
dimensione istituzionale e sociale di 
questa tradizione, riducendo al mini¬ 
mo la problematicità delle differenze 
di epoca e di contesto, delle fratture 
culturali e simboliche. La critica cine¬ 
matografica e fumettistica - ma anche 
il filone di studi sulle popular cultures - 
abusano spesso di questo approccio, 
predicando una tradizione che enfatiz¬ 
za le continuità, limitandosi a registra¬ 
re talune discontinuità, senza ap¬ 
profondirle 1 ; 

- fioriscono poi gli sguardi economici¬ 
stici, secondo cui il successo di Batman 
(Tim Burton, 1989) prima (anni No¬ 
vanta) e Spider-Man (Sam Raimi, 
2002) poi (anni Duemila) avrebbero 
(ri)acceso un mercato e dato il via ad 
uno sfruttamento intensivo delle ope¬ 
re provenienti da quel mercato, in 
chiave di logiche win-win. Il cinefu¬ 
metto appare come l’epifenomeno di 
una generica integrazione dei media, 
di cui tuttavia restano in ombra le ra¬ 
gioni strategiche rispetto al sistema, le 
differenze nei modelli di business dei 
vari soggetti, le ricadute sugli assetti 
organizzativi e sulle culture economi¬ 
che della comics industry 2 ; 

- riemergono carsicamente gli estetolo- 
gi, la cui tesi chiave dell’ibridazione - il 
fumetto sempre più cinematografico, 
e/o il cinema sempre più fumettistico 

- trova argomentazioni • episodiche: 
basti pensare al semplicismo operato 
nell’ambito di studi sulle display cultu¬ 
res (con il paragone tra split screen e 


pagina a fumetti), o viceversa alla mar- 
ginalizzazione delle proposte più per¬ 
sonali (cfr. la teoria superflat di Takashi 
Murakami). A dominare sono poco 
utili ideologie opposte - di “somiglian¬ 
za” versus “intraducibilità” semiotica - 
fino ad enfatiche formulazioni 
sulT'incompatibilità ontologica” 3 ; 

- accanto a queste, nell’informazione e 
nella ricerca sui comics si riproducono 
le vecchie posizioni rivendicazioniste, 
tipico (sotto)prodotto dell’ancora fra¬ 
gile dibattito critico e teorico sul fu¬ 
metto, secondo cui il cinefumetto non 
sarebbe che figlio della “rivincita cul¬ 
turale” - visibile anche in letteratura e 
in tv - di un linguaggio che negli ulti¬ 
mi vent’anni ha vissuto una stagione di 
fioritura creativa di cui altri media sta¬ 
rebbero - un po’ improvvisamente - 
approfittando. 

Questi sguardi e i loro discorsi presen¬ 
tano in genere un tratto comune, che 
va al di là del pur diffuso sentimento di 
“novità” configurato dalla retorica del 
boom. E l’idea di una relazione, quella 
tra comics e cinema, reificata in un og¬ 
getto dotato di alcuni tratti e dimen¬ 
sioni riconoscibili - il cinefumetto, ap¬ 
punto - che tende ad essere spiegato in 
due modi: 1) come processo biunivoco, 
legato alla specificità della relazione 
tra i due media, e quindi esito esclusivo 
(è il caso degli sguardi storicisti e ri- 
vendicazionisti); 2) come effetto di 
processi esterni, legato alla ricaduta sul 
fumetto (o sul cinema, a seconda della 
prospettiva in campo...) di fenomeni 
attivi all’interno del sistema mediale, 
secondo una dinamica da effetto casca¬ 
ta (più il caso di economicisti ed este- 
tologi). 

Credo invece che, per capire il boom 
del cinefumetto, si debba adottare una 
prospettiva meno schematica, che 
guardi al cinefumetto come fenomeno 
co-costruito dalla relazione fra cinema 
e fumetto e dall’azione di macro-dina¬ 
miche in atto nel sistema dei media. 
Un campo d’azione più complesso, in 
cui i fattori di cambiamento culturale 
attraversano i confini tra un medium e 
l’altro, sullo sfondo dei nuovi rapporti 
fra industria culturale e società. In 
questo intervento riprenderò alcune 
nozioni che vengono proprio dagli 
studi sul tema dei “confini” dell’indu¬ 
stria culturale e del mutamento dei 
media, cercando di far dialogare il fe¬ 
nomeno cinefumetto con i nuovi 
aspetti di un vecchio problema : il 
mainstreaming dei media. 

Oltre i margini: l'industria culturale e la 
compatibilità delfumetto 

Come è noto fin dalla riflessione di 
Edgar Morin, l’industria culturale è 
una grande officina di elaborazione dei 
desideri e delle attese collettive il cui 


attivo funzionamento — l’elaborazione 
di un immaginario in grado sia di con¬ 
trollare che di lasciare esprimere questi 
desideri - si fonda su una potente di¬ 
namica simbolica: la dialettica innova¬ 
zione-standardizzazione. Questa ap¬ 
parente contraddizione è all’origine 
della sua capacità di (ri)produrre stan¬ 
dard e insieme creare varianti, attra¬ 
verso un processo di assorbimento o 
espunzione di contenuti e pratiche 
dalla propria offerta. A questo livello si 
colloca il tema dei “confini” dell’indu¬ 
stria culturale che - nella formulazio¬ 
ne di Fausto Colombo - si presentano 
come un territorio mutevole “che co¬ 
stituisce una riserva di possibile avan¬ 
zata o di arretramento” 4 . Se l’analisi 
dei processi che conducono dentro o 
fuori da questi margini è intesa nel la¬ 
voro di Colombo nei termini di confi¬ 
ni generali tra fuori e dentro l’industria 
culturale (per es.: la musica rap, da 
Street culture a genere dell’industria di¬ 
scografica), nel nostro caso vanno inte¬ 
si come più ristretto campo d’azione 
del mainstreaming , ovvero del potere 
culturale di costruzione dei valori do¬ 
minanti in termini di idee e immagi¬ 
nari, ma anche di configurazioni pro¬ 
duttive e di consumo mediale. Da un’i¬ 
dea di confini generali, passiamo ad 
una di confini zonali: la relazione tra 
media centrali e media periferici. 

Qui si inserisce una prima osservazio¬ 
ne rispetto al cinefumetto: la nuova 
compatibilità rispetto ai confini succi¬ 
tati. La relazione tra cinema e fumetto 
ha vissuto a lungo ai margini dell’indu¬ 
stria culturale, mentre oggi rappresenta 
una connessione vitale per il sistema. 
Lo dimostra il suo ruolo di primo pia¬ 
no nel mercato audiovisivo e in quello 
del licensing (mediale e non), visibile 
sia come successo numerico di prodot¬ 
to (quantità di blockbuster prodotti; 
quantità e qualità commerciale del¬ 


l’audience cinetelevisiva raggiunta,...), 
sia come allungamento della filiera in¬ 
dustriale (dominio nelle licenze per la 
toy industry e merchandising, espansio¬ 
ne dei produttori in altri mercati del- 
l’industria dei contenuti...). 

Il boom del cinefumetto, visto come 
de-marginalizzazione, è inoltre forte¬ 
mente collegato alla nuova posizione 
di uno dei due soggetti del nesso ri¬ 
spetto a questi confini: è il fumetto in 
toto a mutare la propria compatibilità 
rispetto al sistema mediale e all’indu¬ 
stria cinematografica in particolare 5 . 
Se ci collochiamo dal punto di vista 
del fumetto possiamo osservare diversi 
indicatori di marginalità che mostrano 
profondi mutamenti: basti pensare, sul 
versante dei contenuti, ai flussi di adat¬ 
tamenti-, sul versante degli apparati, al¬ 
le strutture proprietarie. Il primo, con 
sottoindicatori quali la quantità di 
adattamenti (fìlm-da-fumetti, e fu- 
metti-da-film), e la bilancia degli 
scambi (con il fumetto un tempo do¬ 
minato da prelievi cinematografici, 
mentre oggi tende a dominarli), ci di¬ 
ce di una intensificazione e di un rie¬ 
quilibrio - se non un’inversione - nel¬ 
le politiche di adattamento. Il secondo 
ci mostra invece il nuovo livello di in¬ 
tegrazione: se un tempo le case editri¬ 
ci di comics erano sostanzialmente in¬ 
dipendenti, e raramente parte di grup¬ 
pi editoriali (in Occidente, la sola 
major fumettistica partecipata da una 
media corporation era DCComics, del 
gruppo Time Warner), oggi tutti i 
grandi produttori di comics sono inte¬ 
grati in grandi industrie dei contenuti 
(DelRey Manga e Pantheon in Ran- 
dom House, First Second in Holtz- 
brinck, Futuropolis in Gallimard, Vir¬ 
gin Comics in Virgin) o impegnate in 
diversificazioni produttive negli au¬ 
diovisivi o nei new media (Marvel ha 
aperto i Marvel Studios, Dark Horse 



Spider-Man 









iiilìliili: 


un ramo di attività cinetelevisiva, Dar- 
gaud sviluppa cartoons come Dargaud 
Marina, DCComics ha attivato una 
divisione Internet destinata allo sfrut¬ 
tamento di contenuti user generateci 
con il marchio ZudaComics). 

La sintesi che si può trarre da questi 
dati è che il fumetto ha acquisito una 
nuova compatibilità: sempre nei termi¬ 
ni di Colombo, si può parlare di un 
processo di assorbimento del fumetto da 
parte dell’industria culturale, e in par¬ 
ticolare da core media come televisione, 
editoria letteraria e - per l’appunto - 
cinema. 

La compatibilità ideologica del fumetto 
indipendente 

Dopo avere rilevato il tendenziale as¬ 
sorbimento del fumetto, possiamo pas¬ 
sare ad osservarne più da vicino alcuni 
fattori decisivi. Il modello interpretati¬ 
vo che abbiamo scelto individua un set 
di fattori che coinvolgono i rapporti 
fra tutti gli elementi in gioco nella cir¬ 
colazione culturale 6 . Una distinzione 
va fatta allora tra la compatibilità ge¬ 
nerale del cinefiimetto e quella di alcu¬ 
ni segmenti o prodotti. Vorrei quindi 
soffermarmi su un paio di esempi rela¬ 
tivi a specifici segmenti. 

Si pensi al trend dei cinecomics indi- 
pendenti: film tratti da fumetti ben di¬ 
versi da Superman oAstenx, legati al ri¬ 
conosciuto lavoro autoriale di alcuni 
creatori, identificabili come elementi 
della scena indie o degli alternative co¬ 
mics, o eredi della cultura del fumetto 
underground. Credo che per spiegare 
questa tendenza sia utile riportare il 
fenomeno cinefumetto al ruolo di un 
particolare set di fattori, ovvero quelli 
che Colombo chiama “di selezione 
ideologico-culturale”. Il successo - so¬ 
prattutto critico e in determinati festi¬ 
val come il Sundance - di film come 
American Splendor (Robert Pulcini, 
Shari Springer Berman, 2003) o Ghost 
World (Terry Zwigoff, 2001), e in defi¬ 
nitiva la loro stessa comparsa sul mer¬ 
cato cinematografico sarebbero ricon¬ 
ducibili soprattutto all’esistenza di un 
circuito dei media e del cinema pro¬ 
priamente “indie”. L’immagine di Gho¬ 
st World come cult-movie della cultura 
indipendente si spiegherebbe così non 
tanto come effetto-micro, sui produt¬ 
tori di cinema indie, dei macro-proces¬ 
si di “influenza” dei comics (tesi riven- 
dicazionista), quanto con la sintonia 
tra universi simbolici - cinema ìndie e 
fumetto indie - dotati del medesimo 
spirito, utile al consolidato circuito del 
cinema indie per alimentare la propria 
alternativa al perimetro di generi e va¬ 
lori del cinema mainstream. 

La compatibilità meta-identitaria del fu¬ 
metto seriale di supereroi 


Tutt’altro set di fattori determina un 
altro aspetto dell’assorbimento del fu¬ 
metto, osservabile sia per il cinema che 
per la tv: il grande uso di narrazioni se¬ 
riali. Ritengo cruciale non sottovaluta¬ 
re un dato: i blockbuster del cinefù- 
metto sono fondati su comics seriali, 
quasi tutti molto noti: Spider-Man, X- 
Men, Sin City, Batman, Superman, 
Constantine. Questione di brand: la fa¬ 
ma precedente assicura un ingrediente 
del successo, quella ampia brand awa- 
reness che è da sempre uno dei prere¬ 
quisiti chiave per il lancio di un pro¬ 
dotto mass-market. Eppure tale fama 
non basta a far sì che X-Men o Batman 
sbanchino tra i lettori: tranne nei pri¬ 
mi anni Novanta, con vette da un mi¬ 
lione di copie, da tempo le serie Usa 
non superano le 150.000 copie per 
collana (meno del nostrano Tex Wil- 
ler). 

La questione pare quindi di ordine 
simbolico: la narrazione dei comics 
sembra garantire un valore aggiunto 
che il cinema (e la tv) 7 è in grado di far 
fiorire e sfruttare. Si tratta del fatto di 
offrire una serialità “grande”, ovvero 
estesa e paradigmatica, capace di for¬ 
nire due elementi che i prodotti narra¬ 
tivi dei media faticano ormai ad offri¬ 
re da qualche tempo: radicamento me¬ 
moriale, e riconoscimento collettivo. 
Come ha avuto modo di commentare 
Neil Gaiman, uno dei narratori più lu¬ 
cidamente implicati nel boom del ci¬ 
nefumetto: “Credo che l’età delle gran¬ 
di storie e dei grandi miti non sia mai 
finita. Basta guardare i comics. In 40 
anni Marvel e DCComics, con i loro 
universi narrativi, hanno scritto la più 
grande saga dell’era moderna. Sono 
questi i nostri miti, oggi” 8 . Secondo il 
modello di Colombo, si tratta dell’a¬ 
zione dei cosiddetti fattori “di incor¬ 
porazione”, secondo cui “identità col¬ 
lettive possono utilizzare la fruizione 
di determinati prodotti per manifesta¬ 
re la propria appartenenza” 9 . 

Credo che qui stia un punto impor¬ 
tante: la peculiare vastità e densità del- 
l’immaginario dei comics seriali. C’è 
da un lato il fatto che i comics DC e 
Marvel sono - con le soap opera - i 
soli mondi narrativi permanenti, ovvero 
in evoluzione da decenni, senza inter¬ 
ruzioni, sempre in mano ai medesimi 
marchi, tali da alimentare la sensazio¬ 
ne che sopravvivranno ben oltre gli at¬ 
tuali creatori e consumatori. Dall’altro 
si tratta delle più significative epiche 
consumerizzate, narrazioni stratificate 
da vaste memorie testuali ed extrate¬ 
stuali, che ne fanno la più ricca archi¬ 
tettura sincretica di figure eroiche e ri¬ 
scritture mitologiche, incarnate in for¬ 
me di consumo fin da principio espli¬ 
citamente mercantili: storie per sogna¬ 
re, ma anche oggetti sfruttabili com¬ 
mercialmente (e da ben prima di Star 


Wars o Harry Potter). In una società 
caratterizzata dal declino delle grandi 
narrazioni, questi mondi fondati su se¬ 
rialità transgenerazionali, su valori e 
simboli colorati dell’universalità del 
mito, e su pratiche tipiche del consu¬ 
mo mediale più maturo, ne hanno fat¬ 
to una risorsa simbolica che può oggi - 
più ancora che venti o trenta anni fa - 
giocare un ruolo simbolico unificante. 
Come ci suggerisce Gaiman, nel cine¬ 
fumetto si intravede, in modo inatteso, 
una sorta di ritorno della sempre più 
rara funzione bardica dei prodotti nar¬ 
rativi: gli universi DC e Marvel canta¬ 
no le gesta della nostra comunità, te¬ 
stimoniando le emergenze della vita 
sociale nella società del consumo. Il ci¬ 
nefumetto costituisce una delle forme, 
sul piano dei contenuti, di quella sicu¬ 
rezza ontologica che da sempre è tra le 
funzioni cognitive cruciali della narra¬ 
zione popolare. 

Il cinefumetto come mercato del racconto 
ìmmersivo 

Abbiamo visto, con l’aiuto di un mo¬ 
dello per l’analisi del problema del 
mainstreaming e dei confini dei media, 
come alle origini del fenomeno cinefu- 
metto siano coinvolti fattori differenti, 
che possono aiutarci a chiarire aspetti 
specifici come la “novità” del filone di 
adattamenti filmici tratti da fumetti 
indie, o come la moltiplicazione di 
blockbuster movies tratti da noti comics 
seriali di genere superomistico. Credo 
però che al di là dei casi specifici valga 
la pena formulare qualche ipotesi più 
generale. In estrema sintesi, la mia è 
questa: credo che il cinefumetto non 
sia altro che l’istituzionalizzazione in 
una formula - quella dell’adattamento 
di prodotti fumettistici - di quel mer¬ 
cato della narrazione immersiva che è 



tra i principali contributi della comics 
culture al nuovo scenario convergente 
dei media 10 . Per due ragioni: la conno¬ 
tazione partecipativa del consumo fu¬ 
mettistico, e il ruolo del fumetto nella 
definizione del fenomeno del transme¬ 
dia storytelling. 

Da un lato, lo stesso statuto culturale 
dei comics, maturato ai margini delle 
forme culturali istituzionali, lo ha con¬ 
dotto - per necessità e per virtù - a 
promuovere dinamiche di circolazione 
“comunitarie”, fondate sulle forme 
passionali e partecipative dei gruppi di 
fans, promotori di un intero circuito 
fatto di fiere e conventions, fanzines e 
poi BBS, community iperattive e canali 
distribuitivi dedicati come le “fùmette- 
rie” 11 . Dinamiche tipiche di quella 
participatory culture che, da Jenkins in 
poi, sembra definire il paradigma del¬ 
l’azione dei pubblici nell’ambiente dei 
media post-digitalizzazione. 

Dall’altro, il punto cruciale è questo: se 
nell’attuale contesto i prodotti narrati¬ 
vi devono fare i conti con il paradigma 
del transmedia storytelling, le storie di 
successo - si pensi a Matrix (Andy e 
Larry Wachowski, 1999) o Harry Pot¬ 
ter (Chris Columbus, 2001) - saranno 
quelle in grado di prevedere un coin¬ 
volgimento stratificato e immersivo 
del pubblico. I comics di supereroi so¬ 
no da quarantanni una delle forze pla¬ 
smatrici (con le soap) del concetto di 
mondo narrativo immersivo, in quanto 
dotati di “struttura narrative seriale, 
forze creative multiple responsabili di 
varie parti della storia, un senso defia 
continuità di lungo termine, un 
profondo archivio di personaggi, lega¬ 
mi attuali alla complessa storia della 
property, e un senso di permanenza” 12 . 
Nel fumetto, i media - e quindi il ci¬ 
nema - trovano un bacino di immagi¬ 
nari e prodotti che, maturati in un 



Ghost World 


53 













SPECIALE 


54 


contesto di forte coinvolgimento da 
parte dei pubblici del mezzo, sembra¬ 
no garantire una fruizione in grado di 
sostenere la costruzione di esperienze 
di consumo partecipativo e immersivo. 
Nella discontinuità della cultura fu¬ 
mettistica contemporanea, il cinefu- 
metto offre un consumo così come lo 
immaginano i media oggi. 

Matteo Stefanelli 


Note 

1. E il caso di pubblicazioni come il volume Cine- 
comics edito da Ciak (2003), o del catalogo Cine- 
ma&Fumetto, Litde Nemo, 2006; ma anche, in 
ambito accademico, di certa saggistica praticata 
dal Journal of Copular Culture, o dall’ International 
Journal of Comic Ari. 

2. Per un esempio recente, si veda Kerry Gough, 
“Translation Creativity and Alien Econ(c)omics”, 
in Ian Gordon, Mark Jancovich, Matthew P, 
McAllister, Film and Comic Books, Jackson, Uni¬ 
versity of Mississippi Press, 2007. Un’analisi più 
attenta al tema dei modelli di business è in An¬ 
drea Materia, “I conti in tasca a Comicswood”, in 
Andrea Materia, Giuseppe Pollicelli, Comicswood, 
voi. 1, Roma, Bottero Edizioni, 2001. 

3. Il riferimento è qui a Pascal Lefèvre, “Incom¬ 
patibile Visual Ontologies?”, in I. Gordon, M. 
Jancovich, M.P. McAllister, op. cit., pp. 1-12. 

4. Fausto Colombo, “L’industria culturale e i suoi 
margini”, in Fausto Colombo, Luisela Farinotti, 
Francesca Pasquali, I margini della cultura , Mila¬ 
no, Franco Angeli, 2001, p. 20. 

5. Per un’introduzione ai cambiamenti in corso 
nel fumetto odierno, rimando a Matteo Stefanel¬ 
li (a cura di), Fumetto International Trasformazio¬ 
ni culturali del fumetto contemporaneo, Roma, Dra¬ 
go, 2006. 

6. Mi limito qui a ricordarli: fattori di selezione 
ideologico culturale; di centralizzazione produtti¬ 
va; di ottimizzazione produttiva; di ordinamento 
e organizzazione dell’offerta; di compatibilità con 
il consumo; di costruzione del consumo; di incor¬ 
porazione; di adeguatezza culturale; di circolarità. 

7. Per un’analisi del versante televisivo del feno¬ 
meno, mi permetto di rimandare a Matteo Stefa¬ 
nelli, “L’identità segreta del telefilm”, in AA. W., 
Link Focus: Telefilm, RTI/Mediaset, 2007. 

8.. Intervista, Festivaletteratura, Mantova, 7 set¬ 
tembre 2007; per una trascrizione del testo del¬ 
l’intervento (parziale): http://www.fantasymaga- 
zine.it/intemste/7953. 

9. F. Colombo, op. cit, p. 39. 

10. Mi riferisco naturalmente allo studio di 
Henry Jenkins, Convergerne Culture, New York- 
London, New York Univeristy Press, 2006. 

11. Per un approccio alla cultura fumettistica in 
chiave di sottocultura: Lue Boltanski, “La Consti- 
tution du champ de la bande dessinée”, in Actes de 
la recherche en Sciences sociales, n. 1, Paris, Seuil, 
1975. Sullo sviluppo del Direct Market negli Usa, 
e la dimensione simbolica del consumo di comics 
negli Usa: Matthew J. Pustz, Comic Book Culture: 
Fanboys and True Believers, Jackson, University 
Press of Mississippi, 1999. 

12. Sam Ford, As thè World Turns ” in a Conver¬ 
gerne Culture, Master Thesis Degree, Boston, 
MIT, 2007; si veda Convergence Culture Con- 
sortium Weblog http://convergenceculture.org/ 
weblog 


Città di immagini e parole 

La metropoli nel cinema e nella televi¬ 
sione influenzati dal fumetto 


Una cascata di lettere e numeri che so¬ 
no in realtà la struttura logica di 
un’immagine: l’immagine di una città 
irta di grattacieli di vetro e acciaio, tan¬ 
to falsa quanto efficace nel celare la ve¬ 
rità della catastrofe, strumento di con¬ 
trollo di un potere assoluto che si espli¬ 
ca innanzitutto nella capacità di mani¬ 
polare lo spazio. I dipinti di un pittore 
eroinomane, i sogni di un uomo volan¬ 
te, fumetti di supereroi e panorami di¬ 
gitali: visioni di una New York deva¬ 
stata nel prossimo futuro come imma¬ 
gini da decifrare, incarnazioni virtuali 
di un progetto terroristico che dev’es¬ 
sere compreso e sventato in tempo. 
Matrix (The Matrix, Andy e Larry 
Wachowski, 1999) e Heroes (Tim 
Kring, 2006) condividono un’ossessio¬ 
ne: quando la realtà diviene allucinato¬ 
ria, perennemente in potenza, fino al 
punto di non poter essere colta che at¬ 
traverso le pre-visioni enigmatiche di 
un “cieco” (Neo, Isaac Mendez, Peter 
Petrelli), le immagini assumono su di 
essa un potere straordinario e terribile 
che solo la parola può cercare di spie¬ 
gare e ricondurre ad un senso che è 
sempre oltre di loro, oggetto di una 
contesa infinita fra le parti in conflitto. 
Quest’ossessione ha certamente qual¬ 
cosa a che fare con il processo di con¬ 
vergenza fra il linguaggio cinemato¬ 
grafico, costretto fin’ora a fare i conti 
con l’“impronta del reale”, e quello del 
fumetto, segnato invece dall’astrazione 
del disegno e dalla simbiosi fra imma¬ 
gine e parola. Matrix e Heroes trovano 
in quel linguaggio il loro esplicito refe¬ 
rente (del resto, pur non essendo adat¬ 
tamenti veri e propri, entrambi conta¬ 
no sceneggiatori, come i fratelli Wa¬ 
chowski e Jeph Loeb, già cimentatisi 
con le testate della Marvel). Il “cine¬ 
ma-fumetto” costituisce in ogni caso 
uno dei luoghi in cui la condizione at¬ 
tuale del cinema americano si mostra 
nel modo più chiaro - dal punto di vi¬ 
sta produttivo, tecnologico, culturale 
ed estetico - e rappresenta un “genere” 
tutt’altro che periferico o effimero in 
questo contesto: non dimentichiamo 
che Star Wars (George Lucas, 1977), 
film-prototipo dello spettacolo hol¬ 
lywoodiano contemporaneo, si rifa 
esplicitamente e in modo profondo ai 
serial fantascientifici Flash Gordon 
(Frederick Stephani, 1936) e Buck Ro- 
gers (Ford Beebe, Saul A. Goodkind, 
1939), tratti dalle celebri strisce e tavo¬ 
le domenicali di Alex Raymond (il 
primo) e Philip Nowlan e Dick Calkin 
(il secondo). La “New New Hol¬ 
lywood”, insomma, conta fra le sue 
pratiche fondamentali anche il recupe¬ 


ro e la messa in evidenza delle struttu¬ 
re narrative, iconografiche e ideologi¬ 
che del fumetto degli anni Trenta. 

In questo articolo, voglio concentrare 
la mia attenzione sulla rappresentazio¬ 
ne dello spazio urbano in alcuni testi 
appartenenti a questo filone poiché es¬ 
so rappresenta un topos tematico e un 
elemento iconografico ed estetico di 
primaria importanza sia nelle fonti fu¬ 
mettistiche che negli adattamenti ci¬ 
nematografici. Farò riferimento in 
particolar modo ad un gruppo di ope¬ 
re - oltre ai già citati Matrix e Heroes, 
anche Unbreakable (M. Night Shya- 
malan, 2000) e Donnie Darko (Richard 
Kelly, 2001) - che, pur non traendo 
origine da opere pre-esistenti, omag¬ 
giano in maniera esplicita e totalizzan¬ 
te l’estetica e l’immaginario del fumet¬ 
to, mostrando una consapevolezza dei 
legami fra i due linguaggi per certi 
versi anche maggiore rispetto a molti 
adattamenti diretti; in tutti e quattro, 
la rappresentazione della città assume 
una posizione strategica sia a livello 
narrativo che iconografico. In questo 
modo, intendo sottolineare inoltre 
quanto molti autori interessanti delle 
ultime generazioni trovino sempre più 
nel fumetto, come già nella letteratura, 
nel teatro e nella pittura, una delle 
principali fonti di ispirazione per la 
propria estetica e la propria poetica. Si 
tratta di un’ennesima prova della voca¬ 
zione riflessiva della cultura pop, ma 
anche di un segnale della sua decisa 
maturazione e stratificazione: a diffe¬ 
renza dei riferimenti critici e deco¬ 
struttivi di un Godard, che negli anni 
Sessanta “citava” il fumetto come sin¬ 
tomo della società di massa, osservia¬ 
mo qui un utilizzo più rispettoso e 
consapevole di questo linguaggio, la 
dimostrazione che esso ha ormai otte¬ 
nuto uno status estetico e culturale ca¬ 
pace di influenzare le arti “maggiori”. 

La centralità della città nel fumetto ame¬ 
ricano 

Il fumetto americano è tuttóra larga¬ 
mente dominato dal genere consacrato 
ai supereroi, e così il cinema che a 
quello si ispira si fa anch’esso veicolo 
dell’egemonia degli eroi in calzama¬ 
glia. Popolati da creature che vivono in 
simbiosi con lo spettacolo della città 
moderna, film e comic book mostrano 
così la pervasività dello spazio metro¬ 
politano nell’iconografia e nell’imma¬ 
ginario del genere; per questo motivo, 
Scott Bukatman, affrontando questo 
aspetto, ha pubblicato la più interes¬ 
sante analisi dedicata ai supereroi nel¬ 
la letteratura critica recente 1 . D’altra 
parte, l’ossessione per lo scenario urba¬ 
no è ben radicata anche nei fumettisti 
americani che si muovono in altri am¬ 
biti, come quello del cosiddetto graphic 


novel e l’ underground, che fanno della 
propria estraneità dalla produzione 
mainstream un motivo di distinzione. 
Da New York (Will Eisner, Kitchen 
Sink Press, 1986) a City of Glass (Paul 
Karasik e David Mazzuchelli, Avon 
Books, 1994), da American Splendor 
(Harvey Pekar, autoprodotto, poi Dark 
Horse e altre, 1976-) a Jimmy Corrigan 
(Chris Ware, Fantagraphics, 2000), fi¬ 
no alle opere di Ben Katchor (Julius 
Knipl, Reai Estate Photographer, Pen- 
guin e altre, 1991-; The Jew of New 
York, Pantheon, 1998), l’immagine 
della città occupa un ruolo importante 
anche nel fumetto americano indipen¬ 
dente: la vita sulla strada o il cammi¬ 
nare quotidiano nella metropoli (Ka- 
rasik-Mazzuchelli), quartieri popolari 
e zone di periferia (Eisner), località 
decentrate come Cleveland (Pekar), 
Seattle o il New Jersey (Hate, di Peter 
Bagge, 1990-) sono scelte in chiara al¬ 
ternativa allo scintillìo dei grattacieli 
di Manhattan fra cui si muovono i su¬ 
per-umani 2 . 

E importante sottolineare inoltre 
quanto la messa in scena dello spazio 
urbano rappresenti anche un elemento 
del rapporto fra cinema e fumetto, in 
modo particolare nel contesto statuni¬ 
tense, costituendo ad esempio una del¬ 
le chiavi attraverso cui film come Bat- 
man (Tim Burton, 1989), Dick Tracy 
(Warren Beatty, 1990), Spider-man 
(Sam Raimi, 2002) e Sin City (Robert 
Rodriguez e Frank Miller, 2005) sono 
riusciti ad adattare il linguaggio delle 
strisce sul grande schermo in modo 
decisamente più convincente che nel 
passato. 

Matrix. - la città dei supereroi 

Nel fumetto di supereroi la città è so¬ 
stanzialmente metafora della “materia¬ 
lizzazione” dell’ideologia capitalista, 
del momento in cui, oltrepassato il di¬ 
scorso politico e sociale, essa assume il 
diretto controllo sulla realtà in cui si 
muovono gli individui. Metropolis e 
Gotham City sono visioni simboliche 
in cui la metropoli americana (sostan¬ 
zialmente, la New York degli anni 
Trenta) viene rappresentata come un 
ambiente completamente artificiale, 
uno scenario meraviglioso immediata¬ 
mente fruibile come set per avventure 
fantascientifiche ovvero come luogo di 
corruzione senza ritorno di tutto ciò 
che è autentico e quindi buono ; con¬ 
temporaneamente, però, la metropoli 
appare anche come una jungla, uno 
spazio di libertà primordiale, un pae¬ 
saggio naturale in cui le regole civili 
sono sospese in nome di una riemer¬ 
sione continua dell’inconscio animale 
del cittadino (si pensi al totemismo 
esplicito di molti personaggi) 3 . La me¬ 
tropoli ipercapitalista come evento na- 



Batman, illustrazione di Alex Ross 


turale, la city come matrice di rapporti 
sociali non modificabili: secondo la 
si tradizione marxista, non c’è più perfet¬ 
ta definizione dell’ideologia del capi¬ 
tale di questa: “Il capitale non è una 
cosa più che non lo sia il denaro. Nel- 
1 uno come nell’altro, determinati rap¬ 
porti produttivi sociali fra persone ap¬ 
paiono come rapporti fra cose e perso¬ 
ne, ovvero determinati rapporti sociali 
appaiono come proprietà sociali natu- 
: rali di cose” 4 . L’oscura Chicago/ 
s; Gotham digitale e cyberpunk mostra- 
| ta in Batman Begins (Christopher No- 
lan, 2005) è il rovescio della New 
York/Metropolis statuaria e Art Deco 
che troviamo in Superman Returns 
(Brian Singer, 2006), ma esse sono le 
| due facce della medaglia di questa città 
| ideale: entrambe dominate da un grat¬ 
in tacielo, quello della famiglia Wayne e 
:: quello del Daily Planet, simbolo dei 
|| due personaggi e del loro ambiguo e 
contraddittorio rapporto con il potere 
(economico, politico e mediatico). 

; L’awenuta rimozione totale della Na¬ 
tura, tuttavia, dona progressivamente 
: alla metropoli americana un carattere 
S di iperrealtà che provoca una crescente 
s difficoltà da parte dei discorsi ideologi- 
: ci di produrre soggetti “a tutto tondo”: 
la nevrosi che caratterizza i supereroi 
della Marvel coincide con il loro essere 
calati non più in una rappresentazione 
metaforica - quindi solida e autosuffi- 
ciente - di New York, bensì in una sua 
(: versione iperreale e pop. La moltiplica- 
?: zione di supergruppi di mutanti, me- 
| tàfore esplicite di crisi sociale, va di pa- 
; ; ti passo con la cosiddetta Dìsneypication 
di Manhattan, la quale subisce nel ge- 
nere supereroico un’intensificazione 
esponenziale della spettacolarizzazione 
degli spazi metropolitani: le sequenze 
(girate sulla Statua della Libertà, a Ti- 
mes Square, sul Ponte di Brooklyn o 
■sulla Fifth Avenue nelle serie dedicate 
sagli X-Men (Brian Singer e Brett Rat- 
sper, 2000-2006), a Spider-man (Sam 
Raimi, 2002-2007) e ai Fantastic Four 
(Tini Story, 2004-2007) mostrano co¬ 
me il genere tenda sempre più ad enfa¬ 
tizzare la natura della città come attra- 
Wpne turìstica , trasformandola grazie 
agli effetti digitali in un enorme luna 
PMk, in un’altra Las Vegas. 

E questa metropoli fredda e iperreale 
Superman Returns) a dispetto delle 
• upcrfici riflettenti e delle scritte colo¬ 
rate (Fantastic Four), che Matrix met¬ 
ili in scena con la sua Mega City, una 
atta fantastica realizzata girando tra 
0my, Chicago e Oakland (ma con 
§*£ dettaglio inequivocabilmente 
newyorchese: il Flatiron Building, il 
più celebre grattacielo d’inizio Nove- 
ìilfRte):, Da essa scaturisce il plot della 
|§||§|;:supereroe Neo è il portavoce di 
itti: rifiuto di questa città-vetrina a fa¬ 
vore di una visione della realtà, apoca¬ 


littica ma concreta, in cui la soggettività 
degli individui riprenda sostanza gra¬ 
zie al forza dell’ideologia, attraverso le 
parole di Morpheus, dell’Oracolo, del- 
1 Architetto. Come ha sostenuto Clau¬ 
dio Bisoni 5 , Matrix è un film in cui le 
Grandi Narrazioni vengono esplicita¬ 
mente rievocate in sostegno del sog¬ 
getto in opposizione al disagio post¬ 
moderno provocato dalla spettacola¬ 
rizzazione del reale, e ciò avviene in¬ 
nanzitutto attraverso una grande im¬ 
portanza attribuita al linguaggio: gli 
spiegoni” che affliggono la serie sono 
il tentativo di offrire un contrappeso al 
vuoto - innanzitutto estetico - delle 
sequenze dazione e di quelle dedicate 
alla visione del mondo virtuale. 

La parola, elemento essenziale del fu¬ 
metto americano, non solo supereroi¬ 
co, cerca di riempire di senso lo spetta¬ 
colo urbano, costantemente attirato 
verso la pura fantasmagoria. 

Unbreakable e Donnie Darko.- le città 
di altri eroi 

Unbreakable è un film che è stato inse¬ 
rito dai critici fumettistici nel filone 
del cosiddetto “revisionismo” (sic) del 
genere supereroico, ovvero quel rinno¬ 
vamento tematico e stilistico inaugu¬ 
rato nel 1986 da Frank Miller e Alan 
Moore con The Dark Knight Returns e 
Watchmen, con figure di supereroi nuo¬ 
vi e più problematici rispetto al passa¬ 
to. Come sottolineato da Geoff Klock 6 
in un libro dedicato proprio alle inno¬ 
vazioni narrative del fumetto america¬ 
no degli ultimi ventanni, il film di 
Shyamalan è, come Matrix, una para¬ 
bola sull’interpellazione ideologica del 
protagonista, questa volta da parte di 
un fanatico delle storie di supereroi: si 
tratta quindi in questo caso di un 
esplicito metadiscorso sul fumetto, e 
una rischiosa sperimentazione sulla li¬ 
nea che divide l’immaginario e il reale. 

Se osserviamo lo stile della rappresen¬ 
tazione degli spazi urbani notiamo la 
profonda distanza che separa Un¬ 
breakable da Matrix e da tutti i film ci¬ 
tati in precedenza: alla verticalità della 
metropoli futuristica, ai suoi spazi tra¬ 
slucidi simboleggianti il Potere, alla re¬ 
lazione immediata fra l’immagine del¬ 
la città e la struttura ideologica ad essa 
soggiacente, si sostituiscono una forte 
orizzontalità (sia degli spazi urbani 
che dei movimenti di macchina), am¬ 
bienti quotidiani, non-luoghi popolati 
da una folla anonima, a sottolineare 
1 assenza di una qualsiasi prova visibile 
del legame fra la parola (l’interpella- 
zione ideologica) e la realtà abitata dai 
personaggi. Infatti, pur mostrando en¬ 
trambi un processo di soggettivazione 
e l’adesione volontaria del protagonista 
al ruolo di supereroe, nei due film il 
percorso del personaggio è compieta- 


mente diverso: nel primo s’impone 
uno scontro ideologico in cui fin da 
subito le parti sono chiare, e così i le¬ 
gami fra parola e immagine; nel se¬ 
condo, il dubbio e l’incertezza domi¬ 
nano fino al colpo di scena finale, in 
cui il discorso del villain costringe a ri¬ 
leggere le immagini viste fino a quel 
momento sotto un’altra prospettiva. 
Dalla dicotomia metropoli/realtà apo¬ 
calittica di Matrix si passa quindi a 
piani sequenza anti-spettacolari di una 
Philadelphia autunnale, dai toni grigi e 
blu: non a caso, all’inizio del film il 
protagonista sta tornando da New 
York e successivamente minaccia il fi¬ 
glio durante un litigio in questo modo: 
“Vado a New York e non torno più!”; 
la sua combattuta identità di eroe è ri- 
specchiata dalla sua lontananza dalla 
città dove convenzionalmente gli sa¬ 
rebbe più facile accettare (o credere) ai 
propri poteri. 

Donnie Darko è un altro film che mo¬ 
stra l’influenza profonda del fumetto 
sull’immaginario e l’estetica del suo 
autore. Qui siamo dalle parti del fu¬ 
metto indie e underground, che spesso 
preferisce come location la provincia 
americana o zone suburbane, in aperta 
polemica con l’egemonia delle down¬ 
town metropolitane nella produzione 
commerciale. Il film, ricollegandosi 
anche al genere horror e fantastico di 
target adolescenziale e alle sottocultu¬ 
re musicali giovanili grazie ad una co- 
lona sonora “alternativa” al punto giu¬ 
sto, utilizza l’immagine stereotipata 
della smalltown (della smallville ) popo¬ 
landola di bozzetti caricaturistici, ani¬ 
mali antropomorfi, personaggi ma¬ 
scherati e libri illustrati in grado di 
spiegare (e provocare?) i viaggi nel 
tempo. Il film mette in scena una cit¬ 
tadina in cui alla realtà si sovrappon¬ 


gono continuamente figure fantastiche 
o puri segni grafici (come i bizzarri 
“serpentoni” che rappresentano i mo¬ 
vimenti futuri dei personaggi - una 
sorta di allusione al linguaggio del fu¬ 
metto?). L’ultima svolta della sceneg¬ 
giatura è il momento in cui il Donnie 
Darko crede di comprendere il suo de¬ 
stino: in questa sequenza il volto del 
protagonista viene risucchiato e “sfigu¬ 
rato” da uno di quei “serpentoni”, me¬ 
scolando ripresa fotografica e effetto 
digitale in un primo piano in cui l’at¬ 
tore viene sostanzialmente trasformato 
in disegno. Di nuovo, troviamo un’im¬ 
magine ibrida, fortemente didascalica 
nel suo dare espressione letterale ai 
movimenti e all’interiorità dei perso¬ 
naggi, come nel fumetto; e, allo stesso 
tempo, la sua immediata traduzione in 
parola: Donnie Darko crede di com¬ 
prendere la sua situazione grazie una 
serie di sovrastrutture (le teorie sul 
viaggio del tempo, l’importanza della 
formula “celiar door”, etc.), che artico¬ 
lano discorsi sul futuro, sul destino e 
sulla soggettività dell’eroe, come già in 
Matrix e Unbreakable. 

Donnie Darko, come Neo e moltissimi 
personaggi di Heroes, deciderà alla fine 
di andare incontro ad una morte an¬ 
nunciata e pxt-vista. A differenza dei 
supereroi, però, il suo destino non è le¬ 
gato a quello del “mondo”, ma alla li¬ 
mitata dimensione dei suoi affetti e 
della sua piccola città: pur proponendo 
spunti di satira sull’America in gene¬ 
rale, la scelta di ambientare la vicenda 
in una piccola città corrisponde alla 
volontà precisa di rifiutare le temati¬ 
che altisonanti e i risvolti ideologici 
del genere mainstream , nello stesso 
spirito con il quale molto fumetto in¬ 
die predilige le micronarrazioni della 
vita di provincia, scegliendo di dare 






SPECIALE 


spazio al privato, trattato spesso in una 
chiave esplicitamente autobiografica. 

Heroes.' New York post 9/11 

Delle riletture dell’immaginario fu¬ 
mettistico da parte dei media audiovi¬ 
sivi, Heroes è l’ultimo esempio, non so¬ 
lo in ordine cronologico, ma anche e 
soprattutto dal punto di vista dell’ag¬ 
giornamento dei canoni del genere: il 
topos delf“uomo comune” alle prese 
con poteri straordinari, la scomparsa 
dell’identità segreta, il primato dei “su¬ 
pergruppi”, le ossessioni paranoiche- 
fantapolitiche e la dimensione globale 
delle vicende sono solo alcuni degli 
elementi da tempo ormai inseriti sta¬ 
bilmente nei fumetti e che Heroes fa 
propri, mentre negli adattamenti cine¬ 
matografici sembrano perdurare tutto 
sommato personaggi e meccanismi 
degli anni Trenta e Sessanta. Ciò che 
più interessa qui, del resto, è come, no¬ 
nostante tutte le novità, l’immagine 
della metropoli di New York, seppur 
rara , frammentata e non più totaliz¬ 
zante, rappresenti ancora la matrice 
narrativa ed iconografica dell’intera 
serie, il perno attorno al quale ruotano 
le vicende di tutti i personaggi, l’icona 
da decifrare, l’obiettivo da raggiungere 
e il tesoro da salvare. Come in Matrix 
l’immagine della città è la posta in gio¬ 
co nella lotta fra le macchine ed i ri¬ 
belli, così l’immagine di New York, la 
sua interpretazione (conservazione o 
distruzione?), è l’oggetto del conflitto 
fra superumani in Heroes. 
Destinazione finale e punto di conver¬ 
genza di tutti i personaggi e fili narra¬ 
tivi, lo spettacolo della distruzione di 
New York è continuamente rappresen¬ 
tato: in sogno, in quadro, nelle brevi 
escursioni dei viaggiatori nel tempo. 
La pre-visione della catastrofe urbana 
(svelamento per eccellenza deE’espe- 
rienza metropolitana - tanto più dopo 
ITI settembre) costituisce il contralta¬ 
re e la verifica della iper-strutturazione 
narrativa della serie, il momento in cui 


il ritmo inarrestabile di eventi si inter¬ 
rompe per pochi attimi, ma soltanto 
per dare spazio ad immagini iper-si- 
gnificanti che rilanciano a loro volta il 
racconto. La New York di Heroes è 
quella di una pittura già fumettistica, 
di una televisione che tradisce la natu¬ 
ra digitale dei propri effetti, di sogni e 
premonizioni che, giusti o sbagliati, 
non hanno mai nulla di vago e indefi¬ 
nito: tutte queste immagini esprimono 
sempre al massimo grado di chiarezza 
il proprio contenuto, come nel disegno 
del fumetto popolare americano. È la 
New York dei supereroi, un’immagine 
immediatamente sovraccaricata d’i¬ 
deologia. 

Tuttavia, molte cose sono cambiate ri¬ 
spetto al passato, ai tempi dell’“ami- 
chevole Uomo Ragno di quartiere”: 
ora lo spazio urbano non è più lo sce¬ 
nario quasi esclusivo del racconto, e 
New York non è più il centro autosuf¬ 
ficiente del mondo. La città è sola¬ 
mente il punto di convergenza di ener¬ 
gie e tensioni che si organizzano sul¬ 
l’intero pianeta e che lì, grazie allo 
spettacolo della catastrofe del sistema 
occidentale, trovano semplicemente il 
linguaggio adatto ad esprimere, il caos 
in modo più esasperato: è il linguaggio 
del filmetto di supereroi, appunto, 
quello in cui parola e immagine si so¬ 
vrappongono, si scambiano di ruolo, in 
cui il significato viene alla luce attra¬ 
verso immagini roboanti, bidimensio¬ 
nali, “didascaliche”, e dialoghi enfatici, 
opposizioni frontali, scontri epici 7 . 

La visualizzazione della struttura lin¬ 
guistica dell’immagine della città e 
l’ossessiva esposizione verbale di tema¬ 
tiche post-moderniste e new age in 
Matrix', l’ambiguità della rappresenta¬ 
zione dello spazio urbano e il paranoi¬ 
co e infinito (meta)discorso sul fumet¬ 
to da parte del villain-teoiico in Un- 
breakable', la sovrapposizione fra foto¬ 
grafia e effetti grafici, da un lato, e la 
costruzione di un puzzle narrativo da 
risolvere attraverso un libro illustrato 


in Donnie Darko\ la natura “didascali¬ 
ca” delle immagini e la messa in rilievo 
delle strutture narrative in Heroes: il 
fumetto sembra essere adottato dal ci¬ 
nema e dalla televisione per la sua na¬ 
tura di linguaggio ontologicamente 
anti-realista e anti-illusionista, e uti¬ 
lizzato di frequente per proporre un 
discorso meta-ideologico. 

L’immagine della città si costituisce co¬ 
me il terreno su cui diverse narrazioni e 
le parole dell’ideologia si scontrano, 
neEa battaglia per dare un senso alle 
esperienze dei soggetti messi in scena. 

Federico Pagello 


Note 

1 Scott Bukatman, “The Boys in thè Hoods: A 
Song of thè Urban Superhero”, in Matterà of 
Gravity. Special Ejfects and Supermen in thè XX 
Century, Durham, Duke University Press, 2003. 

2 Al rapporto fra fumetto e metropoli sono stati 
dedicati negli ultimi anni due numeri monografi¬ 
ci di due diverse riviste italiane di diversi ambiti 
disciplinari ( Schizzo , periodico del Centro Fu¬ 
metto Andrea Pazienza, n. 13 , maggio 2003, cu¬ 
rato da Matteo Stefanelli; Controspazio , rivista di 
architettura e urbanistica, n. 117,2006), nonché il 
recente convegno Comics und die Staadt y tenuti a 
Berlino nel giugno 2007, e che ha visto parteci¬ 
panti studiosi come Henry Jenkins, Scott Bukat¬ 
man, William Uricchio e Pascal Lefevre. 

3 Cfr. Alberto Abruzzese, La grande scimmia. Mo¬ 
stri vampiri automi mutanti, Roma, Napoleone, 
1973. 

4 Karl Marx, Il capitale , libro I, Firenze, La Nuo¬ 
va Italia, 1969, p. 37. 

5 Claudio Bisoni, “La matrice e le sue interpreta¬ 
zioni. Ovvero perché Matrix non è un film post¬ 
moderno”, in Guglielmo Pescatore, Matrix. Uno 
studio di caso , Bologna, Hybris, 2006. 

6 Geoff Klock, How to Read Superheros Comics 
and Why, New York, Continuum, 2006. 

7 In perfetta sintonia con quanto sostenuto a pro¬ 
posito del melodramma da Peter Brooks in L'im¬ 
magine melodrammatica , Parma, Pratiche, 1985. 


Deus ex Machina 

Brian K. Vaughan: una proposta di 
monografia 

“If you were exiled from America 
what taste, smeli and sight would you 
miss most?” 

“The Taste, thè Smeli and sight of 
pure evil. We do it better than any- 
one” 1 . 

Questo saggio si propone di raccoglie¬ 
re sistematicamente in un tentativo, 
seppur embrionale, di monografìa, 
informazioni e considerazioni sulla 
carriera di scrittore ancora breve, e tut¬ 
tavia molto prolifica, di Brian K. Vau¬ 
ghan. Non vi è infatti, allo stato attua¬ 
le, se si escludono numerosi articoli e 
recensioni, un discorso critico esau¬ 
riente sul lavoro di sceneggiatore e au¬ 
tore di fumetti del co-scrittore di Lost 
(2004-), del creatore di serie di prossi¬ 
ma trasposizione cinematografica co¬ 
me Y: The Last Man (2002-) ed Ex 
Machina (2004-). Come vedremo, 
sondando le diverse espressioni di una 
poetica ben definita e decisamente au- 
toriale, ciò che renderà interessante 
Vaughan sarà proprio la qualità “cine¬ 
matografica” del suo lavoro sul fumet¬ 
to, in un certo senso in grado di con¬ 
trovertere un rapporto di contamina¬ 
zione solitamente inverso fra scrittura 
fumettistica e filmica. D’altra parte, 
per quanto sia un dato spesso negato 
dall’autore, potremo anche verificare 
nella sua produzione molteplici ascen¬ 
denze letterarie, che ci permetteranno 
di ascriverlo ad una tradizione di scrit¬ 
tura anglosassone di stampo allegori¬ 
co, di utopie negative, che va da A Mo- 
dest Proposai (1729) di Jonathan Swift 
ad Animai Farm (1944) di George 
Orwell. 

Tutto ha inizio neEa formazione deEo 
scrittore: nato a Cleveland nel 1976, si 
trasferisce a New York dove frequenta 
i corsi di cinema deEa Tisch aEa New 
York University. Lì, dove segue E film 
and dramatic writing program, riesce a 
far parte di un laboratorio attivo per 
pochi anni, chiamato “The Stanhattan 
Project” (Manhattan Project + Stan 
Lee). Si trattava di un workshop idea¬ 
to daE’innovativo editore deEa Marvel, 
James “The Professor” Felder, aEo sco¬ 
po di reperire nuovi talenti al di fuori 
deE’industria del fumetto. A breve, aiu¬ 
tato daEo stesso Felder, Vaughan di¬ 
venterà uno dei più richiesti autori per 
tutte le maggiori serie Marvel e DC, da 
Batman a X-Men, nonché vincitore di 
premi Eisner, Harvey e Shuster. 
Seppure la spinta rivoluzionaria di 
questo giovane emergente apportata al 
medium-fumetto nel contesto già ben 
deHneato dei supereroi ha un valore 
notevole e degno di analisi, ciò che ci 
interessa maggiormente esplorare e 



Heroes 





















classificare è il lavoro più personale di 
Vaughan, quello fatto su serie e graphic 
novels di cui è stato creatore. Se infatti 
la nuova linfa portata a personaggi “in 
declino” come Dr Strange (2006-2007) 
o Swamp Thing (2000-2001), ha senza 
dubbio permesso allo scrittore di otte¬ 
nere un grande credito e una quasi inu¬ 
sitata libertà creativa, è nelle produzio¬ 
ni di fumetti “adulti” come quelli pub¬ 
blicati per Vertigo, Wildstorm o Dark 
Horse che Vaughan esprime la propria 
vena ora più “politica”, ora “autobiogra¬ 
fica”. Due caratteristiche, queste, usual¬ 
mente prerogative della scrittura indi- 
pendente. Risulta dunque ancora più 
interessante, in quest’ottica, lo sguardo 
underground al mondo del fumetto di 
un autore comunque legato esclusiva- 
mente alle major, alle più potenti case 
editrici fin dagli esordi. Scorrendo i 
nomi dei “modelli” di Vaughan non ve¬ 
drete Jack Kirby o Will Eisner, ma 
Alan Moore, Daniel Clowes, Adrian 
Tornine, Garth Ennis, Seth, Brian 
Bendis, Warrcn Ellis o Joe Sacco. 
Cercheremo di dividere immaginaria¬ 
mente il lavoro di Vaughan in tre filo¬ 
ni principali: quello apertamente auto- 
biografico, quello puramente roman¬ 
zesco e finzionale e, per finire, quello 
politico. 

“Do you have any interest in doing au- 
tobiographical work?” 

“Probably not. My life is boring, and 
anything interesting usually makes its 
way into my fiction” 2 . 

Al primo gruppo, appartengono le se¬ 
rie in cui è possibile intravedere aned¬ 
doti della vita di Vaughan (spesso da 
lui stesso confermati tali) e, più in ge¬ 
nerale, attraverso le innumerevoli pop- 
culture referencies, i frequenti rimandi 
musicali e cinematografici, i punti fer¬ 
mi della cultura della sua generazione. 
Fa parte di questo corpus prima di tut¬ 
to Y: The Last Man, il cui finale sarà a 
breve pubblicato, con il sessantesimo 
albo 3 . Si tratta della storia dell’ultimo 
uomo sulla terra o, per essere più pre¬ 
cisi, dell’ultimo maschio. Un virus leta¬ 
le, infatti, stermina l’intera popolazio¬ 
ne maschile del pianeta, lasciando im¬ 
provvisamente in mano alle donne il 
potere politico, economico e militare. 

È facile accostare il racconto di questo 
mondo post-apocalittico a numerosi 
altri episodi nella letteratura e nel ci¬ 
nema americano di genere fantascien¬ 
tifico, ma l’approccio innovativo di 
Vaughan sta proprio nell’evitare ogni 
riferimento e citazione diretta se non 
nei dialoghi dei personaggi, rigeneran¬ 
do completamente il tema. Il protago¬ 
nista è un “artista della fuga” di nome 
Yorick, apertamente modellato auto¬ 
biograficamente dall’autore (il quale si 
vanta di aver tentato alcuni numeri da 


“mago della fuga” in gioventù). La dif¬ 
ferenza fra questo e un fumetto pro¬ 
priamente underground sta però nella 
narrazione: flashback e flashforward, 
indicatori temporali e spaziali, forme e 
stilemi del road movie fanno di Y un 
prodotto assolutamente hollywoodia¬ 
no. Non è un caso che New Line si sia 
accaparrata quasi immediatamente i 
diritti per un adattamento cinemato¬ 
grafico (con la delusione di molti fan 
che avrebbero preferito una serie tele¬ 
visiva). 

Chi abbia letto il fumetto, in tempi 
non sospetti, avrebbe potuto prevedere 
facilmente l’approdo di Vaughan, pre¬ 
sto o tardi, nel team di sceneggiatori di 
Lost. Tecniche drammatiche, tensioni e 
trasgressioni strutturali, dinamiche fra 
i personaggi e colpi di scena sono in¬ 
fatti pressoché analoghi nelle due sce¬ 
neggiature. Attualmente Vaughan è 
stato coinvolto in 11 episodi di Lost, 
senza dubbio fra i migliori della terza 
serie, fra i quali spicca Catch 22, di cui 
l’autore è stato l’unico a firmare la sce¬ 
neggiatura. L’episodio segue la vicenda 
di Desmond, personaggio ispirato ad 
Ulisse, viaggiatore e naufrago (nello 
spazio e nel tempo). La struttura della 
puntata, e lo stesso Desmond, ricalca¬ 
no lo schema della peripezia e il perso¬ 
naggio di Yorick, così come si possono 
leggere in Y: The Last Man. 

Al momento, a causa dello sciopero 
degli sceneggiatori e scrittori di Hol¬ 
lywood, di cui Vaughan è un fervente 
sostenitore, la scrittura degli episodi di 
Lost è ferma, ma l’autore è già impe¬ 
gnato nelle sceneggiature cinemato¬ 
grafiche di Y e di Ex Machina, anche 
questo opzionato da New Line. 

“Imagine The West Winjf meets Un- 
breakablé... unless you don’t like that 
crap, in which case, Ex Machina is 
completely different” 6 . 

Un ingegnere di nome Mitchell Hun- 
dred, in grado di parlare con le mac¬ 
chine e con qualsiasi apparecchio elet¬ 
tronico, è il protagonista di Ex Machi¬ 
na. Una serie costruita esclusivamente 
su due piani temporali, flashback e 
presente: nel passato, viene narrata la 
storia de “la grande macchina” (da una 
citazione di Thomas Jefferson), primo 
supereroe della storia, “mancato” data 
l’impossibilità per un personaggio do¬ 
tato di superpoteri di interagire in mo¬ 
do efficace con la società reale. Nel 
presente, che occupa la gran parte del 
racconto, seguiamo invece le “burocra¬ 
tiche” e assolutamente anti-spettacola- 
ri vicende dello stesso personaggio, di¬ 
venuto sindaco di New York. Il sinda¬ 
co Hundred, pur essendo un indipen¬ 
dente e tendenzialmente pragmatista, 
viene eletto anche grazie alla notorietà 
acquisita per aver dirottato uno dei 


due aerei diretti sulle torri gemelle, in 
un’America disperatamente bisognosa 
di eroi. Il riferimento di Vaughan all’e¬ 
lezione di Schwarzenegger in Califor¬ 
nia è evidente, ma non va sottovaluta¬ 
to il coinvolgimento dell’autore nell’e¬ 
sperienza traumatica dell’attentato, 
come si legge da alcune dichiarazioni 
in proposito di una mini-serie com¬ 
memorativa DC sui fatti del 9/11: “I 
watched thè towers fall from thè roof 
of my apartment in Brooklyn, so I was 
honored to get to donate something to 
DC’s 9/11 tribute collection. My short 
story explored how writers and artists 
could possibly do something as frivo- 
lous as work on comics while thè 
world was collapsing” 7 . In Ex Machina 
l’aspetto politico e autobiografico si 
fondono, e in modo assolutamente ri¬ 
schioso, mai banale: il personaggio 
principale dovrà confrontarsi con ma¬ 
trimoni gay, razzismo, sicurezza, reli¬ 
gione e quasi ogni altro tema “scottan¬ 
te” nel dibattito pubblico americano, 
soprattutto nella New York post-11 
settembre. 

Di tutt’altro genere sono invece Ru- 
naivays (2003-) e The Escapists (2006), 
produzioni inseribili nel filone più 
classicamente romanzesco di Vau¬ 
ghan. Il primo è un originale rilettura 
del mondo supereroistico: sei ragazzi¬ 
ni comuni scoprono che i propri geni¬ 
tori sono in realtà dei super-villaìns. Il 
secondo è invece ispirato al Pulitzer di 
Michael Chabon The AmazingAdven- 
tures of Kavalìer and Ciaf', e ne è pra¬ 
ticamente uno spin-ojf, ancora una 
volta sul tema della fuga. Kavalier e 
Clay sono due fumettisti del 1930 in 
fuga: il primo dall’Europa nazista, ver¬ 
so l’America, il secondo da un corpo 
distrutto dalla polio e dalla propria 
omosessualità repressa. Il fumetto di 
Vaughan, grandissimo fan di Chabon, 
segue invece le avventure di uno scrit¬ 
tore ebreo di Cleveland, Max Roth, il 
quale cerca di creare un fumetto in 
omaggio al padre, grande appassionato 
dell’“eroe escapista”: uno dei suoi col- 
laboratori assumerà nella vita reale le 
sembianze del supereroe per sventare 
un crimine, ma la situazione si farà 
presto, realisticamente, fuori-control- 
ìo. 

Infine, nel filone più politico di Vau¬ 
ghan, è centrale quello che possiamo 
considerare l’esperimento narrativo più 
letterario ed insieme più ambizioso 
dell’autore: Pride of Baghdad (2006). 
La graphic novel è basata sulla vera sto¬ 
ria di quattro leoni fuggiti dallo zoo 
durante i bombardamenti di Baghdad 
della primavera del 2003. In cerca di 
cibo, in una Baghdad deserta e deva¬ 
stata dalle esplosioni, i leoni sono divi¬ 
si da posizioni contrastanti sul signifi¬ 
cato della libertà e dall’incontro con 
altre razze animali, ognuna allegoria di 


SPECIALE 


58 


una diversa posizione sull’Iraq. Il con¬ 
cetto di autodeterminazione, il prezzo 
da pagare per un ordine sociale restrit¬ 
tivo o totalitario, l’alternativa del “tutti 
contro tutti”, sono alcuni dei dubbi 
politici e filosofici con cui i personag¬ 
gi animali sono costretti a confrontar¬ 
si brutalmente. Il fumetto è cautamen¬ 
te al di fuori della limitante propagan¬ 
da democratica anti-Bush, così come 
della semplice indignazione dei radi¬ 
cali americani. Esso consiste piuttosto 
nella rivisitazione di un canovaccio che 
trova il proprio archetipo nella Batra¬ 
comiomachia e nella commedia ani¬ 
male di Aristofane, ma soprattutto ha 
la propria consacrazione nella contem¬ 
poranea satira Animai Farm di Orwell. 
Se l’attenzione di questo romanzo era 
evidentemente puntata sul regime co¬ 
munista staliniano, esso consisteva, su 
un piano universale, di una profonda 
riflessione sul significato della libertà, 
e sui “pericoli” che ne possono deriva¬ 
re, all’emergere di una nuova élite di 
potere. Come allora Orwell, anche 
Vaughan per Prtde of Baghdad ha ini¬ 
zialmente incontrato restrizioni edito¬ 
riali, critiche illiberali e manifestazioni 
di sdegno, pur non essendosi mai 
schierato su posizioni antiamericane. 
Ci sembra dunque ancora oggi molto 
attuale quanto scritto dall’autore in¬ 
glese nel 1944, nella postfazione al li¬ 
bro, sul tema della libertà di stampa: 

Se libertà vuol dire veramente 
qualcosa, significa il diritto di dire 
alla gente quello che la gente non 
vuole sentire. La gente comune 
approva ancora vagamente questa 
idea e in base ad essa agisce. Nel 
nostro paese - non è lo stesso in 
tutti i paesi: non fù così nella 
Francia repubblicana e non è così 
negli Stati Uniti oggi - sono i li¬ 
berali che vogliono infamare il 
pensiero 9 . 

Maurizio Buquicchio 

Note 

1 Brian K.Vaughan in un’intervista contenuta nel 
suo sito ufficiale, http://bkv.tv. 

2 Ivi. 

3 Su questo fumetto, e in particolare sul suo rap¬ 
porto con le serie televisive, si veda: Stefano Ba- 
schiera, “ Y .: The Last Man e le serie Tv dei giorni 
nostri”, Cinergie, n. 9, marzo 2005, pp. 34-35. 

4 Nota serie televisiva, sul Presidente degli Stati 
Uniti, prodotta fra il 1999 e il 2006. 

5 Unbreakable (M. Night Shyamalan, 2000). 

6 Brian K. Vaughan in op. cit. 

7 Ivi. 

8 Michael Chabon, The Amazing Adventures of 
Kavalìer and Clay, New York, Random House, 
2000. 

9 George Orwell, “Libertà di stampa”, in La fat¬ 
torìa degli animali , Milano, Mondadori, 1995, p. 
115. 


Lo splendore della vita di ogni 
giorno 

American Splendor. La vita e le stagio¬ 
ni di Harvey Pekar tra cinema e fu¬ 
metto 

“Ordinary fife is pretty complex 
, stufi!” 

Harvey Pekar 

1980. Il Village Voice, periodico 
newyorchese, pubblica un lusinghiero 
articolo su American Splendor, fumetto 
underground interamente scritto, fi¬ 
nanziato e distribuito da una sola per¬ 
sona: Harvey Pekar, un impiegato 
pubblico di Cleveland. Poco tempo 
dopo Pekar viene contattato dal regista 
Jonathan Demme e dal produttore te¬ 
levisivo Alan Sacks, e nel corso dei pri¬ 
mi anni Ottanta American Splendor ot¬ 
tiene tre diversi adattamenti teatrali, 
mentre Pekar si fa conoscere al grande 
pubblico tramite una serie di appari¬ 
zioni come ospite al popolare talk- 
show condotto da David Letterman. 
Nel corso degli anni Novanta Pekar 
ottiene l’interessamento di Ted Hope, 
produttore connesso alla Good Ma¬ 
chine, una compagnia di produzione e 
distribuzione indipendente. Hope, no¬ 
me benaugurante, chiede a Pekar di 
stendere una sceneggiatura cinemato¬ 
grafica e suggerisce l’idea di farlo ap¬ 
parire nel film accanto all’attore desi¬ 
gnato per interpretarlo, idea con cui 
concordano pienamente i registi di do¬ 
cumentari Robert Pulcini e Shari 
Springer. Hope ottiene un finanzia¬ 
mento dalla HBO e così le riprese del 
film possono partire. La location pre¬ 
scelta è la citta di Pekar, Cleveland, 
siamo nel novembre del 2001. Pekar 
vive le riprese in prima persona diven¬ 
tando una presenza assidua sul set. In 
seguito assiste all’anteprima di Ameri¬ 
can Splendor presso il Sundance Film 
Festival dove realizza che si tratta di 
un film “innovativo”: “Bob and Shari 
mixed different Forms — documentary, 
narrative fiction, animation and stili 
photo of cartoons” 1 . La coppia di regi¬ 
sti, ispirandosi al fatto che Harvey è 
stato disegnato da una miriade di arti¬ 
sti nel corso degli anni 2 , sperimentano 
un casting multiplo. Pekar appare nel 
film, viene intervistato da Shari Sprin¬ 
ger Berman in voice-off, introduce gli 
episodi, s’aggira per le gelide strade di 
Cleveland, ma è al contempo interpre¬ 
tato da Paul Giamatti e da Donai Lo- 
gue. Il gioco degli avatar riconduce 
sempre a lui, alle sue ossessioni, ai suoi 
tic: è uno studio celebrativo di questo 
anti-eroé della everyday lìfe americana. 
Il film è fresco e piacevole, e zigzagan¬ 
do tra animazione e ripresa fotografica 
gioca ad interpolare la cornice della vi¬ 
gnetta con i bordi dell’inquadratura. 


Gli interpreti sono azzeccati, in parti¬ 
colare l’interpretazione di Paul Gia¬ 
matti, costretto a confrontarsi con il 
Pekar originale, è magistrale. Giamatti 
trasforma e condensa le smorfie ner¬ 
vose ed il birignao slang di Pekar in 
un’interpretazione plasticamente ade¬ 
rente ai valori grafici elaborati dal fu¬ 
metto, sopratutto in chiave Robert 
Crumb: la giostra dei denti, il saltella¬ 
mento nervoso da una gamba all’altra, 
la voce rauca, la goffa postura, la smor¬ 
fia sghemba che attraversa il viso, la 
maschera raggelata dell’espressione 
che si apre a brevi squarci di micro¬ 
mimica allusiva. Un “gioco performa¬ 
tivo”, forse il primo caso di un’inter¬ 
pretazione integralmente ispirata da 
un’iconografia fumettistica. Le imma¬ 
gini sono arricchite da una bella co¬ 
lonna sonora jazz scelta sulla base di 
una consulenza fornita dallo stesso 
Pekar, che ha esercitato per diversi an¬ 
ni la critica discografica. Il film non fa¬ 
tica a conquistarsi la vittoria al Sun¬ 
dance. Questi dati non li ho ricavati da 
un articolo o da un saggio, ma da un 
fumetto scritto dallo stesso Harvey 
Pekar 3 , perché è questa la caratteristica 
più affascinante del personaggio: 
Pekar da oltre trentanni mette la pro¬ 
pria vita in un fumetto. 

American Splendor, ilfumetto 

Per presentare American Splendor è uti¬ 
le rifarsi all’introduzione scritta da 
Robert Crumb destinata alla prima 
raccolta antologica del fumetto 4 . 
Crumb ricorda il primo incontro con 
Pekar descrivendolo come un autenti¬ 
co hipster, frenetico nel parlare e nel 
muoversi, fanatico di jazz moderno e 
grande collezionista di libri e vinili 
mentre la cifra della monomaniacalità 
viene posta alle fondamenta di un fu¬ 
metto auto-prodotto e distribuito a 
mano, nel più completo isolamento ar¬ 
tistico e culturale dalla “scena” edito¬ 
riale californiana o newyorkese. Il pri¬ 
mo incontro tra Crumb e Pekar viene 
rievocato in un fumetto del 1979: The 
Young Crumb Story 1 . Pekar si interessa 
gradualmente al nuovo ambiente degli 
underground comix di cui Crumb di¬ 
venta in breve tempo il principale 
esponente 6 . Dopo una serie di rifles¬ 
sioni e vicissitudini perviene a queste 
conclusioni: 

The guys who do that animai 
comic ari super-hero stuff for 
straight comics are really limited 
because they gotta try t’appeal to 
kids. Th’ guys who do under¬ 
ground comics have really opened 
things up, but there are" stili plenty 
more things that can be done with 
em, they got great potential. You 
c’n do as much with comics as thè 


novel or movies or plays or any- 
thing. Comics are words ari pic- 
tures; you c’n do anything with 
words ari pictures! 7 


Un termine che comparirà spesso nei 
suoi fumetti è la parola “cheap” che 
vuol dire economico, povero, ma anche 
“avaro”, accusa che Pekar riceve spesso 
nella sua quotidianomachia. “You’re 
cheap!” si sente dire dalla ragazza con 
cui esce o dal collega d’ufficio a cui 
scrocca un passaggio in macchina o 
una fetta di torta. Il concetto di pove¬ 
ro e di economico per Pekar, che colle¬ 
ziona old things e si veste second hand 
va bene, funziona, è affine alla flessibi¬ 
lità stessa che permette il fumetto. 
L’importante per lui è l’urgenza di 
esprimersi, e di spendere bene i propri 
soldi nel farlo. Lo scenario in cui si 
muove è Cleveland. Gli anni narrati da 
Pekar nelle sue prime storie, le più du¬ 
re e pure, riflettono l’incertezza di una 
metropoli che negli anni Sessanta, do¬ 
po aver vissuto un breve momento di 
espansione dell’industria pesante, è av¬ 
viata verso il declino, fase che porta ad 
un vasto movimento di periferizzazio- 
ne e rapida degenerazione nella qualità 
della vita allocata nei nuovi slums. 
Pekar si muove in questo contesto co¬ 
me un personaggio assolutamente in¬ 
tegrato al paesaggio suburbano con le 
sue subculture. Alcuni dei suoi fumet¬ 
ti raccontano il periodo della depres¬ 
sione economica e delle tensioni raz¬ 
ziali, i cosiddetti Hough Rìots del 1966 
(dal nome della comunità di colore di 
Hough, dove si generarono gli scon¬ 
tri). Questa prima stagione di Ameri¬ 
can Splendor che va dal 1976 alla metà 
degli anni Ottanta circa, coincide con 
una cruda, realistica rappresentazione 
della working-class americana, ad 
esempio in Rolline on Time (1978) op¬ 
pure in Visua/ize, Actualize, Realize 
(1979) 8 . Non mancano le vicende pri¬ 
vate, lo sguardo impietoso sul duplice 
fallimento coniugale, la solitudine, il 
tedio, le amare e malinconiche rifles¬ 
sioni sull’esistenza ed il decadimento 
biologico. Buona parte della produzio¬ 
ne di Pekar aspira alla confessione let¬ 
teraria ascendendo alla funzione catar¬ 
tica più remota e significativa della la¬ 
mentazione, come in A Ride Home 
(1983) 9 . Le sue radici ebraiche affiora¬ 
no in una vicenda di passaggi in mac¬ 
china gratuiti: Free Rìde (1984) 10 , dove 
si affronta il nodo del sionismo, che 
Pekar liquida in pochi giri di parole: 
“Oh, Man this guy wants thè jews 
t’have their own country aribe strong 
so they can walk all over people thè 
way they been walked ori’ 11 . A questa 
prima fase, più esistenzialista e “prole¬ 
taria”, seguiranno altri numeri della 
prima serie originale di American 
Splendor, quasi interamente autopro- 




SPECIALE 


dotta, che termina nel 1993. Dal 1994 
Pekar scriverà dei numeri addizionali 
di American Splendor per la Dark Hor- 
se Comics, produrrà due graphic novel 
e nel settembre del 2006 realizzerà una 
mini-serie di quattro numeri di Ameri¬ 
can Spendor per la Vertigo, marchio in¬ 
die della DC Comics. Nella citata in¬ 
troduzione, Crumb sottolinea l’origi¬ 
nalità dell’approccio di Pekar, difficile 
da trovare in letteratura, impossibile 
nei film o nella televisione. Pekar è un 
Emile Zola senza carnet che scrive di 
quello, che ha visto mentre le cose gli 
sono ancora fresche in mente, e com¬ 
pone le sceneggiature per i fumetti 
usando quegli omini fatti a bastoncino 
che disegnano i bambini. Il rapporto 
che stabilisce con i disegnatori a cui 
commissiona le storie tende ad impe¬ 
dire che questi ricadano in uno stile 
standardizzato da fumetto supereroi- 
stico, e questo molto prima che l’esplo¬ 
sione di Frank Miller o Alan Moore 
popolarizzasse la tipologia d’approc¬ 
cio. Tale lucida metodologia ha per¬ 
messo delle esplorazioni formali: ad 
esempio il disegnatore Gerry Shamray 
ha lavorato basandosi su una serie di 
foto di Pekar e della moglie prese nel 
loro appartamento. Aggiunge il sotto- 
scritto che il “caso Pekar” ha la nota di 
merito di aver rappresentato quasi un 
unicum nel panorama dell’industriale 
editoriale del fumetto corrotta dai 
prezzi, dal comics code , dal sistema di 
distribuzione e smaltimento o dal pre¬ 
dominio vessatorio dei generi “di suc¬ 
cesso”. Per una tassonomia minima dei 
generi praticati da Harvey Pekar: la 
fantasia, la confessione, la conferenza- 
imbonimento del lettore, il micro¬ 
evento quotidiano, la recensione, le ge¬ 
sta di jazzisti e di uomini non illustri, 
il piccolo pantheon del consueto e del¬ 
l’ordinario. A queste forme ne va ag¬ 
giunta un’altra che si auto-organizza 
perimetrando il tempo vissuto secondo 
un evento concluso: il cancro, o la ge¬ 
nesi del film American Splendor, come 
indicano gli stessi titoli delle graphic 
novel scritte in collaborazione con la 
nuova compagna Joyce Brabner Our 
Cancer Year (1994) e Our Movie Year 
(2004). 

American Splendor .; il film 

Se il fumetto moderno e contempora¬ 
neo “mima” il cinema per ricostruirne 
atmosfere e ritmi, come hanno pun¬ 
tualizzato gli studi di Daniele Barbieri 
ed Alberto Abruzzese, nel caso di 
American Splendor (2003) di Robert 
llplcini e Shari Springer Berman è 
evidente lo sforzo di capovolgere que¬ 
sta tendenza e di “saltare” tra le maghe 
delle diverse modalità espressive di fu¬ 
metto + cinema: il film è un marchin¬ 
gegno intertestuale che scivola tra le 


diverse combinazioni possibili del rap¬ 
porto tra finzione disegnata e storia 
narrata per immagini in movimento e 
le declina nelle variabili della recita, 
Fanalisi, l’intervista, l’auto-rappresen- 
tazione, l’interpellazione, ecc... Nel¬ 
l’incipit viene inserito un episodio 
apocrifo di Pekar bambino che fa il 
tradizionale giro del quartiere durante 
Halloween ma senza il tradizionale 
costumino da superore, suscitando co¬ 
sì lo sgomento della vicina di casa, il 
che dovrebbe suggerire la connaturata 
tendenza di Pekar a scostarsi dal main- 
stream fumettistico (ma tutto ciò sem¬ 
bra configurato come un manifesto del 
cinema indipendente da cui provengo¬ 
no gli stessi registi). I titoli di testa ri¬ 
badiscono le intenzioni di coniugare il 
dominio dell’impaginazione delle vi¬ 
gnette con il campo dell’inquadratura 
cinematografica, verso una sorta di 
mixed media. Il set dell’intervista a 
Pekar è uno sfondo bianco che sugge¬ 
risce l’analogia con la pagina del fu¬ 
metto ed appaiono integrate all’in¬ 
quadratura delle scritte non locutive, 
che riportano delle indicazioni spazio¬ 
temporali ad emulazione della dida¬ 
scalia fumettistica. Un’altra sequenza 
mette in continuità la messinscena sul 
set ed il suo retroscena, dove compaio¬ 
no i personaggi reali (Pekar e Radloff ) 
che sono stati appena rappresentati 
dagli attori. In un’altra, ispirata ad un 
fumetto del 1978 disegnato da 
Crumb: Standing Behind Old Jewish 
Ladies in Supermarket Lines (1978) 12 , 
l’inquadratura viene splittata per dar 
luogo ad un pensiero di Giamatti vi¬ 
sualizzato con il Pekar disegnato da 
Crumb che interviene a viva voce. In 
un’altra sequenza, dove compare il “sa¬ 
lomonico” Mr. Boats, supervisore col¬ 
lega di Pekar e grande dispensatore di 
saggezza popolare, il profilmico è di¬ 
sposto per coincidere esattamente con 
i contorni di una copertina di Ameri¬ 
can Splendor. Le apparizioni televisive 
di Pekar al David Letterman Show so¬ 
no “citate” attraverso l’inquadratura di 
un televisore. Ma la sequenza visiva¬ 
mente più interessante è quella dedi¬ 
cata alla trasposizione di uno dei fil¬ 
metti più belli della serie American 
Splendor, ossia: The Harvey Pekar No¬ 
me Story, disegnato da Robert Crumb 
nel 1977 13 . Qui Giamatti si muove in 
uno spazio vuoto digitalizzato con il 
blue screen. Nel bianco compare una ri¬ 
ga che lo segue, a tracciare i contorni 
di una vignetta, e lo sfondo presto si 
riempie di linee che si richiamano allo 
stile del tratteggio “sporco” di Crumb 
per poi dissolvere in una strada inne¬ 
vata. Se la sequenza disattende la po¬ 
tente frontalità del fumetto originario, 
tesa a comunicare un disagio estrania¬ 
to, comunque convince come uno dei 
momenti più febei a monte di queste 


continue prove e riprove di convivenza 
tra cinema e fumetto. Si può dire allo¬ 
ra il film costruisce un work in progress 
“cross-mediale” che si svolge sotto gli 
occhi dello spettatore appellandosi 
molto alla nozione già assodata di ci¬ 
nema “postmoderno”. Ma sostanzial¬ 
mente, se lo riportiamo alla struttura 
essenziale, si tratta di una docu-fiction 
su Pekar, in cui allo stesso Pekar viene 
chiesto di commentare alcuni episodi 
di American Splendor ed introdurre i 
caratteri che ne popolano le vicende. 
Da questi spunti emergono continui 
“focus” drammatizzati che sostanzial¬ 
mente seguono una linea cronologica 
piuttosto lineare, coincidendo con la 
vita e le stagioni di Pekar. Alla fine del 
film la linea della narrazione e quella 
della vita reale del narratore coincido¬ 
no: il film si chiude con le immagini di 
Pekar che festeggia il pensionamento 
con la famiglia. In generale i registi 
Robert Pulcini e Shari Springer Ber¬ 
man si premurano di mantenere una 
certa aderenza al realismo spigoloso 
del fumetto, ma non mancano le dete¬ 
stabili concessioni alla drammatizza¬ 
zione hollywoodiana: si veda ad esem¬ 
pio la differenza tra lo sguardo com¬ 
mosso e minimale praticato da Pekar 
su un avvenimento per lui saliente co¬ 
me la conoscenza della sua futura ter¬ 
za moglie, in DearMr. Pekar: WhatDo 
I Do For a Living... Costumes, Comics 
and Convicts 14 , e l’edulcorazione pseu- 
do-hoolywoodiana dello stesso episo¬ 
dio, nel film. 

La discutibile pesantezza dell’essere 

Pekar, con i suoi avatar d’inchiostro, lo 
si guarda come una cosa desiderabile, 
l’energia nervosa di cui si carica crepi¬ 
tando è l’energia degli schiavi che bru¬ 
licano nel corpo decomposto delle 
grandi aree depresse nelle metropoli 
nordamericane. Il suo regalo più gran¬ 
de alla letteratura “popolare” di questo 


secolo letterario ' (che per quanto sia 
breve, non è ancora finito) è il suo por¬ 
si come heteros autos. Pekar è indimen¬ 
ticabile nella graziosa levità del suo di¬ 
venire altro dello stesso, in quel colpo 
di calcagni con cui eleva la materia gri¬ 
gia di cui sono impregnati i buchi neri 
dell’esistenza verso la luce con cui ce la 
fa guardare, quasi verso un’auralità del 
percetto (seguendo l’indicazione del¬ 
l’unico maestro che si è fatto ricono¬ 
scere: “Avvertire l’aura di una cosa si¬ 
gnifica dotarla della capacità di guar¬ 
dare”) 15 , rendendo riconoscibile un 
tratto di vita altrimenti persa nelle cor¬ 
renti di uno sciabordio informe. Pekar 
si incide nella nostra mente con un er¬ 
pice kafkiano, ci tatua della sua esi¬ 
stenza. E ci si affeziona a questo every- 
man di periferia, che ci interpella per 
lenirsi i piccoli tagli e le contusioni ad¬ 
dolcendo un po’ anche la nostra vita e 
così facendo ci accomuna nei segmen¬ 
ti di una prossimità umana. Non sto 
soltanto proponendo di includere nel 
prossimo Voyager una copia di Ameri¬ 
can Splendor, sto cercando di dire che 
Pekar ci inscrive in una categoria, non 
nuova, ma ancora non emersa sotto le 
cure di un qualche Foucault, una cate¬ 
goria antropologica dell’uomo con¬ 
temporaneo. Ed il tratto notevole di 
questa emersione è rappresentato pro¬ 
prio dal mezzo che egli ha prescelto 
per concretarla: il fumetto, per le ra¬ 
gioni non minori della sua propria for¬ 
za di espressione. E la cosa più notevo¬ 
le del gesto è che rasentando quasi la 
non-espressione finisce per ritrovare 
appieno quel gusto equipollente della 
creazione che non decresce di dignità 
rispetto a qualsiasi altro medium d’e¬ 
vocazione creativa. Gli storici “annali¬ 
sti” francesi hanno scoperto il valore 
della microstoria e dei “testimoni loro 
malgrado”, e allora, Pekar è un testi¬ 
mone volontariamente involontario: in 
lui scorre un flusso elettrico di curio¬ 
sità inesausta e logorroica, la volontà di 



59 







































SPECIALE 


60 marchiare tutto, dare un’opinione su 
tutto, ed oltre a tutto questo c’è una 
parte, ancora da depurare, di testimo¬ 
nianza preziosissima. Il suo sguardo 
estremamente lucido e spietato lo ac¬ 
comuna ad alcuni dei più importanti 
realisti americani contemporanei. 
D’altronde Pekar, tratto sottolineato 
nel film, nasce come collezionista 
compulsivo, rivelando tratti di un 
comportamento favorevole alla reifica¬ 
zione, difatti prima di scrivere storie a 
fumetti vinceva l’ansia esistenziale 
con il metodo del junk che si strafa di 
dischi. Pekar in questa fase ben de¬ 
scritta in American Splendor sarebbe un 
“cugino Pons”, a cui si accosta per 
sciatteria e passione divorante, se non 
fosse che la sua collezione è puramen¬ 
te affettiva, priva come d’ogni valore 
materiale. Ma questo non ci deve stu¬ 
pire: Pekar, giustamente ripreso da 
Berman e Pulcini come stagliato su 
uno sfondo dove compaiono scatole 
colme di dischi, rimane un collezioni¬ 
sta che ripone nelle griglie delle sue vi¬ 
gnette i multipli esemplari di un umi¬ 
le ma dignitosissimo proletariato uma¬ 
no: nerds, scansafatiche, hobos ,. donne 
di facili costumi, lunatici, vecchi trom¬ 
boni pieni di consigli improbabili, 
scrocconi, ecc... Mi rifaccio allo studio 
di Michel Foucault sulle coordinate 
ontologiche della parola “autore”, stu¬ 
dio recentemente analizzato da Gior¬ 
gio Agamben il quale commenta: “la 
funzione-autore appare come un pro¬ 
cesso di soggettivazione attraverso il 
quale un individuo è identificato e co¬ 
stituito come autore di un certo corpus 
di testi” 16 ; e credo si possa parimenti 
sostenere che nel processo di capitaliz¬ 
zazione della funzione-autore, a cui 
aspira la Grande Scimmia dell’imma- 
gine-merce, la funzione-autore è già 
lacerata nel momento in cui viene sog- 
gettivizzata attraverso lo stesso effetto 
di corpus indotto dal nome dell’autore 
stesso, passaggio che segna il limite 
anche della funzione-lettore. Sono gli 
effetti speciali intorno alla Grande 
Scimmia, come nella celebre sequenza 
di Videodrome (David Cronenberg, 
1983) dove lo schermo viscoso e pul¬ 
sante di un televisore fagocita lo spet¬ 
tatore (sequenza che ha regalato una 
volta per tutte al nostro immaginario 
una perfetta rappresentazione deE’Io 
che sparisce dietro l’ingloriosa marcia 
della marcescenza dell’Aura) “illustra” 
gli effetti della fruizione di un segno 
autoriale che è già morto sul suo na¬ 
scere. Allora, posso capovolgere la sen¬ 
tenza agambeniana per cui “porsi come 
autore significa occupare il posto di un 
morto”. Pekar è difatti il caso di un ta- 
natografo già morto nel momento in 
cui scrive, ma ciò che a lui interessa 
non è tanto rileggere il soggetto al di là 
del suo tramonto, bensì produrre un 


ampliamento di quella che è sempre 
stata la posizione dell’autore a mo di 
“esèrgo”, ossia la foto sul retro del li¬ 
bro, in cui la funzione-autore e l’auto¬ 
re stesso s’abbracciano definitivamen¬ 
te. Quello che gli interessa è boxare a 
lungo con la sua ombra, produrre un 
incontro con noi, farsi ascoltare, ed in 
questo la sua scrittura briccona e smar¬ 
giassa, cioè “pekaresca”, si riafferma 
come un episodio sostanziale non del 
cinema, non del fumetto, bensì un epi¬ 
sodio della storia della lettura , se consi¬ 
deriamo la lettura un gesto controrea¬ 
gente al dispositivo che la produce, un 
apporto all’umanità dotato di direzio¬ 
ne, tempo ed infine di un’etica: “come 
presenza di un corpo vivo in un mon¬ 
do vivo che può essere salvezza quanto 
minaccia, negazione e affermazione, e 
certo esige il riconoscimento del no¬ 
stro essere sempre in cammino alla ri¬ 
cerca di un senso, di una figura ove an¬ 
che il disordine si trasformi in presagio 
di ordine” 17 . Pekar è una figura in fu¬ 
ga, o in viaggio, verso qualcosa di me¬ 
no che una ricerca sistematica, qualco¬ 
sa di più che un diario, qualcuno che 
cerca una comunicazione resistente, o 
quanto meno di buttare una manciata 
di cemento a presa rapida sul mondo 
che gli sfugge sotto i piedi. Solo il fil¬ 
metto forse poteva fermare questa 
scheggia impazzita. E allora possiamo 
intuire finalmente cos’è il fumetto per 
Harvey Pekar: è qualcosa tra la stretta 
gelida e famelica della strada ed una li¬ 
vida insonnia, tra il tedio e l’ipercineti- 
smo del pazzo, è qualcosa di molto si¬ 
mile a quanto è stato descritto da quel¬ 
la poesia di Léonard Cohen, che reci¬ 
ta: 

Non mi sono suicidato 
quando le cose andavano male 
Non mi sono dato 
alla droga o all’insegnamento 
Ho cercato di dormire 
e visto che non ci riuscivo 
ho imparato a scrivere 
ho imparato a scrivere 
cose che uno come me 
avrebbe letto 
in una notte così 18 

Davide Gherardi 


Note 

1 Harvey Pekar, “The American Splendor 
Movie”, ora in Harvey Pekar, American Splendor. 
Our Movie Year , New York, Ballantine Books, 
2004, p. 15. 

2 Airindirizzo http://joshcomix.home.mind- 
spring.com/and/pekar_artists/index.html si trova 
una lista pressoché completa fino al 2006 dell’as¬ 
sortimento di artisti che hanno illustrato le storie 
di Harvey Pekar, dalla “A” di L.B. Armstrong alla 
“Z” di Mark Zingarelli. 

3 H. Pekar, “The American Splendor Movie”, 
cit., pp. 2-19. 

4 Robert Crumb, “Introduction” (1985), in Har¬ 
vey Pekar, American Splendor. The Life and Times 
of Harvey Pekar , New York, Ballantine Books, 
2003. 

5 Harvey Pekar, Robert Crumb, “The Young 
Crumb Story”, 1979, ora in H. Pekar, American 
Splendor. The Life and Times of Harvey Pekar , cit., 
s.p. 

6 Gli underground comix sono “un’esplosiva misce¬ 
la di sesso, politica, reminiscenze dei fumetti del¬ 
l’orrore, comicità goliardica, riferimenti alla rivista 
‘Mad’, ricerche formali, effetti grafici e psichede¬ 
lici, neologismi gergali”. Vedi Pietro Favari, Le 
nuvole parlanti , Bari, Dedalo, 1996, p. 123. 

7 H. Pekar, American Splendor. The Life and Times 
of Harvey Pekar , cit., s.p 

8 Ibidem, s.p. 

9 Ibidem, s.p. 

10 Ibidem, s.p. 

11 Ibidem, s.p. 


12 Ibidem, s.p. 

13 Ibidem, s.p. 

14 Ibidem, s.p. 

15 Walter Benjamin, “Di alcuni motivi in Baude¬ 
laire”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Tori¬ 
no, Einaudi, 1995, p. 124. 

16 Giorgio Agamben, “L’autore come gesto”, in 
Profanazioni, Roma, nottetempo, 2005, p. 71. 

17 Ezio Raimondi, Un'etica del lettore, Bologna, Il 
Mulino, 2007, p. 75. 

18 Léonard Cohen, “Questa- è l’unica poesia”, in 
L'energia degli schiavi, Roma, minimum fax, 2003, 
p.97. 


nm OFF THE STKEETS OFCLRfElM COMES... 



WS3MÌ$ 

m LIFE m TIMES Am PEKAR 
















S P E CI ALE 


'/Brothers e il debutto di Woo nel 
mondo dei comics 


Per introdurre a grandi linee un fu¬ 
metto come Severi Brothers (John 
Woo/Garth Ennis, Virgin Comics, 
2007) bisogna per un attimo andare al 
cinico marketing presente nell’attuale 
intenso scambio cinema-fumetto per 
poi, solo in un secondo momento, ana¬ 
lizzare gli apporti linguistici (se pre- 
: senti) che un regista come Woo ha sa¬ 
puto apportare al media fumetto e co- 
me e re si è saputo adattare all’arte se- 
; quenziale. 

Ma prima, per l’appunto, Marketing, e 
:| anche a costo di risultar piatti scontati 
gse banali dobbiamo ricordare come il 
portare su celluloide un personaggio 
dei fumetti dal nome già conosciuto al 
grande pubblico possa far risparmiare 
diversi soldi nel promuovere il film 
| stesso (e parecchi soldi sono investiti 
nella promozione). Lo stesso, ovvia¬ 
mente, avviene in direzione opposta, 
intani anche se parliamo di un merca- 
to ben diverso in termini di numeri e 
( soldi non si può ignorare come i fu- 
metti tendano ad allungare su carta le 
avventure filmiche di popolari perso- 
(paggi che proprio non vogliono uscire 
((dall’immaginario collettivo - Night- 
|:mare (Wes Craven, 1986) è ancora vi¬ 
llo nelle vignette 1 , così come i perso¬ 
naggi de L'armata delle tenebre 2 (Sam 
Raimi, 1992) - o come costantemente 
ripresentino versioni a vignette dei 
film in sala, da Star Wars (George Lu- 
cas, 1977) a Kill Bill (Quentin Taran- 
tino, 2003-2004), in una forma di 
“adattamento popolare” che un tempo 
fu dei romanzi. 

Bene, fin qui nulla di nuovo e nemme¬ 
no di particolarmente interesse, ma 
quando il colosso Virgin ha deciso nel 
2006 di dedicarsi anche a fumetti (in- 
sieme a videogames per cellulari e car¬ 
bòni animati), non solo ha aperto una 
sede in India e un website molto ac¬ 
cattivante 3 , ma ha anche arruolato un 
regista come Shekhar Kapur tra i suoi 
creatori e amministratori e fin da subi¬ 
to ha scelto il fumetto come media at- 
torno al quale far ruotare diverse per¬ 
sonalità provenienti dai più disparati 
campi dell’intrattenimento. Infatti, per 
emergere in un mercato quanto mai 
vario e saturo come quello del fumet¬ 
to, la Virgin Comics ha puntato con 
decisione verso la ricerca di nomi già 
conosciuti dal grande pubblico da 
■Stampare sulla patinata prima pagina 
;i|ei loro prodotti, scegliendo non per¬ 
sonaggi di finzione e titoli cinemato- 
giafici ma, piuttosto, i loro creatori. 
Una manovra, questa, forse non parti¬ 
colarmente nuova nel panorama fh- 
mettistico (dove uno scambio di auto- 
ri con altri media è sempre stato pre¬ 


sente) ma interessante perché la Vir¬ 
gin Comics sta provando a definire la 
sua identità a fumetti proprio attorno 
a quest’idea di “apertura autoriale”; ba¬ 
sti pensare ai nomi delle varie collane 
come “Director’s cut” e “Virgin’s voi- 
ces”. 

Quindi, idea di base della Virgin Co¬ 
mics: accogliere intellighenzia da altri 
media e dargli possibilità di esprimer¬ 
si a fumetti affiancandogli, ovviamen¬ 
te, professionisti del settore. Tra i nomi 
che campeggiano prima del titolo del¬ 
le varie serie abbiamo: Nicholas Cage 
& figlio, Dave Stewart (co-fondatore 
degli Eurythmics), Jenna Jameson; 
Guy Ritchie e, appunto, John Woo. 
Questa è solo una breve introduzione 
al nuovo panorama Virgin e sembra 
evidente come il titolo 7 Brothers idea¬ 
to da John Woo e sceneggiato da 
Garth Ennis appaia come il prodotto 
più accattivante. Innanzitutto Woo è 
un regista che ha un che di fumettisti- 
co nei suoi film e a sua volta ha indi¬ 
rettamente ispirato una generazione di 
sceneggiatori di comics; lo stesso En¬ 
nis gli rese omaggio nella serie Hitman 
(DC Comics, 1993), per temi, tropi e 
personaggi. In secondo luogo, la pre¬ 
senza dello sceneggiatore irlandese è 
una garanzia di un’unità d’intenti, con¬ 
tinuità stilistica e di una dose di origi¬ 
nalità linguistica con il lavoro di Woo. 
Se il regista di Hong Kong non ha bi¬ 
sogno di presentazioni sembra neces¬ 
sario ricordare come Ennis sia un mo¬ 
stro sacro del fumetto a stelle e strisce 
degli anni Novanta-Duemila, ha scrit¬ 
to per le più importanti case editrici al 
mondo (dalla Marvel alla Top Cow 
ecc.), è il creatore di Preacher (Ennis, 
Dillon; 1995, Vertigo), sceneggiatore 
di Hellblazer (1988-, Vertigo) e prota¬ 
gonista del restyling dello scomodo 
Punisher (Ennis, Dillon; 2001-2004, 
Marvel Max), incoronato nel 1998 co¬ 
me miglior scrittore agli Eisner 
Awards (per il quale è stato candidato 
cinque volte) e via dicendo. Il suo trat¬ 
to caratteristico è una rappresentazio¬ 
ne assolutamente spettacolare della 
violenza e un uso creativo del turpilo¬ 
quio. Insomma, dalla fantasia di un re¬ 
gista come Woo, libera da ogni impe¬ 
dimento “produttivo” del mezzo cine¬ 
matografico, e dalla maestria narrativa 
di Ennis sembrerebbe lecito aspettarsi 
- per una volta - un debutto significa¬ 
tivo nei fumetti da parte di un regista. 

Global? 

Un altro dei tratti caratteristici della 
Virgin Comics è quello di aver forti 
contaminazioni con l’immaginario 
orientale, indiano in primis. A parte il 
processo di outsourcing (manifestato e 
sottolineato anche nella presentazione 
nel loro website) una delle loro collane 


di fumetti (la collana “indiana” è chia¬ 
mata Shakti ) è dedicata a prodotti che 
si riferiscono direttamente all’immagi¬ 
nario indiano, sia per tratti iconografi¬ 
ci sia per orizzonti “filosofici”, tagliati 
ovviamente con l’accetta. Senza ad¬ 
dentrarci troppo in questo orientali¬ 
smo - ci sarebbe anche da discutere su 
quale idea di Oriente appaia tra queste 
pagine e sul mercato di riferimento di 
questi prodotti - diciamo solo che 
quest’idea di voler rappresentare un 
mondo quanto mai globale, anche se 
con il centro in Usa, è centrale in 
7Brothers. La storia stessa è l’adatta¬ 
mento di una leggenda cinese, la prima 
a raccontare di “supereroi”: dieci fra¬ 
telli con dieci diversi superpoteri si 
uniscono per difendere i lavoratori 
della Grande Muraglia. Ennis e Woo 
riadattano questa leggenda ai tempi 
moderni, cercando di spingere sul ta¬ 
sto del “piccolo mondo globale” e del 
“tutti possono esser supereroi, anche i 
più insospettabili”. 

Infatti, tra i protagonisti abbiamo ci¬ 
nesi (ovviamente), africani, medio¬ 
rientali, nativi americani, caucasici e 
via dicendo, tutti fortemente stereoti¬ 
pati e allo stesso tempo somiglianti tra 
loro nel tratto “sporco” di Jeevan Kang. 
Ogni personaggio ha anche una ste¬ 
reotipa “storia epifanica” dei propri po¬ 
teri, direttamente collegata al luogo di 
origine: il palestinese che con la sola 
voce riesce a distruggere un elicottero 
israeliano in procinto di bombardare la 
sua casa, l’africano in mezzo a una 
guerra civile, ecc.; insomma, un mondo 
globale 4 , diversificato ma assoluta- 
mente piatto e familiare con epicentro 
(manco a dirlo) negli Stati Uniti. 

Trama 

La trama della prima serie si sviluppa 
con una banalità sconcertante che 
emerge anche in poche righe di sinte¬ 
si: la Cina ha girato il globo prima di 
Magellano e Colombo ma ogni traccia 
è stata volutamente cancellata dalla 
storia perché i costi delle spedizioni 
avevano ridotto il paese sul lastrico du¬ 
rante un periodo di carestie. Sulle navi 
che viaggiarono in ogni angolo del 
pianeta cera anche un arcimago chia¬ 
mato Son of Hell e il suo apprendista 
Fong: il primo era impegnato a trac¬ 
ciare con particolari pietre le “linee del 
drago” che gli dovevano permettere di 
controllare gli elementi naturali e vir¬ 
tualmente il mondo stesso. Fong dal 
canto suo, sapendo degli intenti male¬ 
fici del suo maestro, decise di lasciare 
anch’esso il suo marchio sulle linee del 
drago, in questo caso fertilizzando 
donne locali in modo da avere una 
progenie. Entrambi i piani fallirono 
miseramente quando l’imperatore del¬ 
la Cina decise di mettere al bando ul¬ 


teriori spedizioni, e Fong con uno 
scontro all’ultimo sangue riuscì a im¬ 
prigionare Son of Hell in fondo a una 
montagna prima che potesse vendicar¬ 
si dell’imperatore. Ai giorni nostri, una 
ragazza cinese raccoglie attorno a sé 
sette personaggi provenienti da ogni 
parte del mondo, ognuno ha dei pote¬ 
ri speciali, ognuno è ovviamente la 
progenie di Fong. Devono riunirsi per 
combattere il ritorno sulla terra di Son 
of Hell. 

Ecco, una trama che assomiglia molto 
a The League ofExraordìnay Gentlemen 
di Alan Moore (Wildstorm Comics, 
1999) e che comunque richiama un’in¬ 
finità di storie a fumetti, un plot che 
ripercorre quasi pedissequamente il 
più classico sviluppo narrativo dei fu¬ 
metti supereroistici. 

Struttura 

Ennis e Woo non si prendono nessun 
rischio, la struttura della miniserie - 
articolata in cinque albi - è quantome¬ 
no tradizionale ed essenziale: 

1. Incontro dei personaggi. 

2. Scoperta dei poteri dei personaggi e 
del motivo della loro riunione. 

3. Incredulità seguita da una presa di 
coscienza del loro ruolo di eroi. 

4. Primo incontro con il villain e pe¬ 
sante sconfitta. 

5. Villain a un passo dal dominio del 
mondo. 

6. Rinascita insperata degli eroi. 

7. Vittoria finale con definitiva crea¬ 
zione del gruppo 5 . 

Questo percorso a sette tappe è serra¬ 
to e rigido, non si trova spazio dedica¬ 
to alla caratterizzazione dei personag¬ 
gi se non in figure di archetipi quali il 
credente, il diffidente, l’iroso, il medi¬ 
tativo, il folle dal cuore d’oro, né tanto 
meno aperture possibili della storia sia 
in rapporti interpersonali sia nella pro¬ 
blematizzazione dei superpoteri. La 
storia dice tutto, non lascia alcun filo 
della narrazione in sospeso, misteri da 
risolvere, personaggi da indagare, am¬ 
biguità da sviluppare; nasce e si esauri¬ 
sce come miniserie chiusa nella sua 
unità 6 . Questo va a scontrarsi con 0 
fatto di essere comunque un “numero 
uno”, una storia di presentazione di un 
gruppo di supereroi che appartengono 
per forza di cose all’universo della se¬ 
rializzazione, anche se sembrano ne¬ 
garla. Insomma, la struttura di 
7 brothers vive del paradosso di essere 
esaustiva come sviluppo, presentando 
però personaggi da serie che rimango¬ 
no alla fine come uno scheletro vuoto 
senza spessore alcuno. Mi spiego me¬ 
glio, la storia è incentrata più sullo svi¬ 
luppo della vicenda, sul raccontare una 


61 




ÌSlilliii 


62 



7Brothers 


storia, che sui personaggi che la ani¬ 
mano; i protagonisti sono terribilmen¬ 
te delineati, è un mondo senza ombre 
e aperture. Là dove la narrazione di 
The League ofExtraordinary Gentlemen 
(per esempio) offre decine di storie 
possibili a ogni giro di pagina con per¬ 
sonaggi ed azioni difficili da codificare 
pienamente, 7brothers è dominato dal¬ 
la piattezza e da uno svolgimento nar¬ 
rativo che si dipana senza mai metter¬ 
si in discussione o creare stratificazio¬ 
ne alcuna 

II tocco di Woo 

In tutto questo c’è da chiedersi: “e l’ap¬ 
porto di Woo?”. Per esserci c’è ma è 
piatto e non problematico come il fu¬ 
metto stesso, più che un apporto è un 
“rimandare a”. Infatti, per dare un’i¬ 
dentità “wooiana” al fumetto stesso si è 
proceduto adattando in vignette alcu¬ 
ne caratteristiche inquadrature e situa¬ 
zioni del cinema di Woo. Un sistema 
di citazioni e rimandi molto semplifi¬ 
cato rispetto anche a quanto fece En- 
nis nel sopramenzionato Hitman e 
che, alla fin fine, risulta in un asservir¬ 
si a pagine di “azione” statiche, una 
sorta di storyboard di scene tipiche dei 
film di Woo. 

Questo è il punto, essendoci uno svi¬ 
luppo narrativo che non ha accelera¬ 
zioni brusche e non riesce mai a dare 
un vero e proprio ritmo alla vicenda se 
non quello di uno stanco susseguirsi di 
“già visto”, il momento dell’Azione, del 
confronto Bene vs. Male non è altro 
che una serie di vignette che rimanda¬ 
no in maniera il più esplicita possibile 
alle inquadrature del cinema di Woo: 
un tipo orientale in giacca e cravatta 
che spara con due pistole circondato 
da bossoli volanti, una soggettiva im¬ 


possibile attraverso il buco in un muro 
di un grattacielo, il momento di empas¬ 
se con pistole reciprocamente puntate 
e pronte per far fuoco ecc. Il lettore 
non viene chiamato a nessuno sforzo 
particolare di lettura e di ritorno sulla 
pagina scritta e questo porta anche a 
un impigrirsi dell’azione stessa e un 
processo di riconoscimento extrate¬ 
stuale e nulla più; se non bastasse 
quanto detto finora a rendere l’idea di 
piattezza che domina questo prodotto, 
posso aggiungere che il villain, nel 
momento di massimo potere, gigan¬ 
teggia letteralmente sui palazzi della 
città 7 e che ogni intervento dell’eroe (a 
partire dalla scoperta dei poteri) viene 
creato come un deus ex machina. 

Conclusioni: dirigere un fumetto , un’ope¬ 
razione dì marketing 

Difficile vedere nell’operazione Virgin 
Comics: Directors Cut qualcosa di di¬ 
verso da una mera trovata pubblicita¬ 
ria, così com’è difficile pensare a un 
John Woo impegnato per più di 20 
minuti a “creare” lo stesso 7brothers. Se 
lo scambio di temi e personaggi sem¬ 
bra funzionare in entrambe le direzio¬ 
ni del rapporto cinema/fumetto, lo 
scambio di intellighenzia — anche se 
possibile - ha più possibilità di offrire 
unidirezionalmente risultati interes¬ 
santi: i nomi degli autori del fumetto 
sono decisamente più sconosciuti che 
le loro creazioni, per arrivare al cinema 
devono fare un percorso molto più 
lungo e complesso di quello dei loro 
personaggi ai quali comunque riman¬ 
gono legati a doppio filo. Il percorso 
degli autóri da cinema e fumetto, inve¬ 
ce, è decisamente simile a quello dei 
personaggi di finzione, è un nome co¬ 
nosciuto e di richiamo da associare con 
un prodotto. 


È interessante constatare come - se si 
prendono ad esempio Frank Miller e 
John Woo - in entrambe le direzioni 
dello scambio sono presenti riferimen¬ 
ti diretti all’autore e alle creazioni che 
hanno contribuito alla sua popolarità. 
La creazione fumettistica di Woo do¬ 
veva in qualche modo riferirsi alla sua 
opera in celluloide, esser riconoscibile 
come una continuazione del suo lavo¬ 
ro e della sua “poetica”, non è un caso 
che 7Brothers non sia un fumetto di 
formazione, cosi come non è un caso 
che il fumetto di Jenna Jameson ripor¬ 
ti una protagonista assolutamente so¬ 
migliante, alle prese in abiti scollati in 
una lotta contro demoni infernali. In- 
somma, un appiattimento, una ridu¬ 
zione a icona facilmente identificabile 
e riconoscibile, nessuna sfida al media 
e al suo linguaggio. 

Se Miller, benché adattando i suoi fu¬ 
metti (quindi anche qui un collega¬ 
mento diretto con il lavoro che ha 
creato il suo nome) ha affrontato i li¬ 
miti e le differenze tra i due media, 
Woo non ha mai messo in discussione 
il mezzo in sé, ha appiccicato temi e a 
volte stili senza un attimo di riflessio¬ 
ne o di sfida ma anzi appiattendo le ló¬ 
ro stesse caratteristiche autoriali cine¬ 
matografiche in cliché, diventando 
quasi la caricatura di se stesso. 

Stefano Baschiera 


Note 

1. La creazione di Wes Craven ha avuto una vera 
e propria vita parallela a fumetti, ad iniziare dal 
1989 con l’adattamento di Steve Gerbel per la 
Marvel, passando poi per diversi editori quali In- 
novation Publishing (1991-1992), Trident Co¬ 
mics (1991), Avatar Comics (2005, scritto da 
Brian Pulido) e infine la nuova edizione per la 
Wildstorm Comics scritta da Chuck Dixon. 

2. Scritto per la Darkhorse da Sam Raimi stesso 
nel 1992, ha avuto una ri-edizione nel 2006 da 
Dynamate Press. Da sottolineare come esista un 
raminiano crossover a fumetti Darkman vsArmy 
ofDarkness scritto da Roger Stern e Kurt Busiek 
nel 2006. 

3. http://www.virgincomics.com. Nel website si 
possono trovare le versioni digitali di alcuni albi, 
la cosa interessante è che offrono una strana let¬ 
tura vignetta per vignetta invece che l’interezza 
della pagina (la Marvel per esempio si basa sul 
pdf). 

4. Per rendere più chiara quest’idea di globalizza¬ 
zione, il villain , una volta liberato dalla sua mille¬ 
naria prigionia uccide il cinico magnate artefice 
della sua liberazione e ne assume le sembianze per 
controllare la potente multinazionale di cui era 
capo. 

5. La divisione in sette parti è ovviamente arbi¬ 
traria (potremmo averne 14 come 3). 

6. La seconda miniserie è ora in edicola, ma per 
opera di altri autori. 

7. Si, come Godzilla, un’iconografìa questa, che 
onestamente credevo sparita dal fumetto supere- 
roistico. 





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ISSN 1824-3495